Il progresso non coincide in nessun modo con lo sviluppo, scriveva più di trenta anni fa Pier Paolo Pasolini. Oggi registriamo dati molto chiari: il rapporto Living Planet del 2006 del Wwf ci dice che nel 2050 ci occorreranno due pianeti per procurare le risorse rinnovabili [cibo, legna e acqua]. Il rapporto Stern dice che nel 2050 i cambiamenti climatici avranno effetti catastrofici dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Il rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia ci ricorda che tra cinque anni entreranno in crisi i giacimenti petroliferi di Russia, Usa e Messico.
Intanto, in Francia, in vista delle prossime elezioni presidenziali, è stato preparato un Contratto per l'ambiente e tutti gli schieramenti politici lo hanno firmato. Si tratta di un contratto costruito su cinque punti fondamentali e l'inasprimento della tassa sul carbone è la misura più impegnativa. Ma i programmi politici annunciati sono poi accomunati da un altro aspetto importante: la "crescita". E allora la sensazione è quella di predicare nel deserto quando si dice che dobbiamo uscire dalla crescita e organizzare un'altra società. Tale dichiarazione appare blasfema e la crescita invece cosa assolutamente sacra.
Quanto alla decrescita, siamo di fronte a un concetto o a uno slogan? Credo che la decrescita non sia un concetto, ma uno slogan che vuole provocare. Sarebbe più corretto parlare di "a-crescita", perché si deve considerare che la crescita è l'aspetto fondamentale sul quale la religione dell'economia pone l'accento da molti anni. "Crescere per crescere": questo è il fine della società occidentale. Consumo, produzione, lavoro, profitto: abbiamo dimenticato la gioia di vivere, i nostri veri bisogni, la vita.
Ma è chiaro che non ha senso nemmeno il contrario, "decrescere per decrescere". Appare urgente inventare un altro modo di vivere, per quella che potremmo chiamare società della decrescita. Il sistema industriale ha creato tanta miseria e il desiderio di uscire da questo sistema è stato chiamato in diversi modi: socialismo, associazionismo, economia sociale. Ora c'è la società della decrescita.
Possiamo vederla come una società autonoma con le proprie leggi che rappresenta una contrapposizione alla società dello sviluppo, quella dei "gloriosi anni trenta", quando gli economisti potevamo parlare senza essere contraddetti dai "circuiti virtuosi dell'economia". Che però, con il passare degli anni, sono diventati perversi e allora la crescita economica, l'accumulazione del capitale, la concorrenza senza pietà hanno prodotto la crescita senza limiti delle disuguaglianze e il saccheggio sfrenato della natura. La natura e i popoli del sud del mondo hanno pagato amaramente la nostra crescita folle, soprattutto i popoli che non condividono l'idea di controllo della natura ad opera dell'uomo.
Il circuito virtuoso della società della decrescita, come detto in altre occasioni, non può avere un programma politico, ma un modello concreto, un sogno possibile. Più semplicemente un circuito virtuoso dove le tappe si legano l'una all'altra: sono le ormai note otto "R" [rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare e riciclare], di cui abbiamo già parlato anche su Carta.
Abbiamo nella nostra testa un martello economico e se in testa hai un martello, la cosa più spontanea che ti viene in mente sono solo i chiodi. I chiodi sono i verbi produrre, lavorare, sfruttare sempre di più la natura, la tecnologia e la modernità. Per cambiare i valori e l'immaginario, non bisogna essere un guerriero, ma un buon giardiniere armato di pazienza, lentezza, reciprocità, altruismo certamente non dell'odio. Attualmente i media che tipo di valori propongono? Non certo quelli della società della decrescita: non può esserci un risultato immediato, il processo sarà lungo. Ma sarà "per amore o per forza".
Serge Latouche
Fonte: www.ariannaeditrice.it
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=9170
Tratto da: Carta settimanale numero 7 febbraio 2007
* da un intervento di Serge Latouche, trascritto da Daniela Degan del Tavolo dell'altra economia di Roma, realizzato in occasione di un incontro promosso dalla Fondazione Basso