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La condizione umana allo specchio delle altre specie


Tao
 Tao
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Se Pico della Mirandola poneva l'uomo in una posizione intermedia «tra la bestia e l'angelo», le ultime ricerche rivelano la profonda influenza che i rapporti con gli animali hanno avuto in tutte le culture e in ambiti assai diversi, dalla musica alla tecnologia

Un radicato luogo comune vuole che l'animale rappresenti per l'uomo una sponda di regressione, da leggersi di volta in volta come «specchio oscuro», ricettacolo di tutte le lordure da cui l'umano si è faticosamente ripulito, o come «età dell'oro», concreta immagine di quel passato edenico in cui la nostra specie viveva in piena assonanza con la natura.
Non è importante la valenza attribuita - sia essa negativa o positiva - quanto piuttosto il preconcetto secondo cui l'uomo raggiunge il suo compimento distanziandosi dagli animali, epurando da sé qualunque contiguità o contaminazione con loro. Secondo questa lettura, progredire vuol dire prima di tutto spogliarsi da ogni teromorfia (da teros, «animale») che di conseguenza rappresenterebbe il polo oppositivo, sfondo per far emergere l'essenza uomo nel suo carattere di unicità e superiorità.

Antinomie pretestuose
La condizione umana viene pertanto raffigurata come un processo di elevazione (antropopoiesi) che ha una direzione divergente dall'animalità: di conseguenza nella tradizione occidentale andare verso l'animale significa per l'umano regredire, contaminarsi, degradarsi. Dalle altre specie l'uomo, in questa visione antropocentrica, non ha nulla da acquisire: anzi, se ne dovrebbe separare evitando qualunque forma di condivisione. Tale idea si basa su due pregiudizi di fondo: innanzitutto su una arbitraria correlazione tra i caratteri animali e il passato - quel passato da cui ci si sarebbe emancipati - e quindi su una altrettanto pretestuosa affermazione di antinomia tra la condizione umana e quella animale.
Nell'immaginario collettivo l'uomo si eleva dal tellurico lasciandosi alle spalle l'animale o, per dirla con le parole di Giovanni Pico della Mirandola, ponendosi in una posizione intermedia tra la bestia e l'angelo. Questa lettura, già in nuce negli umanisti del quindicesimo secolo, viene rafforzata da una interpretazione scorretta del darwinismo, ove si pone l'animale quale antenato dell'uomo. Si faccia riferimento per esempio alla tradizionale iconografia dell'evoluzione della nostra specie, espressa attraverso una lunga catena di preumani che dallo scimpanzé arriverebbe all'homo sapiens. Ma lo scimpanzé non è il nostro antenato, né alcun altro animale oggi presente sulla terra lo potrebbe essere: gli antenati per definizione appartengono al passato. D'altro canto, nella prospettiva antropocentrica le specie non umane vengono accomunate all'interno di un'unica categoria, chiaramente inesistente nel suo contenere animali troppo differenti tra loro, ma funzionale all'esaltazione dell'uomo nel suo essere speciale.
L'animalità diviene così al tempo stesso la dimensione rigettata, quella da cui ci si deve allontanare per dare compimento ai caratteri distintivi dell'umano, e l'espressione di un dominio di cui l'uomo ha piena facoltà di riappropriarsi. In questo senso gli animali non avrebbero nulla da insegnarci, ma possono invece essere utilizzati come oggetti: a uso «semplicemente» alimentare, ma anche sperimentale, simbolico e via dicendo.

All'ombra di Mister Hyde
D'altro canto l'ottica antropocentrica presenta in questo senso una curiosa asimmetria: se le altre specie non si possono porre come maestre dell'uomo - giacché nella sua superiorità la nostra specie contiene tutte le altre - viceversa l'animalità assume il profilo di una china pericolosa che rischia di condurre alla regressione. E proprio sull'ambiguo confine con il teromorfo può avvenire l'inversione di quel processo che ha realizzato i predicati umani, la caduta nella condizione ferina.
La letteratura abbonda di riferimenti a questo stereotipo interpretativo, si pensi per esempio a romanzi come La bestia umana di Émile Zola, Cuore di tenebra di Joseph Conrad, Il Signore delle mosche di William Golding. Ma anche Il dottor Jekyll e mister Hyde di Robert Louis Stevenson e lo stesso Pinocchio di Carlo Collodi insistono sulla costante difficoltà dell'uomo di non cadere nel gorgo dell'animalità. E pure le saghe dei licantropi, dei vampiri, degli uomini selvaggi ritornano sul topos del farsi animale come perdita di qualità umane, disegnando la sponda animale come deriva involutiva e degradante.

Umanità incompiuta
Nella classica visione umanistica il farsi animale o semplicemente il solo accostarsi agli animali ha sempre coinciso con il ritorno a una dimensione preumana o comunque con una perdita di qualità umane. Spesso si è data questa interpretazione al processo educativo, considerato proprio come il percorso attraverso cui si fa emergere l'uomo dall'animalità. E di conserva si è utilizzata la cifra teromorfa per indicare uno stato di umanità incompiuta nel razzismo, nel maschilismo, nella definizione della cosiddetta anormalità o devianza. Cesare Lombroso arriva così a desumere le tendenze criminali utilizzando la fisiognomica, dove il carattere «bestiale» diviene rivelatore di ancestralità e quindi di umanità parziale, da cui deriva la predisposizione a compiere delitti. In questo senso la cultura viene letta come dimensione antropopoietica e pertanto come percorso di divergenza dall'animalità.
Negli ultimi decenni del Novecento, però, questa interpretazione è entrata in crisi, sia per le acquisizioni etologiche che con frequenza sempre maggiore riportano evidenze scientifiche circa la presenza di culture animali, sia soprattutto grazie all'emergere di un nuovo campo di ricerca o, se si vuole, di una diversa impostazione metodologica nell'analisi del rapporto uomo-animale: la zooantropologia. Mentre nelle consuete ricerche storiche e antropologiche l'animale è sempre stato considerato un materiale da utilizzare per dar forma alla creatività umana - e questa era la chiave di lettura dell'etnozoologia (il teromorfo nelle diverse culture) e della zoostoria (la trasformazione del simbolo animale nelle varie epoche) - per la zooantropologia l'animale diventa un partner di cultura, contraddicendo così il principio umanistico dell'autarchia umana nella produzione culturale. In altre parole, mentre ancora in Claude Lévi-Strauss l'animale «buono da pensare» è uno strumento - in linea con il canone zootecnico che, inserendo la preposizione «da» (animale «da» utilità o «da» compagnia, per esempio), ne fissa lo statuto reificato - per la zooantropologia l'animale è un interlocutore, un maestro, un referente. Lo slittamento è profondo, perché secondo questa nuova prospettiva la cultura diventa un frutto ibrido, realizzato attraverso l'incontro con l'animale.

Una preziosa compagnia
Così come l'identità individuale si raggiunge attraverso il dialogo con le altre persone e l'identità culturale è l'esito del commercio con le altre culture, allo stesso modo l'identità umana non può definirsi autosufficiente ma è costruita nella relazione con le alterità animali. Secondo l'orientamento zooantropologico, insomma, il processo culturale non è affatto un percorso di divergenza dall'animale ma di convergenza, dal momento che si riconosce alle altre specie un ruolo attivo nella promozione di cultura. I non umani sarebbero stati cioè nella storia dell'uomo non semplici strumenti, ancorché simbolici, ma a tutti gli effetti compagni preziosi, capaci di suggerirci nuove dimensioni esistenziali, quelle stesse che oggi l'uomo considera proprie.
All'interno di questa nuova prospettiva un doppio filo ci lega agli altri animali: il primo è il legame biologico della progenitura comune messo in luce dal darwinismo, che peraltro vede caratteri di affinità fra le diverse specie antropomorfe in ambiti importanti (come la cura, la socialità, l'uso di strumenti), mentre il secondo è il legame ontologico, riferito cioè ai prestiti che l'uomo ha assimilato dalle altre
specie nella costruzione della propria cultura. Ed è questo l'aspetto evidenziato dalla zooantropologia.

Rituali e coreografie
La nuova disciplina inaugura così un fecondo campo di ricerca che spiega la diversità culturale anche in relazione ai rapporti cui le diverse etnie hanno dato vita con la controparte animale. Non c'è ambito della cultura umana che non si presti a questa lettura: la zoomusicologia per esempio studia l'influenza delle melodie animali nell'emergenza degli indirizzi musicali, la zoomimica analizza l'importanza dei rituali animali nella costruzione delle diverse coreografie della danza e delle arti marziali, la bionica evidenzia il rapporto tra soluzioni tecnologiche adottate dall'uomo e strutture biologiche.
Ma la zooantropologia mette in luce anche la grande attrattiva che le altre specie hanno sempre esercitato sull'uomo nella definizione estetica. Non a caso i giocattoli per bambini hanno forme animali e così pure i personaggi delle fiabe e dei racconti fantastici, le divinità, i supereroi, gli alieni, i mostri e persino le macchine. Anche i pubblicitari sanno bene che per attirare l'attenzione del consumatore devono rifarsi alla zoomorfia: un cartellone con un animale cattura inevitabilmente il nostro sguardo. Dall'araldica allo zoodiaco, dalle simbologie alle lettere dei diversi alfabeti, viviamo in una dimensione decisamente teromorfa. E se il filosofo Paul Shepard ha dimostrato l'esistenza nell'uomo di una sorta di gestalt animale, vale a dire di una tendenza percettiva elettiva verso le zoomorfie, l'etologo Irenäus Eibl-Eibesfeldt ha fatto notare che tra i caratteri comuni presenti nelle diverse culture c'è quello di dar forma animale all'incognito (per esempio alle nuvole o a un promontorio).
Sembra proprio che se si togliesse la cifra teromorfa dalla cultura umana l'intero edificio crollerebbe: per la zooantropologia senza gli animali la nostra cultura diventerebbe improvvisamente muta. Ecco allora che si inverte la visione tradizionale di un'animalità come polarità regressiva per affermare al contrario come sia proprio sulla sponda dell'eterospecifico che l'uomo costruisce i propri predicati.

Roberto Marchesini
Fonte: www.ilmanifesto.it
23.03.07


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