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Il Referendum sull’euro e i suoi critici


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Curiosa è la propensione di molti intellettuali e attivisti “anti-euro” a criticare con estrema veemenza chi propone di riservare all’esito di una consultazione popolare la scelta di rimanere o fuoriuscire dalla valuta unica. Spesso tali critiche sono più dure di quelle rivolte ai sostenitori politici dell’euro.
Viene da chiedersi le ragioni di tale “fuoco amico”.

· In molti sostengono che il referendum sia semplicemente incompatibile con il quadro costituzionale vigente, contrassegnato dal divieto di consultazioni popolari sugli atti di ratifica di trattati internazionali; perciò non si tratterebbe di una scelta inopportuna, quanto irrealizzabile.

Questa critica è chiaramente pretestuosa, e ciò si ricava dall’atteggiamento stesso di chi la fa. Nessuno di questi infatti sottolinea la necessità che i cittadini si esprimano direttamente sull’euro: l’osservazione tecnico-giuridica è sempre strumentale alla preferenza (tutta politica) che la consultazione non si tenga. Non si tratta dunque di un “vorrei ma non posso”, ma di un atteggiamento cavilloso di chi in fin dei conti spera che la Corte Costituzionale dichiari inammissibile il quesito referendario. A tale argomento si può controbattere che la questione non è giuridica, ma politica. La consultazione si può tenere, se è introdotta mediante Legge Costituzionale. Le Camere che si esprimeranno contro tale Legge (proposta dal Movimento 5 Stelle)* si assumeranno la responsabilità di negare ai cittadini il diritto di avere voce in capitolo sulla questione dell’euro.

· Altri opinano che un referendum del tipo di cui stiamo parlando sarebbe, per così dire, “a perdere”. La potenza mediatica dell’establishment, per ora solidamente pro-euro, sarebbe tale da privare i cittadini della loro capacità di raziocinio: una campagna di terrorismo sulle sorti dell’Italia fuori dall’euro sarebbe sufficiente a far perdere la consultazione a chi vuole il ritorno alla Lira. D’altro canto, mercati e risparmiatori non starebbero a guardare: la prospettiva dell’eurexit provocherebbe una ciclopica fuga di capitali dal nostro paese, che vedrebbe così definitivamente affossate le proprie speranze di ripresa.

Questo atteggiamento denota fariseismo e ipocrisia, soprattutto se si guarda a chi lo adotta. Non si fa riferimento ai sostenitori della valuta unica, il cui astio anti-referendum non provoca certo stupore. Ci riferiamo invece a determinate persone (e movimenti politici) che l’uscita dall’euro la vogliono, ma per decreto. Analizziamo una fallacia alla volta.
Affermare che il referendum non si debba tenere perché c’è il serio rischio che lo si perda non è cosa meritevole di commento. Non ci dice molto sull’opportunità della consultazione popolare, quanto della sicurezza nelle proprie idee che contraddistingue chi condivide simili opinioni. Il potere mediatico è in mano all’establishment, non c’è dubbio. Occorre dunque sostenere solo referendum che piacciano all’establishment? Non solo; affermare che è poco opportuno affidare alla scelta diretta degli elettori un tema così importante come quello dell’euro tradisce un profondo disprezzo per questi ultimi.

D’altro canto, piegarsi al potere economico delle classi dirigenti (in senso lato) non è meno grave che piegarsi a quello mediatico. Cedere di fronte alla prospettiva della fuga di capitali è per gli attivisti anti-euro l’equivalente di arrendersi di fronte alla minaccia, da parte delle imprese, di delocalizzare la produzione all’estero: è non a caso il comportamento tipico dei sindacati maggiormente collusi col padronato.

Queste considerazioni valgono in via generale. Gli argomenti di cui sopra diventano però inaccettabili quando vengono fatti propri da chi vuole l’uscita dall’euro per decreto. Un decreto è infatti un atto governativo. Fino a prova contraria attualmente al Governo non ci sono forze politiche anti-euro. Queste si trovano all’opposizione, e per accedere all’esecutivo dovranno passare per una (dura) campagna elettorale, nella quale tali forze si distingueranno proprio per la proposta di uscire dall’euro. Tutti i pericoli insiti nel potere mediatico ed economico dell’establishment, posti alla base della critica all’eventualità del referendum, sarebbero integralmente presenti anche in questa campagna elettorale, senza alcuna differenza. La critica si rivela così intrisa di ipocrisia e malafede.

Viene da domandarsi le ragioni che stanno dietro ad una critica così inattendibile. Probabilmente si tratta di ragioni di ordine politico. I diversi soggetti che, ormai da anni, si prodigano nella campagna anti-euro (non poche volte con successo) ma che escludono che la soluzione di questa vicenda possa essere data da una consultazione popolare non stanno facendo altro che costruire, in via preventiva, il consenso di cui avrà bisogno il Governo che, presto o tardi, ci porterà fuori dall’euro, per decreto. Tale Governo sarà, giocoforza, espressioni delle forze di destra-centro-sinistra che hanno inventato e gestito la valuta unica; esso amministrerà la transizione dall’euro alla nuova valuta (nazionale?) secondo logiche e criteri anti-popolari. Affermando che l’uscita dall’euro è inevitabile e che non sarà un prodotto di una iniziativa dei ceti popolari, o più genericamente dei cittadini, si prepara la giustificazione a qualunque malefatta di questo futuro Governo.

· C’è chi, non del tutto a torto, crede che l’idea del referendum sia poco più di una boutade volta a permettere a chi la introduce nel dibattito di rimanere ambigui rispetto alla possibilità di uscire dall’euro. La critica riguarda soprattutto la linea tenuta da Beppe Grillo fino a poche settimane, fino a quando cioè ha assunto un profilo anti-euro più netto e riconoscibile.

C’è del vero in questo argomento. Per molto tempo l’ipotesi del referendum è risultata utile a Grillo per spogliarsi della responsabilità di prendere una posizione precisa, demandando il giudizio sull’euro agli elettori.
Non si può non notare, tuttavia, che oggi il referendum potrebbe sortire un effetto opposto: potrebbe cioè costringere chi ancora si nasconde dietro atteggiamenti ambigui ad esprimersi chiaramente, per un sì o per un no.
Stiamo parlando di Matteo Renzi.

Renzi non è un politico sinceramente europeista. Intendiamoci, non ci riferiamo a posizioni meramente ideali, ma politiche in senso stretto. Renzi non ha costruito la sua scommessa politica sul progetto di integrazione europea, bensì su una svolta neo-nazionalista delle classi dirigenti del nostro paese. Renzi non solo vuole spadroneggiare in Italia senza condizionamenti esterni, imitando quello che è stato l’atteggiamento dei governi francesi degli ultimi anni; lui ambisce persino a dettare la linea all’intera Unione Europea. In questo non è che l’interprete di una tradizione politica italiana, che vede lo spazio europeo come l’unico campo nel quale è possibile una affermazione della potenza nazionale italiana. L’intensità con cui l’attuale Governo ribadisce (anche con i fatti) questo intendimento è però senza precedenti.
Se quanto appena scritto appare paradossale, invitiamo a riflettere su un dato. Renzi interpreta una politica filo-padronale e di destra economica, su questo non ci dovrebbero essere dubbi. Una linea non dissimile da quella perseguita dalle istituzioni europee. Renzi non attacca queste ultime perché non condivide tali politiche, ovviamente; le attacca perché vuole essere lui il soggetto agente di queste politiche, riaffermando il primato dell’esecutivo nazionale sulle istituzioni europee. È un atteggiamento integralmente nazionalista.
Naturalmente Renzi ha cura delle proprie ambizioni europee, ma ha ancora maggior riguardo alla conservazione del proprio potere “domestico”. È anche per questo che disobbedisce alle indicazio
ni degli euroburocrati in tema di bilancio pubblico: se fosse ligio a tali indicazioni, non resterebbero margini per erogare mancette elettorali e prebende fiscali ai potentati economici nazionali. Qualora la conservazione dell’euro entrasse in contrasto con l’obiettivo di mantenere il potere, Renzi non avrebbe esitazione a “scaricare” la valuta unica; del resto, lui non è compromesso con i responsabili politici dell’ingresso dell’Italia nell’euro (i vertici del fu centrosinistra), con i quali anzi è perennemente ai ferri corti. Allo stato è proprio Renzi il più credibile candidato alla guida del Governo che condurrà l’eurexit in senso recessivo e anti-popolare.

Per ora, tuttavia, Renzi non si sbilancia, e assume la parte dell’europeista critico, pronto a sfruttare qualsiasi opportunità. Un’eventuale consultazione referendaria sul tema sortirebbe però l’effetto di stanarlo. Il Premier sarebbe costretto a dare un’indicazione di voto, rimanendo vincolato ad essa, e perdendo così molti margini di manovra. Il referendum indebolirebbe Renzi.

La proposta referendaria è dunque esente da qualsiasi difetto? Non è così. Ma ne parleremo nel prossimo post.

CM
Fonte: http://il-main-stream.blogspot.it
Link: http://il-main-stream.blogspot.it/2014/11/il-referendum-sulleuro-e-i-suoi-critici.html#more
8.11.2014

*Sarebbe interessante capire quale sia la posizione del Prof. Paolo Becchi, che fino a poco tempo fa condivideva l'idea che il referendum fosse un'assurdità giuridica. E' ancora di quell'opinione?


Citazione
Rosanna
Famed Member
Registrato: 3 anni fa
Post: 3536
 

Bellissima analisi di Claudio Martini, sempre molto lucido, però se mi trova perfettamente d'accordo con la rivalutazione del referendum proposto da Grillo, così disprezzato da parte del "fuoco amico",

avrei qualche dubbio sull'operato di Renzi, che senz'altro si sta giocando le giuste carte per guidare la transizione dall'euro al no-euro, ma non
credo abbia l'abilità politica di farlo, e poi non penso nemmeno che il passaggio sarà così privo di incognite e di traumi politici.


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