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I numeri, la pancia, la ricostruzione


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Per una settimana ho smesso con la politica.
Dopo aver passato i giorni a cavallo tra il 12 e il 14 aprile in treno (Torino-Fasano e ritorno, per complessive 21 ore) a correggere le bozze di un manuale di storia moderna per licei, a chiacchierare con elettori migranti e a litigare con passeggeri arroganti (convinti di avere il diritto di guardare l’ultimo film di Verdone al computer con il volume al massimo, in mezzo a settanta persone del tutto disinteressate - ma anche del tutto prive del coraggio di difendere i propri diritti!), ho deciso che mi meritavo qualche giorno di riposo.

Non sono però riuscito a smettere di chiedermi “Perché di nuovo Berlusconi?”, “In che Paese viviamo?”, e dato che le possibili risposte si rincorrevano e si sovrapponevano l’una all’altra, qualche giorno fa ho deciso che l’unico vero rifugio potevano essere i numeri.
Così, sono andato a prendere i resoconti elettorali delle elezioni politiche dal 1994 ad oggi e ho riportato su due fogli di carta ciò che mi interessava: da una parte i voti di Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega; dall’altra quelli dell’ex PCI e dei Verdi. Non ho tenuto conto né delle alleanze (se Rifondazione o la Lega correvano da sole o in coalizione) né delle leggi elettorali, ma solo del numero di voti che posso definire di destra o di sinistra.
Per semplificare, ho limitato l’indagine alla Camera e, per gli anni in cui il sistema era misto (uninominale e proporzionale), ho considerato i dati del proporzionale, che mi sembravano i più significativi.
Il risultato dell’indagine è questa tabella. (*)

Ora, la prima considerazione da fare è che in Italia, dal 1994 ad oggi, c’è SEMPRE stata una maggioranza relativa di destra (perché considerare la Lega un partito di sinistra populista è come dire che il Partito Fascista era un partito socialista un po’ troppo autoritario!).
Le vittorie elettorali del centro-sinistra, quindi, non hanno mai coinciso con un effettivo cambio di rotta da parte degli elettori, ma piuttosto con una perdita di consensi di Berlusconi, e con una crescita, nei due schieramenti prodiani, più della sinistra che del centro.

La seconda considerazione significativa è che i risultati di Rifondazione e Lega, fino al 2006, sono perfettamente paralleli: se si confrontano i dati, si vedrà che quando cresce o cala la Lega cresce o cala anche Rifondazione, e che per entrambe l’anno migliore è il 1996 (poi il 1994, il 2006, e infine il 2001). Se si considera, inoltre, che nel 2006 e nel 2001 c’erano anche i Comunisti Italiani, allora si capirà che non c’è MAI stato quel travaso di voti, di cui molti parlano, da sinistra a favore della Lega – almeno fino a quest’anno.
Gli operai che votavano Lega, insomma, ci sono sempre stati ma, fino ad oggi, non venivano né da Rifondazione né dai Comunisti Italiani: erano semplici elettori della Lega che andavano a votare o se ne stavano a casa.

Infine, un altro dato eloquente riguarda le astensioni: gli anni di minore affluenza alle urne, il 2001 e il 2008, sono quelli immediatamente successivi ai governi di centro-sinistra. Soltanto che, mentre nel 2001 hanno perso voti tutti i partiti di sinistra, nel 2008 i voti ex DS sono saliti quasi ai livelli del 1996 (questo sempre secondo una mia stima basata sulla verosimile impossibilità che la Margherita, con Veltroni candidato premier, abbia portato al PD gli stessi voti dei DS).

Fin qui i numeri.
Il punto adesso è: che ce ne facciamo?, da dove vogliamo cominciare?
Per come la vedo io, bisogna capire prima di tutto che cosa porta un paese in cui la maggioranza delle persone diventa sempre più povera e perde progressivamente dignità e diritti, a votare per un uomo che diventa sempre più ricco e potente calpestando la legge e le istituzioni, e che si ripromette pubblicamente di continuare su questa strada.
La risposta che mi do, numeri alla mano, è questa: la capacità di quest’uomo di “allevare” degli elettori che non abbiano la minima capacità critica, e di riuscire, nello stesso tempo, a portare i propri antagonisti sul proprio campo di battaglia, costringendoli a una guerra al ribasso in ogni settore – dalla cultura ai diritti dei lavoratori, dall’informazione all’ecologia, dalla ricerca scientifica alla laicità dello stato. Non c’è uno solo di questi ambiti politici – le cui regole sono, cioè, stabilite dal potere legislativo – nel quale negli ultimi quindici anni non ci sia stato un peggioramento tanto forte da apparire irreversibile o peggio ancora assuefacente.

Se ci sono, oggi, in un piccolo comune come il mio, dei genitori che permettono alle proprie figlie di non andare a scuola per settimane e di passare la giornata nella sede di un comitato elettorale a distribuire bigliettini per pochi spiccioli; se si sorride, non al bar o allo stadio ma sui quotidiani e nei telegiornali, di una disputa tra Alessandra Mussolini e Daniela Santanché su chi abbia il diritto di definirsi fascista, e di sognare l’uomo che ha emanato le leggi razziali in Italia e che ha perseguitato le donne e gli uomini grazie ai quali viviamo in un paese democratico (alcuni ancora vivi!); se il popolo italiano non ha più memoria né senso civico; se si girano film come “L’allenatore nel pallone 2”, “Eccezziunale Veramente 2”, “Grande, grosso e Verdone”, in una sorta di eterno ritorno al qualunquismo e allo yuppismo; se i programmi televisivi cosiddetti “colti” sono quelli in cui, invece di parlare con Gennarino e Maristella di quando si sono fidanzati, si parla con Antonio Scurati di fellatio e con Walter Veltroni di look, sorseggiando birra; se l’encomiabile Beppe Grillo raccoglie consensi da cittadini che, spesso, nei loro commenti sul suo blog, si dimostrano molto più incompetenti e irresponsabili dei politici di cui si lamentano – i quali sono già irrimediabilmente incompetenti e irresponsabili –; se accade tutto questo è perché c’è una classe politica e dirigente che, in maniera consapevole, con costanza e premeditazione, ha deciso di forgiare il proprio elettorato (già di per sé predisposto alla superficialità) per poterlo adoperare ogni volta che ne avesse avuto bisogno, e perché c’è un’altra classe politica che si è illusa che l’intellettualismo accademico da un lato e la povertà precaria dall’altro potessero compensare il suo rifiuto di imbarcarsi in una guerra culturale necessaria, che andava dichiarata davvero, combattuta davvero, e forse anche persa davvero, ma che avrebbe quanto meno creato le condizioni per ricostruire, un giorno, una società fondata su valori altri rispetto a quelli imposti dal “principale esponente dello schieramento a noi avverso”.
Quello che ora ci tocca, quindi, è ripartire da qui - vale a dire da quindici anni fa.

Se non lo facciamo; se non recuperiamo la dignità e il senso civico che furono dei nostri nonni, dei vecchi che ora aspettano di morire per potersi sottrarre allo spettacolo della macellazione dello Stato per il quale hanno combattuto; se non ci costringiamo a sorridere di meno, a smettere di innalzare la pseudo-ironia a canone di esistenza (ché la vera ironia non è mai imparentata con la pavidità, con la superbia e con l’indifferenza), a riprendere con maggior forza quei discorsi che quindici anni fa reputavamo necessari e che ora spesso vengono giudicati “pesanti” e “vecchi”; se non decidiamo, noi, indipendentemente dalla classe politica, di re-interpretare in modo corretto la democrazia, affermando che ciascun cittadino ha il dovere di prendersi cura, ogni giorno, dei propri diritti; se non ci sforziamo, una volta per tutte, di porci davanti al mondo con la curiosità e con l’umiltà di chi è disposto a ripensare al proprio modo di vivere – e di combattere –, in nome dell’unico fine possibile, che è quello di rimettere in piedi un concetto di progresso che contenga in sé il valore della giustizia; se non ci impegniamo, quindi, a tras
formare questa ennesima e dura sconfitta (la peggiore, io credo, della nostra vita di elettori) in un’occasione per tornare a scegliere liberamente, senza vincoli tattici o atti di fede, le ragioni per le quali lottare, allora ci restano soltanto l’omologazione, la posa cinica o la pazzia – l’ingenuità, ormai, non ce la possiamo più permettere.
La sinistra di cui facciamo parte è quella che si è tappata il naso per assecondare una mai riuscita e infruttuosa rincorsa al centro – che tra l’altro, se fosse riuscita, avrebbe portato frutti che non ci sarebbero piaciuti. Il risultato è stato la scomparsa di una qualsiasi voce vagamente “di sinistra” – discutibile e screditata ma forse ancora necessaria – dal parlamento, e l’aumento dell’astensionismo.
L’unica ricostruzione possibile, adesso, è perciò una ricostruzione dal basso, che tenga conto dell’esigenza di un cittadino di sinistra di poter votare per un partito di sinistra; che coinvolga le voci libere, le teste pensanti, capaci di convertire il disagio sociale in forza propositiva; e infine che comprenda e interpreti le ragioni degli astenuti, per recuperarli alla vita politica.
Prima, però, dobbiamo essere noi a dichiarare conclusa, con il 2008, l’epoca dei nasi tappati, degli occhi chiusi e della rassegnazione a un indistinto magma politico lontano dalla realtà, e dobbiamo farlo non per stabilire dei confini invalicabili, o per rinfacciare delle colpe – il gioco preferito dalle nomenklature veterocomuniste – ma per difendere le nostre idee e per evitare di svenderle ancora, in futuro, in nome di una sempre meno onorevole sconfitta.

Le prossime elezioni si svolgeranno tra cinque anni, e Berlusconi, per la prima volta, non sarà candidato. Veltroni dovrà capire che non è al centro che il PD potrà costruire la sua vittoria, sia perché il centro, in Italia, respinge ogni tentativo di rinnovamento (lo dicono i numeri), sia perché i suoi avversari saranno una destra logorata dall’esperienza di governo e un centro “originario”, “indigeno” affamato di riscatto e appoggiato dalle gerarchie cattoliche. L’unico bacino sicuro sul quale Veltroni potrà contare sarà quello della sinistra, e sono i voti della sinistra quelli di cui, d’ora in avanti, dovrà prendersi cura, affinché siano sempre più forti e consapevoli.

La mia idea – forse dovrei dire la mia necessità –, quindi, è quella di dare vita a un laboratorio permanente dal quale vengano fuori proposte che portino, entro pochi mesi, alla stesura di un manifesto in cui si esplicitino le posizioni, le esigenze – le identità – dei cittadini che si considerano “di sinistra” e che si propongono di lavorare alla creazione di un partito o di uno schieramento che sia loro “corrispondente” - in ogni senso.
Bisogna stanare e coinvolgere “le menti migliori della nostra generazione” che abbiano delle idee vive riguardo la strada da percorrere in ogni ambito della vita pubblica – dall’economia all’ambiente al diritto alla politica alla cultura al cinema alla letteratura all’architettura…
Facciamo quello che sappiamo fare meglio: discutiamo, appassioniamoci, pensiamo, e infine schieriamoci – senza vanità, senza presunzioni, senza pose e autocompiacimenti.
E vediamo che cosa ne viene fuori.
Forse è arrivato il momento di smettere di cercare altrove – sui giornali, nei libri, al cinema e persino in parlamento – i nostri Voltaire, i nostri Rousseau, i nostri Diderot e i nostri Robespierre. Forse è a noi che tocca provare a capire se siamo davvero capaci di guardare in faccia la realtà e di prenderci la responsabilità di cambiare almeno un pezzo del nostro futuro.

“Non abbiamo bisogno di buoni politici, ma di buoni cittadini”.
(Jean-Jacques Rousseau)

“Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa più dove si vada”.
(Johann Wolfgang von Goethe)

Leonardo Palmisano
ha trentatré anni. Si è laureato in Filosofia con una testi su “Delitto e castigo” di Dostoevskij. Lavora come redattore free-lance per alcune case editrici, ed è stato per due anni web editor per minimum fax. Ha terminato un romanzo, non pubblicato, dal titolo “il soggetto

Leonardo Palmisano
Fonte: www.nazioneindiana.com/
Link: http://www.nazioneindiana.com/2008/04/26/i-numeri-la-pancia-la-ricostruzione/#more-5775
26.04.08

(*) http://www.nazioneindiana.com/2008/04/26/i-numeri-la-pancia-la-ricostruzione/#more-5775


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