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Gianluca Freda – I bambini atomici


Tao
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Avevo 21 anni quando, nel remoto 1986, la centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, esplose sulle pagine dei media con terrificante deflagrazione. Ero, in quei tempi felici, giovane e credulo, seguivo con trepidazione i quotidiani e ad essi delegavo la mia percezione della realtà del mondo. Mancavano appena tre anni al crollo dell’Unione Sovietica, i burocrati dell’URSS erano impantanati nella guerra in Afghanistan, Gorbachev aveva messo le zampe sul Cremlino già da un anno e - senza che in Europa ve ne fosse il minimo sentore - la presenza del blocco comunista, che aveva garantito prosperità e pace al nostro continente per oltre quarant’anni, stava per subire un tracollo rovinoso e irreversibile. L’incidente di Chernobyl fu l’occasione per appioppare una poderosa scoppola propagandistica alla già provata e malridotta patria bolscevica. Allo stesso tempo, del disastro di Chernobyl si servirono i giornali filostatunitensi come “Repubblica” per bloccare sul nascere il nostro programma nucleare nazionale, che avrebbe potuto offrirci col tempo un minimo di autonomia energetica – dunque politica – sottraendoci, almeno in parte, al ricatto commerciale dei dominatori che ci umiliano da oltre mezzo secolo e di cui “Repubblica” curava già allora le pubbliche relazioni.

A leggere le isterie di “Repubblica”, in quel neutronico aprile del 1986, sembrava che tutto ciò che era innocuo e succulento fino a pochi istanti prima, fosse diventato all’improvviso pernicioso e letale. Ed era tutta colpa degli empi eredi di Stalin, le cui nuvole venefiche, dall’Ucraina, dilagavano verso l’Europa inorridita quali araldi di una malvagità inenarrabile. L’insalata era radioattiva e bisognava evitare di mangiarla e di toccarla. Anche il semplice fissarla con insistenza poteva essere pericoloso. Si poteva diventare ciechi e non conveniva sfidare il destino oltremisura. A 21 anni, uno corre già i suoi bei rischi.

L’erba era radioattiva e se ci si camminava sopra bisognava poi buttar via le scarpe, anche se non si era pestato niente. Le melanzane, le carote e le cipolle erano radioattive. Il latte era radioattivo e le mucche, se osservate sull’imbrunire, parevano rilucere di un’inequivocabile e sinistra luminescenza fosforea. I loro muggiti recavano al viandante atterrito il lamento atroce delle interiora devastate dal fuoco del plutonio. La pioggia era radioattiva e il pellegrino incauto, sorpreso a cielo aperto da repentino rovescio temporalesco, avrebbe dovuto cercare scampo – in assenza di bunker antiatomici - sotto il primo portico raggiungibile, pregando Dio che risparmiasse alle sue carni la neoplasia tiroidea e lo strazio dell’agonia pestilenziale. La zuppa di ceci era veleno. Anche l’aria era un po’ radioattiva, benché “Repubblica” non lo dicesse in termini espliciti. Ma sulle sue prime pagine vibravano i possenti editoriali di nonno Scalfari (che mi sembrava all’epoca anche più vecchio di adesso), tra i cui sgomenti anatemi pareva di percepire, inespresso ma poderoso, l’invito ad una prudente apnea. “Non respirate, se potete evitarlo, cari lettori. E’ tutta salute”.
Io leggevo tutti i giorni i resoconti degli “esperti” senza nome che dalle pagine scalfariche ci terrorizzavano per il nostro bene e tremavo di paura. Ricordo che un giorno, mentre dall’università di Milano mi dirigevo verso la stazione centrale (bei tempi di giocosa coglioneria), fui sorpreso per strada da una lieve pioggerellina primaverile, appena bastante ad inumidirmi il cappuccio del piumino.

Per molti giorni restai chiuso in casa, attendendo serenamente la fine. Le eruzioni cutanee che costellavano il mio bel volto pubescente erano divenute il marchio orrendo della Morte Rossa, una galassia di sozzi bubboni d’un livido paonazzo da cui promanava il flagello mortifero del cesio pluviale. Evitavo il contatto e la stessa prossimità fisica con i familiari, temendo d’infettarli di radionuclidi o di essere, una volta conclamatasi la presenza del morbo, consegnato a tradimento al carro turpe dei monatti. Ogni sera, dal lugubre orizzonte, giungeva al mio capezzale il muggito al neon di lampeggianti bovini, presago d’oblio e d’esiziali trasmutazioni.

Quando non morii, ne fui piacevolmente sorpreso. Cercai allora, sulle pagine di “Repubblica”, una spiegazione all’imbarazzante fenomeno della mia sopravvivenza. Mi sembrava scortese mettere in dubbio, con l’irragionevole perpetuazione delle mie funzioni biologiche, la preparazione scientifica degli illustri “esperti” del quotidiano scalfareo, contraddicendone i vaticini. Ma invano. Insensibile al mio dramma umano, “Repubblica” seguitava a discettare imperterrita di Coulomb e nano-curie, di iodio negli ortaggi e di stronzio nel pollame. Soprattutto la questione dello stronzio era trattata in modo approfondito in ogni sezione del giornale. Stronzio di qui e stronzio di là, stronzio di sopra e stronzio di sotto.

Fu allora che iniziai a sospettare qualcosa.

Negli anni che seguirono prestai sempre meno attenzione ai periodici annunci dell’Armageddon con cui i quotidiani nazionali tenevano desta l’attenzione dei lettori insonnoliti. Ci volle molto tempo prima che giungessi alla liberatoria apostasia della negazione assoluta della fede nell’informazione. Il ricordo dell’esposizione allo stronzio giornalistico subita nel corso di quell’Armageddon-edizione 1986, fu il satanasso ghignante che venne a tentarmi nel deserto dell’assuefazione lobotomica ai lanci d’agenzia. E la tentazione perdura.

Ho evitato per giorni questo argomento, perché ho delle forti remore morali a disilludere quei lettori che, avendone ogni possibile diritto, hanno compiuto massicci investimenti psicologici sull’imminente Apocalisse 2011 e si aspettano da essa una retribuzione morale commisurata all’emotività messa in gioco. Esito a distruggere i loro sogni di futuro. Il mondo prossimo venturo sarebbe certamente orribile se le esalazioni di Fukushima non determinassero – come sperato e preventivato – la fine neutronica dell’umanità entro un paio di mesi, tre al massimo. Se il reattore giapponese non ponesse fine alla vita sulla Terra, a noi tutti toccherebbe in sorte, un bel giorno, di stirare le zampe soli e reietti, umiliati da anni di decadenza intollerabile, mentre la giostra delle stagioni umane proseguirebbe la sua corsa, freddamente indifferente alla nostra transizione estrema. Questo non deve accadere. Deus non vult. La nostra presenza in questa valle non può concludersi senza un botto di proporzioni cosmiche, luminoso e potente come la nascita di un sole, che permetta di portarci al seguito, nel nostro viaggio verso l’ignoto, tutto il genere umano in festante corteo.
Eppure, anche in questo momento di riscatto & speranza, il pessimismo della ragione rischia di avere la meglio sull’ottimismo della fede. La triste sensazione, che non riesco a scacciare, è che non accadrà un bel niente. Niente Apocalisse. Niente sublime ecatombe collettiva con cui l’universo mondo ci riconosca la giusta centralità, finendo con noi. Niente nubi ionizzate che sciamino dall’Asia all’Europa facendo strage di popoli e scempio d’armenti. Niente botto.

Invece, desolantemente, tutto il roboante clamore fukushimico minaccia di rivelare impietosamente, da un momento all’altro, la sua reale natura: quella di un incidente della modernità come tanti, montato a neve dai mezzi d’informazione, di proporzioni puramente locali, a cui non solo l’umanità, ma le stesse popolazioni nipponiche potranno restare serenamente indifferenti. Si parla di inabitabilità del sito per circa 20 anni, il che – ammesso e non concesso che questi vaticini siano da considerare credibili - è certamente una prospettiva sgradevole, ma non peggiore di quelle determinatesi a seguito dei tanti affondamenti di petroliere, esplosioni di piattaforme estrattive & incidenti assortiti che attengono al mondo dei combustibili tradizion
ali. I giapponesi non si lasciano certo deprimere per così poco. Anche Hiroshima e Nagasaki sono state ricostruite, in fondo, e sono oggi città densamente popolate. E’ significativo che proprio il popolo che ha subìto sulla propria pelle l’unico vero massacro atomico della storia, manifesti fiducia e non paura verso il programma nucleare civile, una fiducia che, nonostante la caciara mediatica di questi giorni, i giapponesi non si sognano nemmeno di mettere in discussione.

Peggio ancora: l’incidente di Fukushima rischia, una volta dissoltasi la nube terroristica generata dai reattori dell’informazione, di dimostrare il contrario di ciò che gli ambientalisti nostrani vorrebbero. E cioè che il nucleare è, tra tutte le forme di energia oggi utilizzate, quella che presenta il maggior valore nel rapporto vantaggi/rischi. C’è voluto un maremoto di proporzioni bibliche, che ha spostato di 8 centimetri la linea costiera del Giappone e di 4 centimetri l’asse terrestre, per provocare ad una sola centrale giapponese un incidente le cui proporzioni, nonostante gli sforzi dei media per dimostrare il contrario, appaiono estremamente limitate. In Europa o nella pianura padana un maremoto con onde alte 10 metri, come quello avvenuto in Giappone, è un fenomeno la cui probabilità è prossima allo zero; il che spiega perché gli ambientalisti europei debbano pigiare l’acceleratore sull’isteria irrazionale per impedire al pubblico di riflettere su questo fatto. E’ anche verosimile, vista l’esperienza, che le prossime centrali giapponesi vengano costruite con misure di sicurezza anche maggiori di quelle attuali – che comunque si sono rivelate già molto efficaci – il che riduce tristemente a percentuali minime le nostre chance di lasciare questo mondo in compagnia dell’intera umana fratellanza. Se si facessero i dovuti conti, si scoprirebbe che in quasi quarant’anni di produzione energetica nucleare nel mondo, le vittime dell’atomo sono assai minori, non dico di quelle provocate da incidenti petroliferi e gasiferi di varia natura, ma perfino dei passati a miglior vita in seguito a scivolone nel box doccia. E taccio su paragoni con altri fenomeni della modernità, quali il traffico automobilistico, per non avvilire troppo chi nell’armageddon fukushimico ha riposto tutte le sue speranze di affermazione politica.

Poiché la speranza è l’ultima a morire, i media si aggrappano a tutto pur di non deludere il fideistico millenarismo dei propri lettori. Sorvolando sui grotteschi paragoni con Chernobyl (improponibili, vista la diversità strutturale dei due impianti), TV e giornali hanno puntato molto sul martirio degli eroici operatori della sicurezza, presentati come moderni kamikaze pronti all’harakiri per la salvezza del mondo e della patria. In realtà, da ciò che si è saputo finora, solo tre tecnici <http> che erano al lavoro per ripristinare l’energia elettrica al reattore n° 3 hanno subìto bruciature alle gambe per essere rimasti immersi nell’acqua radioattiva nel corso delle operazioni. Bruciature, peraltro, di lieve entità e prontamente curate dalle equipe mediche. Il loro equipaggiamento ha rivelato che le dosi di radiazioni assorbite erano di circa 170 millisievert, laddove il limite massimo previsto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per mantenersi entro limiti di sicurezza varia dai 250 ai 500 millisievert. Gli effetti delle radiazioni sulla salute iniziano a manifestarsi a partire dai 1000 millisievert e comunque diventano comuni solo a partire da dosi di 2000 mSv. E perfino con dosi simili, il rischio di incremento delle probabilità di tumore è minimo: occorre che un numero consistente di persone resti esposto a queste dosi per poter rilevare conseguenze sanitarie misurabili.

Alla fine dei conti, ciò che risulta più interessante del luna park dell’improbabile montato sull’evento, è la possibilità di studiare nel dettaglio il rapporto adulto-bambino con cui i media sono soliti rapportarsi ai propri fruitori (vedi questo magnifico articolo di Mondart <http> per ulteriori delucidazioni), considerati alla stregua di marmocchi piagnucolosi da spaventare o rassicurare, a seconda dell’umore del momento. I rapporti giornalistici sulla situazione dell’impianto giapponese si muovono entro un perimetro narrativo il cui tono varia dal puerile spinto (vedi il filmato qui sopra, in cui le esalazioni radioattive vengono assimilate alla pupù di un bambino con l’intestino in disordine) al raccapricciante tradizionale, con fosche preconizzazioni di ecatombi neoplasiche e fallout globali. Facevano così anche i nostri genitori, quando ci illustravano, con disarmante scemità, cause e conseguenze della morte del nonno. Se eravamo buoni, ci spiegavano che il caro estinto era in paradiso a giocare a tressette con gli angeli. Se eravamo cattivi, minacciavano terrificanti ritorni dall’oltretomba del temuto energumeno, che ci avrebbe redarguito con occhi di brace o tirato le orecchie nel cuor della notte. Mai una volta che ci fornissero, trattandoci da adulti, una versione assennata e ragionevole dell’accaduto. Immagino che si tratti – per i genitori come per i media - di un problema di controllo del comportamento: relegare i marmocchi in un universo virtuale, di cui è l’adulto a definire di volta in volta i connotati, consente di tenerli buoni e obbedienti mentre i grandi sbrigano in pace le loro faccende.

A tutti i bambini catodici in ascolto, dedico pertanto la mia preghierina della buonanotte, auspicando una lieta e propizia concretizzazione dei loro legittimi e cataclismici desideri.

Io credo nella santa, santissima deflagrazione fissile, nunzia di purificazione e resurrezione. Credo in un solo botto, padre onnipotente, creatore del cielo e della terra. Credo nella santa nube al plutonio e nell’angelo vendicatore della fusione totale del nocciolo, che sconfiggerà il male, solleverà i giusti dalla sofferenza e li ristabilirà nella loro condizione di beatitudine. Credo nel calvario atomico, disprezzato e deriso dagli stolti, ma stabilito dall’eternità e annunziato dalle sacre scritture editoriali. Attendo con fede la purificazione isotopica dell’universo, l’annichilimento termico della carne e il trionfo dello spirito, che ricongiunga l’Uomo alla vita Eterna. Nei secoli dei secoli, amen.

Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.altervista.org/
Link: http://blogghete.altervista.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=811varie&Itemid=44#comments
3.04.2011


Citazione
rosacroce
Estimable Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 185
 

consiglio al sig freda di informarsi su dati veri ,sulle conseguenza delle cantrali nucleari per l'ambiente ,invece di sparare cazzate prive di qualunque considerazione.
le centrali nucleari a uranio sono
l' ennesima opera di una civilta ' disperata e affamata di energia ,disposta a ogni mezzo pur di continuare a trasformare in un letamaio puzzolente e mortale,questo bellisimo giardino di vita, quale era la terra una volta.


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AEON
 AEON
New Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 3
 

Augurerei a Freda la nascita di un bambino atomico,se non fosse una crudeltà atroce per quella creatura...Come si può essere così dementi?


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dana74
Illustrious Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 14335
 

Freda prendi Veronesi ed andate a fare i liquidatori a Fukushima.
Ecco cosa succede quando si tenta di pontificare su argomenti di cui non si ha la competenza.
Freda come Blondet, sono ottimi per questioni geostrategiche, son ferrati e si nota, purtroppo pensano che se son competenti di una materia lo siano automaticamente per le altre e pare si esonerino dall'obbligo di informarsi, quantomeno per evitare di sparare cazzate.

..un incidente come tanti.....basta questo per capire come non abbia capito nulla tantomeno la gravità ed è molto grave non capirlo mentre sta accadendo


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vic
 vic
Illustrious Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 6373
 

Freda, datti una calmatina.

Guarda che su quell'infame insalata c'era del cesio radioattivo, non c'era sale da cucina. Il consiglio di spazzolarla, non e' che sia stato molto arguto. Spazzolo nel lavello e dopo un po' mi ritrovo il tutto dentro un altro alimento, per esempio un bel pesce persico.
Fu cosi', mentre tutti spazzolavano l'insalata che di solito invece mangiavano sempre piena di terra, che il cesio-137 e' finito dentro ai pesci del Ceresio, rimasti incommestibili per oltre una decina d'anni. Non e' proprio niente, se si tien conto della distanza da Cernobyl.

Inoltre bisogna dire che i danni veri, di massa, del nucleare all'uranio sono subdoli, non si vedono immediatamente spazzolando l'insalata: sono l'uranio impoverito, che e' poi l'uranio di scarto (quasi tutto), sono le bombe atomiche, i sottomarini atomici, i depositi di armi atomiche e sono i danni genetici al DNA, nostro e degli animali.

Come faccia uno che si dice giornalista a non accorgersene, non riesco a capirlo.

Leggevo prima un'intervista da lasciar allibiti al noto divulgatore ed organizzatore scientifico Zichichi. Per lui la colpa del disastro di Fukushima e' dell'ingegneria civile. E' come dire che la colpa se perdo una gamba in un campo minato afghano e' del contadino padrone del campo e non della mina o di quello che la mina ce l'ha messa.

Intanto cerco di seguire attentamente cosa avviene nel minuscolo settore delle LENR, perche' una cosa l'ho capita: Zichichi and company di queste cose non sanno un tubo. Esattamente come Freda.

E' l'ora di lavare le zucchine, per cui vi saluto


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