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Il vincitore


Tao
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«Non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera, semmai voglio essere ricordato per i miei sogni. Dovessi morire, tra cento anni, vorrei che sulla mia lapide fosse scritto ciò che diceva Nelson Mandela: un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare. Vittorio Arrigoni, un vincitore». Vittorio si accompagnava con docilità alla grandezza reale dei suoi sogni, ma alludeva inevitabilmente alla nera ombra che si abbinava al suo raro coraggio fisico, un’ombra che lo ha raggiunto prima di quei cent’anni, proprio un anno fa. Un anno dopo la morte di Vittorio Arrigoni siamo interrogati in profondità dal “vincitore”, anche quando scontiamo la sconfitta profanatrice che ha spezzato la sua vita.

Le doppiezze, le disparità fra il dire e il fare, il progressismo che non smuove nulla, il funambolismo degli intellettuali, la manifattura usa-e-getta dell’eroismo, tutto questo abita lontano dalla memoria di Vik. Perciò i cent’anni e più saranno segnati davvero dalla sua memoria. Non tutto sarà polvere di polvere, fumo di fumo. Non tutto è destinato all’oblio triturante dei media menzogneri e reticenti. Anche in mezzo alla guerra dei cent’anni di oggi – questo è il metro realistico per la Terra Santa – è possibile distinguere ciò che può durare. Il sogno di Vittorio durerà a lungo e irriderà alle illusioni di sicurezza riposte nei mezzi militari. La sua assenza però ci interroga, ci chiede cosa siamo disposti a fare per “restare umani”, mentre enormi risorse sono mobilitate dal potere per disumanizzare amici e nemici.

Siccome la Palestina è sovraccarica di messaggi e simboli storici e religiosi che si stratificano e sovrappongono, colpisce l’analogia di Vittorio il Vincitore con la theologia crucis. Il mondo è abbandonato alla fragilità dell’uomo. Per i cristiani il vero rappresentante di Dio non è un re seduto sul trono, è un uomo crocifisso. In quell'uomo vedono Dio. Ma chi vede quell'uomo non vede che l'uomo. Similmente, l’ottimismo dei sogni di Arrigoni non giustifica né determinismi, né fedi alienate, né bandiere che neghino l’umano. Proprio per questo Arrigoni era un testimone ingombrante in vita, e lo è anche un anno dopo la sua morte.

Non deve stupirci che il processo a Gaza contro i suoi assassini non faccia passi avanti. Nessuno fra gli attori più potenti del dramma del Vicino Oriente sembra avere fretta di risolvere i misteri del delitto: un importante delitto politico. Come per altri crimini di questa portata, anche per Vik il mistero sembra nascondere inconfessabili convergenze di interessi, con soggetti improbabili che compaiono dal nulla nel suolo di Gaza per compiere l’esecuzione lasciando al buio i mandanti, a loro volta manovrati da leve ancora più irriconoscibili. Non dimentichiamo che l’uccisione di Arrigoni avviene nel pieno di un sommovimento che ridisegna la sponda sud del Mediterraneo e il Vicino Oriente, cambia le alleanze, modifica gli appoggi politici dei movimenti, stipula nuovi compromessi. Uno dei fatti più rilevanti che inquinano forzatamente la stagione delle rivolte arabe è la reviviscenza di gruppi armati salafiti, sovvenzionati dalle petromonarchie del Golfo e alleati con le azioni dei paesi NATO. Un tempo sarebbero stati inquadrati nello spauracchio al-Qa’ida, ma ora no. Come mai?

Alla fine del 2010, pochi mesi prima del delitto Arrigoni, in Arabia Saudita ritornava a splendere la stella del principe Bandar bin Sultan, uomo forte dei servizi segreti messo in disparte per un periodo, ma subito in grado di approfittare – con l’aiuto di Washington – della malattia del re Abdallah. La prima cosa che ha fatto Bandar, non appena in sella, è stata la riattivazione delle sue reti di uomini in armi e terroristi. Queste reti sono state protagoniste dirette in Libia, Libano, Siria e Palestina, con tanti gruppi fanatizzati, ideologicamente anti-sionisti, ma capaci di forti convergenze d’interessi con Israele.

Il gruppo che ha eseguito la brutale esecuzione di Vittorio Arrigoni è stato uno dei tanti improvvisamente galvanizzati dalla nuova stagione politica. Le petromonarchie del Golfo hanno subito compreso che le rivolte avrebbero potuto travolgere anche loro. Hanno all'istante messo in campo risorse eccezionali, giocando con una certa abilità su più piani: sia quello del disordine (il terrorismo riconducibile ai suoi canali di rifornimento), sia quello della stabilizzazione (in chiave sunnita, con i Fratelli Musulmani). La stabilizzazione doveva trovare persino un ricongiungimento con le rive moderate dell’islamismo politico turco di Recep Tayyip Erdoğan. Questi cambiamenti hanno agito in profondità anche nella Gaza di Hamas, che ha cambiato alleanze internazionali con sorprendente velocità.
L'alleanza con la Siria laica da parte degli integralisti del movimento islamista palestinese era stata a lungo un “in mancanza di meglio”, che conveniva anche a Damasco in chiave anti-israeliana.

Nel frattempo è emersa una potenza che aspira a egemonizzare la Sunna, la Turchia, un membro della NATO che porta in dote la sua brava medaglia di morti della Freedom Flotilla, e con l'ambizione di domare il demone integralista in chiave moderata, a costo di liquidare un'alternativa laica come Assad e di sopportare i tagliagole jihadisti nelle nuove instabili coalizioni che vanno al potere.

Hamas diventa un punto di cerniera fra la Turchia e le monarchie arabe, che ora la riempiono di petrodollari freschi freschi, e guadagna così posizioni sul campo. Magari si farà perfino lo stato palestinese. Probabilmente un Bantustan.

Una prospettiva contro cui Arrigoni e Juliano Mer-Khamis, il pacifista «al 100% ebreo e al 100% palestinese», ucciso anche lui un anno fa, avrebbero sicuramente lottato.

Le tante città che oggi celebrano Vittorio lo faranno ancora, perché ci sarà bisogno a lungo del sogno poetico e concreto di chi si contrappone al ferro dell’oppressione. Parole sue: «Continueremo a fare delle nostre vite poesie fino a quando la libertà non verrà declamata sopra le catene spezzate di tutti i popoli oppressi».

Pino Cabras
Fonte: www.megachip.info
15.04.2012


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AlbertoConti
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C'interroghiamo su chi siano i mandanti veri dell'assassinio di Vittorio un anno fa, come su chi siano i mandanti veri dell'assasinio di Moro o di Gesù Cristo. Questa domanda è il dito che indica la Luna.

La Luna l'ha chiaramente indicata Vittorio con due semplici parole: restiamo umani!

Già, ma cosa vuol dire esattamente nella vita di ognuno di noi, nei momenti più difficili, e perciò più veri, come questo?

Per me qui ed ora vuol dire cercare la verità, quella che rende liberi, quella che Vittorio ha narrato dalla prima linea fino all'ultimo, senza urlare, ma con amore e con dolcezza nonostante la crudezza e la follia di cui era testimone attivo. In quanto umano può aver sbagliato anche lui, ma il suo esempio è fuori discussione, è al di sopra di tutto. Per questo durerà ben più di cento anni, se avremo davanti più di cento anni di storia; ma questo dipende da quanto sappiamo comprendere il suo messaggio, a far vivere per sempre Vittorio in tutti noi.


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geopardy
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Concordo pienamente con Alberto Conti.
Ciao
Geo


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Huangdi
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Era omosessuale ed e' stato freddato per questo. Altro che "ben amalgamato" con la comunita' locale. In quei posti si sa benissimo che convivere con il fidanzato puo' finir male.

Non fraintendetemi: con questo mio pensiero non desidero offendere ne' la sua memoria ne' altro, semplicemente dire che forse forse se l'e' anche un po' cercata...


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diotima
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Era omosessuale ed e' stato freddato per questo. Altro che "ben amalgamato" con la comunita' locale. In quei posti si sa benissimo che convivere con il fidanzato puo' finir male.

Non fraintendetemi: con questo mio pensiero non desidero offendere ne' la sua memoria ne' altro, semplicemente dire che forse forse se l'e' anche un po' cercata...

Cioè? doveva farsi passare eventualmente per quello che non era,ovvero etero? ignoro questo aspetto della sua vita , ma a maggior ragione vorrebbe dire che è morto per essere fino in fondo se stesso. Direi che è l'unica eredità che valga la pena di ricordare.

Facciamo così: restiamocene bellini bellini a casuccia e lasciamo che lo scempio dell'arroganza di chi dice :" sei un essere inferiore per questo, questo e quest'altro motivo" continui ancora a mietere vittime.
Poi andiamo in piazza e sventoliamo la bandiera arcobaleno.

Me gusta come programma...


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Tao
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Versioni di comodo della difesa giudici inerti. Vittima la verità

La notte tra il 14 e 15 aprile 2011 nessuno potrà dimenticarla. Una notte durante la quale un gruppo di giovani, presunti salafiti, mise fine alla vita di Vittorio Arrigoni gettando nel dolore una madre e migliaia di palestinesi e italiani. A distanza di 12 mesi dalle quelle ore terribili, mentre oggi centinaia di compagni ed amici di Vik si riuniranno a Gaza per le commemorazioni ufficiali, l'assassinio di Vittorio resta in gran parte senza risposte. Troppi sono i lati oscuri di questo crimine. Se la procura di Gaza è stata in grado di risalire in poche ore ai responsabili del rapimento e dell'uccisione di Vik, invece i giudici della corte militare non sono stati altrettanto solleciti. Il processo è stato segnato sin dal suo inizio, lo scorso settembre, da udienze lampo, dall'assenza frequente dei testimoni e dalle manovre della difesa volte unicamente a guadagnare tempo.

In questi mesi abbiamo assistito a un procedimento sostanzialmente regolare, aperto al pubblico e alla stampa. Ma non si può tacere sul fatto che la corte è stata troppo accondiscendente nei confronti delle strategie degli avvocati della difesa. Per quasi un anno abbiamo visto testimoni chiamati di fronte ai giudici solo per confermare le deposizioni fatte durante le indagini. Il dibattimento quasi non c'è stato. Dopo una quindicina di udienze, finalmente giovedì scorso agli imputati è stato chiesto di spiegare i motivi del rapimento di Vik. A questo punto è arrivato il colpo di scena: tre dei quattro imputati - Mahmud Salfiti, Tarek Hasasnah e Khader Jram (il quarto Amr Abu Ghoula è accusato solo di favoreggiamento) - hanno ritrattato, sostenendo di aver confessato sotto pressione. E, più di tutto, hanno dichiarato, con una versione copia e incolla, di non aver partecipato al sequestro allo scopo di scambiare l'ostaggio italiano con lo sceicco salafita al Maqdisi (detenuto a Gaza) - come avevano ammesso - ma di avervi preso parte «per dare una lezione» a Vittorio che, a loro dire, conduceva una vita «immorale». E per rendere più convincente il loro racconto hanno persino fornito particolari su questa condotta poco in linea con i costumi locali.

Vik sapeva dove viveva e a Gaza conduceva una esistenza tranquilla, rivolta quasi interamente all'impegno politico e umano a sostegno dei palestinesi. Ed era accorto ad evitare che la sua vita privata potesse emergere in qualche modo. Ma il punto non è questo. Gli imputati, fabbricando questa versione, ex novo tentano di cucirsi addosso il ruolo di «giovani tutori della moralità» di Gaza. Il fine è chiaro: vogliono scaricare ogni resposabilità sul giordano Abdel Rahman Breizat e il palestinese Bilal al Omari, i «capi» della cellula salafita che non possono confermare o smentire questa versione perché sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia di Hamas. Non sapevamo nulla dei piani di Breizat e Omari - provano a spiegare i tre imputati - dovevamo rapire Vittorio Arrigoni solo per qualche ora e spaventarlo. Gli altri due invece avevano deciso di scambiarlo con al Maqdisi ma a noi non lo avevano detto.

Di fronte a questa svolta a 180 gradi, a questa versione inverosimile, il pubblico ministero e la corte hanno avuto una reazione soft. Piuttosto avrebbero dovuto mettere gli imputati a confronto, parola per parola, con le loro confessioni. Perchè troppo particolareggiato è stato il racconto dell'accaduto che Hasasnah, Salfiti e Jram hanno fatto davanti agli inquirenti per essere frutto solo di «pressioni» e «intimidazioni». Salfiti ha anche rivelato che tutti erano d'accordo, già prima del rapimento, «sull'eliminazione dell'ostaggio» in caso di mancata scarcerazione di al Maqdisi. Il pubblico ministero inoltre avrebbe dovuto chiedere agli imputati maggiori chiarimenti sulla figura del «capo», Abdel Rahman Breizat. Spuntato apparentemente dal nulla, questo giovane giordano ha compiuto un assassinio feroce avendo forse alle spalle una regia esterna. Ipotesi alla quale gli inquirenti di Hamas non hanno mai lavorato seriamente (perché?).

Certo potrebbe farlo alla prossima udienza, il 14 maggio (che, secondo voci, sarà l'ultima), ma ormai è difficile credere che da questo processo si arriverà all'accertamento della verità. Tanti interrogativi rimarranno senza risposta, anche dopo la sentenza, lasciando la famiglia Arrigoni senza le uniche cose che ha chiesto alle autorità di Gaza: giustizia e trasparenza. Infine non si può non notare l'atteggiamento avuto dalle autorità italiane. Certo l'Italia, come il resto dell'Ue, non ha rapporti con Hamas ma avrebbe dovuto far sentire la sua voce in altri modi, per vie indirette. Non l'ha fatto, anzi, ha scelto di non farlo. Non ha mostrato considerazione nei confronti di un italiano che non predicava violenza ma invocava diritti per la gente di Gaza e ci chiedeva di rimanere sempre e comunque umani.

Michele Giorgio
Fonte: www.ilmanifesto.it
15.04.2012


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Tao
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Solo un uomo che si firma "Utopia" può aver pensato che la Brianza, almeno un tempo, fosse circondata dal mare. A vederlo nelle tante immagini che ci ha lasciato in ricordo, muscoloso, il volto arrostito dal sole e in bocca una pipa da marinaio consumato, bisogna riconoscere che Vittorio Arrigoni qualche dubbio lo instilla perfino nel più scettico dei materialisti. «Un giorno mi chiese: mamma, 'ma noi abbiamo un antenato marinaio'? Era accaduto che i pescatori di Gaza gli avevano messo in mano il timone della barca e lui aveva scoperto di saperla guidare».Quel giovane non nuovo a esperienze di attivismo in giro per il mondo si era riscoperto lupo di mare e oggi la mamma Egidia, alla vigilia del primo anniversario dell'uccisione per mano di alcuni figli degeneri di quella terra che era diventata sua quasi più di quella natale, ricorda come, la prima volta che doveva partire per la Palestina, si era premurato di fargli acquistare farmaci contro il mal di mare perché non lo conosceva e anzi lo temeva.

Attorno a Bulciago è un alternarsi di campagna, villette, capannoni, piccole fabbriche dell'operosa Brianza, non ci sono barche né pescatori ma solo traffico di auto e tir nelle ore di punta. La signora Egidia Beretta è al lavoro nel suo ufficio al Municipio. È sindaco del piccolo comune (poco meno di tremila abitanti) dal 2004 e conserva ancora nel suo cellulare il messaggio che Vittorio gli inviò da Gaza la sera della sua rielezione, l'8 giugno del 2009: «Cara madre, sono molto orgoglioso di te, non solo in questa lieta giornata. Portiamo avanti gli stessi valori umani e le istanze degli ultimi, sebbene in longitudini differenti». Non è stato un anno facile, quello appena trascorso, per la famiglia Arrigoni. L'assassinio di Vittorio, strangolato con una corda all'1,50 della notte del 15 aprile del 2011, dopo un sequestro lampo e un drammatico video in cui l'attivista italiano veniva mostrato già piuttosto malconcio; la successiva morte del marito Ettore, nel dicembre scorso dopo una brutta malattia; lo stillicidio di un processo che procede a rilento senza la speranza di una parola definitiva sui reali motivi del sequestro e dell'uccisione. «Una pena che si rinnova a ogni udienza, ci auguriamo che si chiuda al più presto», dice Egidia, rimasta a proseguire la missione di Vittorio insieme alla figlia Alessandra.

Il processo

Invece non è così. Oggi si discute dell'ultimo colpo di scena: tre dei quattro imputati ritrattano quanto avevano affermato davanti alla polizia di Hamas che li aveva catturati. Non eravamo a conoscenza di un piano per uccidere l'attivista italiano, lo abbiamo fatto solo per dare una lezione a un occidentale dai costumi troppo "liberali", sostengono. Ma è difficile immaginare che una pipa, qualche tatuaggio esibito e un piercing al sopracciglio sinistro possano aver prodotto tutto questo. Non ci crede nemmeno la signora Egidia: «Vittorio era rispettoso delle tradizioni, non credo possa aver fatto alcunché». Evidente il tentativo di scaricare la responsabilità sui due "capi" del gruppo, il giordano Abdel Rahman Breizat e Bilal Omari, uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia, al fine di ottenere una riduzione della pena. Una strategia processuale difensiva che non risponde alla domanda principale: perché Vittorio Arrigoni è stato ucciso? Che relazione esiste tra le primavere arabe appena esplose in Egitto e Tunisia, con tutto il loro portato libertario e laico, e l'utopia di una primavera di Gaza verso la quale l'attivista italiano strizzava l'occhio?

La famiglia Arrigoni non vuole che agli imputati venga applicata la pena di morte. «I genitori dei quattro ragazzi ci hanno scritto chiedendoci di dire no alla condanna capitale per i loro figli. È una prassi di cui i tribunali palestinesi di solito tengono conto. Noi abbiamo accettato chiedendo in cambio che ci facessero sapere la verità su quanto accaduto. Ma dubito che lo faranno. Questi smentiscono perfino che l'obiettivo fosse la liberazione di quello sceicco salafita», Al Maqdisi, arrestato qualche mese prima da Hamas e di cui nel video girato dopo il rapimento chiedevano lo scambio con Arrigoni.

Il governo assente

Il giorno dell'anniversario sarebbe quello ideale per chiedere conto al governo. Cos'ha fatto in quest'anno lo Stato italiano, dopo essere stato assente al rientro della salma all'aeroporto di Fiumicino e ai funerali nel piccolo comune brianzolo, dove invece affluirono migliaia di giovani da tutta l'Italia e i compagni dell'International solidarity movement, e don Luigi Ciotti strinse la signora Egidia in un lungo abbraccio? La famiglia e gli amici non si sottraggono ma non ne fanno una questione centrale, quasi che non si aspettassero di più: «Non è un tarlo che ci rode, ne parliamo solo se ce lo fanno rilevare». Ciononostante qualche mossa l'hanno fatta, d'altronde Egidia Beretta è sindaco per una lista civica di centrosinistra, una donna delle istituzioni. Ad agosto hanno scritto, attraverso l'avvocato Gilberto Pagani, al ministro degli Esteri Franco Frattini, chiedendogli di interessarsi al caso, senza però ottenere nessuna risposta. Quando è cambiato il governo ci hanno riprovato, e questa volta si sono visti recapitare una lettera della ministra Paola Severino che, apprezzando la richiesta di non applicare la pena di morte agli aguzzini, promette un interessamento. È notizia di oggi che sarebbe in arrivo anche una missiva del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata, anche se la linea rimarrebbe quella miope, ideologica e tardo-bushista del non si tratta con Hamas. Il problema è che, lungi dal negoziare con i terroristi, il consolato di Gerusalemme, e quindi il governo italiano, non ha mai inviato nemmeno un rappresentante a presenziare alle udienze processuali. «Avessero almeno avuto un po' di considerazione per un povero cristo ammazzato», dice con tristezza Egidia. Quasi si trattasse di un morto di serie B, un italiano di serie B, una grana da archiviare sotto silenzio.

Vik e il manifesto

«Hermanos, a 200 metri da qui c'è un nuovo cratere lunare mica male, speriamo siano finiti i botti, a sud ci sono già dei feriti. Butto giù qualcosa sui bombardamenti di questa notte e le ultime vittime di questa settimana, se interessa posso inviarvela per il manifesto prima di domani a mezzogiorno. Fatemi sapere, Vik». Alla disperata ricerca di qualche traccia di corrispondenza sopravvissuta ai periodici reset del computer e a virus letali, spunta questo messaggio datato 17 settembre 2010.
La memoria digitale non fornisce la risposta alla domanda di Vik, ma spulciando negli archivi di quei giorni balza agli occhi un reportage di particolare intensità. Racconta di una pescatrice sedicenne che osa sfidare l'assedio israeliano. L'incipit è hemingwaiano: «Ha occhi profondi come fondali inesplorati e una spinta subacquea da far supporre abbia piedi palmati; come una creatura marina sparisce sotto la superficie dell'acqua e sembra far svanire anche l'ingombro del velo e dei vestiti pesanti, che la tradizione esige non si debbano levare neanche per nuotare. È Madeleine Kulab, 16 anni, la prima e unica ragazza-pescatrice che Gaza ricordi. Il padre Mohamed, rimasto invalido per una paralisi una decina di anni fa, ha dovuto appendere le reti al chiodo e ora la figlia ha preso il suo posto in mare».

Vittorio Arrigoni ha regalato molte sue perle al manifesto, il manifesto ha contraccambiato come poteva, portandole in prima pagina e trasformando in un libro, intitolato Restiamo umani, il suo diario sotto le bombe dell'operazione "Piombo fuso", tra la fine di dicembre del 2008 e la prima metà di gennaio del 2009. «Era il suo giornale, diceva sempre che il giorno in cui era sbarcato a Gaza, il 23 agosto del 2008 con il Free Gaza Movement, aveva trovato ad accoglierli al molo un solo giornalista». Era il nostro Michele Giorgio.
Da allora i contatti erano stati sempre più intensi: lui, Vittorio, pur scriven
do spesso in situazioni precarie (da computer di fortuna mentre fuori esplodevano le bombe, da un'ambulanza in corsa), era sempre più che attento alla forma. La sostanza gli era chiara, il modo di comunicarla fondamentale, che scrivesse per il giornale o per il suo blog Guerrillaradio, girasse un video o si concedesse a un'intervista. Essenziale, a volte poetico, spesso diretto, un cronista sui generis con il mito di un altro giornalista particolare: Tiziano Terzani. «Dei quattro libri che mi sono portato appresso in Palestina, al suo ultimo, per me il migliore, ho consentito il posto d'onore, sebbene voluminoso, sempre con me infilato nello zaino durante le nostre azioni pacifiste. Come totem, come testo sacro, come parola di conforto e di vicinanza nell'alienazione generale che la disperazione di muoversi in paesaggi di guerra ti attacca addosso», scrisse il giorno dopo la sua morte.

Racconta ancora Egidia Beretta: «Il suo obiettivo era far conoscere quello che accadeva laggiù, anche quando veniva a delle iniziative in Italia chiedeva sempre di farvi partecipare persone scettiche. Se riesco a insinuare qualche dubbio in almeno uno di loro, diceva, per me è un successo. Non si capacitava del silenzio che c'era qui da noi su quello che accade in Palestina. Molti sostenevano che fosse anti-israeliano, invece si opponeva solo alle politiche di Israele, aveva tanti amici israeliani che la pensavano come lui». Una passione che lo porterà a polemizzare con Roberto Saviano, dopo la partecipazione di quest'ultimo a una manifestazione in sostegno di Israele, e a essere indicato da un sito americano come bersaglio numero uno, con tanto di foto e segni particolari per identificarlo e ucciderlo.

Poi, un giorno, sempre in quel turbolento autunno-inverno del 2010 e alla vigilia delle bombe su Gaza, arriva in redazione un video. È ancora Vik che parla, barbuto come un rivoluzionario cubano del '59, cappellino verde-castrista con stella rossa al centro: «Allo stato attuale il quadro clinico è di estrema gravità. Il malato quasi terminale, sebbene per rianimarlo basterebbero delle semplici trasfusioni...». Parla del manifesto, è il più grande regalo che potesse fare alla nostra campagna per rimanere in vita, lui che dal giornale non aveva mai visto un euro. Farà lo stesso anche con Emergency. «Se devo scegliere tra la forza di occupazione che in Afghanistan miete ogni giorno vittime civili, molte delle quali bambini, e gli eroici dottori che mettono a repentaglio le loro vite per salvarne altre, non posso che scegliere di stare con questi ultimi. È un po' come scegliere di tifare fra un carro armato e un'ambulanza».

L'alternativa di Bulciago

Ma da dove era spuntata questa grande passione civile e politica? Come si può arrivare da Bulciago a Gaza in barca se la Brianza non è bagnata dal mare? Vittorio nel suo paese di origine aveva conservato rapporti con i suoi compagni di scuola, quelli che si firmano «Gli amici di Vik» e oggi gli dedicheranno delle pubbliche letture. Aveva lavorato per un periodo nell'azienda del padre, tra una partenza e l'altra per l'Europa dell'est, il Perù, l'Africa, sempre per costruire un alloggio per profughi di guerra, ristrutturare un sanatorio, lavorare per gli ultimi, gli oppressi, i bisognosi.

Un attivismo di base che forse affonda le radici in una tradizione volontaristica molto diffusa in Brianza e di sicuro nella cultura, nata negli anni '90, di quel grande ed eterogeneo movimento definito "altermondialista", che non si proponeva di conquistare alcun potere ma di trasformare la società e i rapporti di forza dal basso e attraverso una pratica che imponeva di mettersi in gioco direttamente e senza mediazioni. «Non so questa spinta così forte da dove gli sia venuta. Di sicuro noi ci siamo sempre proiettati molto all'esterno. Già negli anni '80, quando mio marito costituì una cooperativa edilizia perché a Bulciago non c'erano case a basso prezzo per i lavoratori, le riunioni si facevano qui da noi. Abbiamo sempre avuto una forte predisposizione verso gli altri, e credo che questo abbia influito», dice Egidia Beretta, «alla fine degli anni '70 costituimmo anche un gruppo politico, si chiamava Alternativa popolare, e uno dei punti principali del programma era quello delle case popolari, facevamo un giornalino e le riunioni a casa nostra».

Un simbolo

Da quel terribile 15 aprile di un anno fa, nonostante la cappa di silenzio scesa sulla vicenda, Vittorio Arrigoni è diventato un simbolo per migliaia di attivisti e volontari. A suo nome sono stati intitolati centri sociali, da Roma a Palermo, e un consigliere comunale milanese di Sinistra e libertà si è perfino spinto, generando scandalo, a chiedere di intitolargli la piazza dedicata al generale di Caporetto, Cadorna.

In un video girato a passeggio tra il verde e la quiete del cimitero di Gaza, Vittorio diceva: «Dovessi un giorno morire, fra cent'anni, vorrei che sulla mia lapide fosse scritto quello che diceva Nelson Mandela, un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare». Aggiunge la madre: «Dopo il grande calore ai funerali ci chiedevamo: tornerà il silenzio? Non è accaduto, anzi abbiamo constatato come la vita di Vittorio ne abbia ispirato delle altre. I frutti del suo lavoro si vedono ora. Io vado in giro a raccontare che, anche se la sua vita non è replicabile, il suo insegnamento è che avere un sogno, un'utopia, può aiutarci a fare delle cose». Per usare una metafora che forse sarebbe piaciuta a Vik: può aiutarci a tirar fuori il pescatore che è in noi, anche se il mare non lo abbiamo mai conosciuto davvero. Angelo Mastrandrea Una lettera della ministra Severino e una del ministro degli esteri Terzi rompono il silenzio del governo

Quelle perle regalate al giornale: passione politica, cura della scrittura. E un libro di Terzani nello zaino

17 settembre 2010 «Hermanos a 200 metri da qui c'è un nuovo cratere lunare mica male, speriamo siano finiti i botti, a sud ci sono già dei feriti. Butto giù qualcosa sui bombardamenti di questa notte e le ultime vittime di questa settimana, se interessa posso inviarvela per il manifesto prima di domani a mezzogiorno. Fatemi sapere Vik».
Arrivavano spesso in redazioni questi messaggi di Vittorio Arrigoni. A destra l'ultima corrispondenza da Gaza City, sei giorni dopo, il 15 aprile di un anno fa, Vittorio è stato ucciso 9

APRILE 2011 Ore 19:15. Un drone israeliano, un veivolo comandato a distanza responsabile dell'uccisione di donne e bambini in queste ultime ore nella Striscia ha appena bombardato a Est di Zaitoun, Sud Est di Gaza city, a circa 200 metri dalle abitazioni della famiglia Samouni. Il caso Samouni è uno degli attacchi terroristici più efferati della storia d'Israele. Agli inizi di gennaio, 29 membri della stessa famiglia vennero massacrati senza pietà dall'esercito israeliano. Erano tutti civili. Per lo più donne e bambini. Stay human, Vik

Angelo Mastrandrea
Fonte: www.ilmanifesto.it
15.04.2012


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pippo74
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Era omosessuale ed e' stato freddato per questo. Altro che "ben amalgamato" con la comunita' locale. In quei posti si sa benissimo che convivere con il fidanzato puo' finir male.

Non fraintendetemi: con questo mio pensiero non desidero offendere ne' la sua memoria ne' altro, semplicemente dire che forse forse se l'e' anche un po' cercata...

le tue parole sono semplicemente disgustose.


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