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essere talpa USA


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Da: www.cdt.ch/commenti-cdt/editoriale/42695/wikileaks-cosa-succede-alle-talpe.html

Wikileaks, cosa succede alle talpe

di Carlo Silini - 16 aprile 2011

Chi ha letto nei giorni scorsi il ritratto di Bradley Manning pubblicato da «El País» deve essersi chiesto com’è possibile che nel Paese che si picca di esportare la democrazia nel resto del pianeta, gli Stati Uniti, un giovane di 23 anni venga costretto a dormire nudo in cella d’isolamento, sia controllato ogni cinque minuti dai secondini e obbligato, nell’unica ora concessagli per l’esercizio fisico, a «camminare in cerchio, tracciando degli otto in una stanza vuota».

Deve chiederselo perché Manning in galera non ci è finito perché è un omicida seriale, o perché ha mandato sul lastrico milioni di famiglie dopo dissennate operazioni finanziarie. No, l’accusa per la quale è stato rinchiuso nella prigione militare di massima sicurezza di Quantico, in Virginia – dove vive in condizioni disumane denunciate da Amnesty International – è di aver fornito al sito WikiLeaks documenti segreti sulle guerre in Afghanistan e in Iraq e 250 mila dispacci del dipartimento di Stato USA che mostrano un inquietante «dietro le quinte» della massima potenza del pianeta.

Insomma, lo accusano di essere la gola profonda di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, considerato poco meno nocivo di Bin Laden da politici come Sarah Palin.

Ma a un traditore, finché è solo «presunto», neppure la giustizia militare ha il diritto di torcere un capello. Le prove della sua colpevolezza, se ci saranno, emergeranno a partire da maggio, quando inizierà il processo. Eppure già lo trattano come il più infido dei voltagabbana.

Sia chiaro: ufficialmente le misure prese dalle autorità carcerarie non rispondono alla logica della vendetta. Anzi. Vengono spacciate come condizioni necessarie per proteggere il detenuto Manning da sé stesso. Il giovane soldato, che nel 2007 si era arruolato nell’esercito come analista di intelligence e nel 2009 venne inviato in Iraq, ha infatti avuto la temeraria idea di chiedere spiegazioni sulla durezza del suo regime di isolamento. Quando gli è stato risposto: «Riteniamo che potrebbe farsi del male», lui ha replicato che se avesse voluto farsi del male avrebbe potuto usare l’elastico delle mutande o i suoi sandali. Da allora lo fanno dormire nudo. Per il suo bene, è ovvio.

La vicenda del soldato Manning ci insegna due cose. La prima è che le violenze a lui inflitte puntano a intimidire tutte le «talpe» di WikiLeaks. Gli informatori del sito che sta imbarazzando i potenti di mezzo pianeta sono avvisati: se vengono catturati non ci sarà pietà. È vero che il Pentagono ha già detto che in questo caso non sarà chiesta la pena di morte (punizione «naturale» nei casi di alto tradimento), ma gli avvocati del soldato hanno spiegato che dipenderà dal giudice e non dalla procura decidere se applicare la pena massima in caso di colpevolezza.
Non è comunque irragionevole ipotizzare che il bersaglio finale del processo a Manning sia Assange stesso. WikiLeaks, fino ad oggi, si è dimostrato una fortezza resistente a qualsiasi tentativo di espugnarla. Chi ci ha provato si lecca ancora le ferite. Il gruppo di hacker Anonymous ha sventato per esempio il piano della HB Gary Federal, un’azienda di sicurezza che lavora per il governo USA, che voleva far trapelare falsi scoop a WikiLeaks per poi accusarlo di essere inattendibile. E chi ha provato a lanciare attacchi informatici per sabotare il sito ha dovuto far fronte a contrattacchi mille volte più devastanti. Così ora si cerca di distruggere Assange e, a cascata, di compromettere l’immagine di WikiLeaks, per via giudiziaria.

Se infatti emergerà che Manning non ha fornito spontaneamente i file secretati a WikiLeaks, ma che sarebbe stato Assange a chiedergli di farlo, allora il fondatore del sito verrebbe accusato di complicità. Si aprirebbe con ogni probabilità un secondo fronte giudiziario a suo carico, dopo quello per le accuse di aggressione sessuale e tentato stupro, per le quali è ancora aperta la questione dell’estradizione in Svezia.

La seconda lezione è più amara. Si possono legittimamente sollevare dubbi sia sulla persona di Assange, sia su alcune opacità del sistema WikiLeaks (l’abbiamo fatto più volte), ma fino ad oggi le autorità dimostrano di indignarsi non con chi ha commesso le malefatte denunciate da WikiLeaks, bensì con chi le ha divulgate. Come se la colpa maggiore fosse l’aver svelato un segreto militare o di Stato e non, per esempio, aver ordinato di sparare da due elicotteri Apache contro un gruppo di civili il 12 luglio del 2007 in Iraq, facendo 12 morti (scoop rivelato da WikiLeaks il 5 aprile 2010 mostrando il video della strage).

Come mai, dovremmo chiederci, per quel massacro nessuno è stato trascinato davanti ad una corte militare, mentre il presunto fornitore del video oggi viene umiliato ogni giorno e ogni notte in galera e rischia la pena di morte?


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