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La dolce vecchiaia del Califfo


Tao
 Tao
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Lo scorso sabato si è spento a Roma il cantautore romano Franco Califano. Il cantante aveva 74 anni ed era malato da tempo. Solo pochi giorni fa, il 18 marzo, si era esibito al Teatro Sistina di Roma. La camera ardente è stata allestita nella Sala della Promoteca in Campidoglio e rimarrà aperta fino alle 19 di questa sera. Le esequie del cantautore saranno celebrate nella giornata di domani nella Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo. Il 25 maggio del 2012, il Foglio dedicò un ritratto al Califfo.

“Sì, d’accordo, l’incontro / un’emozione che ti scoppia dentro / l’invito a cena dove c’è atmosfera / la barba fatta con estrema cura… / la macchina a lavare ed era ora / hai voglia di far centro quella sera / sì d’accordo ma poi… / tutto il resto è noia, no / non ho detto gioia, ma noia, noia, noia / maledetta noia…” (“Tutto il resto è noia”, Franco Califano, 1976).

Tutto il resto è noia, dice la canzone anche tatuata sull’avambraccio di Franco Califano, ma poi c’è Franco Califano. Essere Franco Califano, oggi, non è roba per vecchi, di quelli che Franco Califano, a settantaquattro anni, non vuole neanche frequentare, ché c’è il rischio che ti dicano “è morto questo, è morto quello”. Essere Franco Califano, oggi, significa riempire per la seconda volta in tre mesi il Teatro Sistina, l’ultima lunedì scorso, e riempirlo come fosse la Curva Sud, con un pubblico giovane che si veste da Franco Califano quando era giovane (anche se ora Franco Califano si veste da Ray Charles), e cioè da Califano anni Settanta, quello delle copertine dei dischi: pantaloni bianchi, camicia bianca, denti bianchi, cappello di paglia, capelli al vento, belle macchine, belle donne, qualche spiaggia, occhiali fumè, catena al collo, braccialetti in quantità. Ha la voce roca come prima, forse più di prima, Franco Califano. E’ il ricordo di un’antica cordite, ma anche il suo marchio – da poeta maledetto, dicono alcuni, da emblema del trucido, dicono altri. Ma della sua voce, in realtà, il suo pubblico se ne infischia, come del fatto che conosca soltanto pochi accordi, per chitarra o pianoforte, accordi che comunque gli sono bastati come base per comporre circa mille canzoni, per sé o per altri (Califano si mette lì, registra quello che gli viene in mente, lo riascolta, lo lascia stare per mesi e lo ritira fuori se e quando gli viene un’idea).

Essere Franco Califano, oggi, significa guardare il Califano di ieri in forma di gigantografia alle pareti, una per ogni parete della villetta ai confini di Roma dove il cosiddetto “Califfo” vive con una famiglia di indiani che si prendono cura di casa e spesa (padre, madre e figlia neonata). Significa pensare che sì, “il tempo è infame, ma quel ragazzo bello lassù sono sempre io, che robba che ero, e mi faccio compagnia da solo”. Lui, Califano, oggi non è neanche personaggio da romanzo di Philip Roth. Nessuna cupezza inesorabile da viale del tramonto, nessun disfacimento tragico nell’autunno, piuttosto un tratto da Big Lebovsky che sembra in ciabatte anche se si mette le scarpe, e tanto il mondo attorno non gli fa più da specchio. Ha cuscini animalier in salotto, Califano, cuscini leopardo come le sedie, forse citazione degli anni ruggenti che furono, in cui amava tutte le donne, al punto da scambiare per donna persino un uomo (da cui “Avventura con un travestito”, canzone autoironica in romanesco, mezza recitata mezza musicata, una delle vette del califfanesimo).
Non chiede più vitalizi allo stato per divi decaduti, Califano, e sorride guardando il se stesso radioso sul muro, accanto alla nave fantasma in legno regalatagli da artigiani-detenuti. Sorride perdonando e perdonandosi, e racconta amori o dolori senza rancore (“va bene così, sono contento di me, della mia solitudine scelta”). Tiene “la sveglia libera” ogni mattina, “non si sa mai come può finire la serata”, dice smitizzandosi ma continuando a celebrarsi (la sera non esce, preferisce “convocare”, perlopiù amici, perlopiù giovani. Non allude a donne, ma ai ventenni che gli chiedono “a Fra’, ma con le donne come hai fatto?”, e lui risponde “come faccio, vorrai dire, ecche me date proprio per scomparso?”).
“Evviva la malinconia”, dice il Califfo, “l’ho cercata, anche, perché a differenza della noia non ti deprime, ma ti fa stare con te stesso in modo tenero”. E sta con se stesso in modo tenero, il Califfo, cercandosi sul muro come si fa con i divi in trattoria, puntando il dito vicino alla foto di Francesco Totti, che gli “vuole bene”, dice, anche se lui, il Califfo, è interista e non romanista (“se ero romanista sai che pienone che facevo”). Ci ha scritto tanti anni fa una canzone, anzi tantissime canzoni, sulla malinconia, Califano, che oggi sembra scherzare col tempo passato sulla sua faccia, una faccia immobile con dentro occhi mobilissimi che si fanno beffe di tutti i Michael Jackson che la faccia immobile ce l’avevano davvero, schiavi del tempo, ma lui no, lui è il Califfo, lui del tempo se ne frega, anche se a guardarsi giovane sospira come a volerci rientrare, nel mondo nascosto dietro a quelle foto. E alla fine anche chi non abbia una memoria storica califfesca, ascoltando le canzoni del Califfo, non trova scollatura tra quello che dice oggi e quello che cantava ieri, ai tempi delle foto sul muro, immagini da ragazzo sbruffone con accanto un’unica immagine di Joseph Ratzinger, il Papa che gli ha preso il cuore (“non è buonista come quello di prima, non è ruffiano, uno che mi ha fulminato, emozionato. E poi ci stava lui, dietro agli altri papi, e chi sennò”).

“Guarda Califfo che tu eri malinconico anche a trent’anni”, gli dicono, e lui risponde che è sempre stato “qualche decennio avanti” alla sua età. Vive di solitudine leonina in nome del suo motto “bisogna essere grandi nell’addio”, e lui in tutti gli addii, dice, se n’è andato quando attorno c’erano ancora bei ricordi (“infatti sono in buoni rapporti con molte delle mie donne”). E’ una solitudine non ripiegata, la sua, cordiale come nell’imitazione di Fiorello, il grande amico che l’ha per sempre fissato nell’icona di quello che si alza tardi e al bar chiede cornetto con salsiccia, basta che ci sia “da magnà”. Va al mare, Califano, il mare che è il filo conduttore della sua autobiografia “Senza manette”, scritta nel 2008 con Pierluigi Diaco, a lungo suo collega a RTL 102,5: sposta lettini in spiaggia e intanto pensa, il Califfo, ricostruisce con gli ombrelloni le sbarre del carcere in cui è stato due volte, tutte e due le volte assolto per non aver commesso il fatto. Poi scrive, disfa la cella di lettini e ombrelloni e si mette a dormire, con dietro le dune di Ostia dove si sente pasoliniano “senza fare il pasoliniano”, dice un amico.
Scrive a penna biglietti di appunti per canzoni o altro, il Califfo casalingo di oggi, anche se possiede un computer ultimo modello (“compro sempre la cosa migliore, ma di Internet non capisco niente”) e anche se soffre ancora di nostalgia per il “tic tac” della macchina da scrivere. Guarda la pedana per l’esercizio fisico che dovrebbe fare, pur essendo rimasto con un polmone solo (“io combatto e vinco le malattie pesanti, ho vinto una meningite e un tumore, in vita mia”), poi sbuffa (“la voi, te serve? si la voi prendila, tanto io dopo due minuti de ginnastica me so già rotto le palle”). La televisione ce l’ha, guarda film e partite, e riguarda all’infinito Al Pacino in “Profumo di donna”.

La malinconia lo pervadeva pure prima, pure quando aveva accanto la bella attrice francese Dominique Boschero e scriveva canzoni da trecentocinquantamila copie e non faceva in tempo a dire “il resto è noia” che era già passato oltre, e a Fregene faceva vita da adolescente con Mita Medici, suo grande amore durato sempre poco, ma più degli altri (a Mita aveva molto ripensato, gli era mancata, e chissà se era lei quella della canzone con cui si ri
presentò a Sanremo, nel 2005, cantando “non escludo il ritorno”, frase che, ha detto a Diaco in “Senza manette”, vedrebbe con piacere incisa sulla sua lapide, dopo un funerale allegro, non con gente che si compra gli occhiali apposta).
Faceva “lo sfrontato”, quando era giovane e già malinconico, Califano, quando le mogli degli altri gli facevano capire che “un bacio perché no” – il bacio è già la vetta, “questo devono capire i giovani” che gli chiedono consiglio, giovani “seriamente” preoccupati per le loro relazioni, giovani “frettolosi, egoisti, spaventati dalle ragazze”. Il Califfo ha scritto pure un manuale erotico, “Il cuore nel sesso”, il sesso spiegato da “uno che è pratico” (“Altro che Alberoni, che ha conosciuto solo sua moglie”), e in un altro libro, “Calisutra” ha spiegato che era troppo giovane (diciannove anni) quando si è sposato, e meno male che la moglie “magnanima” non l’ha denunciato quando se n’è andato, ché all’epoca l’abbandono del tetto coniugale era reato, ma tanto lui se ne va sempre, quando la noia sale, e se oggi gli si chiede perché tutte le storie finivano così in fretta, anche quando erano amore vero, anche se precipitavano così bene nelle canzoni, Califano non dice nulla, ma mostra l’avambraccio col tatuaggio “il resto è noia”. “A che serve trascinarsi”, dice, “ce l’avessero, il coraggio di troncare, gli infelici di oggi”, gente che al sesso è arrivata “senza preparazione”, senza “andare per terrazze”, come lui e i suoi amici da adolescenti, pazzi di passione per le donne che si chinavano a prendere i panni da stendere, e per le loro gonne svolazzanti – e una decina d’anni fa, per una trasmissione tv, Califano ha fatto un viaggio Roma-Milano con Rosanna Cancellieri, interamente ripreso dalle telecamere, e ha raccontato in quattro ore, oltre alla storia delle terrazze, tutta la sua vita sentimentale, con Cancellieri che, imbarazzata, non sapeva bene che cosa dire. E però il Califfo versione reality funzionava bene, tanto da far impennare, poi, gli ascolti di “Music farm”, una specie di Grande Fratello dei cantanti in cui interpretava il personaggio del casinaro.

Forse, dice Franco Califano, sono proprio la catena d’oro al collo e i braccialetti la cause dell’ostracismo schifiltoso contro “il trucido” cui l’ha dannato un certo ambiente, anche prima della sua doppia avventura giudiziaria risoltasi con quelle che chiama “le assoluzioni strapiene”, una volta nel 1970, ai tempi del processo Walter Chiari, e una volta nel 1983, ai tempi del processo Tortora, solo che Califano viene citato un po’ meno di Walter Chiari ed Enzo Tortora, come tragico esempio di errore giudiziario. Ascolta volentieri Radio Radicale, il Califfo, e però si sente un reietto della memoria garantista: gli altri “giustamente esaltati” come vittime di malagiustizia, lui “ingiustamente dimenticato” come vittima di malagiustizia, gli altri “presi nel mucchio” perché famosi, lui preso nel mucchio “per riempire un buco dopo la scarcerazione di Walter Chiari” e poi perché, “nel paese del fango”, aveva il curriculum giusto (“amicizie losche, vizi esibiti, look malavitoso, modo di esprimermi volgare e anticonformista, un passato truce, nessuna protezione politica”, scrive in “Senza manette”). Un tipo adatto ai reati ipotizzati: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico internazionale di stupefacenti (il cui uso Califano aveva sempre ammesso per uso personale), sfruttamento della prostituzione, anche allora reato perfetto per prove imperfette. Ancora oggi il Califfo non si capacita del perché “soltanto Bettino Craxi” (altra foto su un comodino del salotto) si interessò alla sua sorte di “innocente dietro le sbarre”, disperato come nel primo collegio da cui era “evaso scalzo” da bambino, idolo dei detenuti (“com’è a letto quell’attrice?”, gli chiedevano i carcerati stanchi dei giornaletti porno) e impaurito a morte dall’apatia che aveva preso il compagno di cella Pietro Valpreda. (“Chi mi vuole prigioniero non lo sa, che non c’è muro che mi stacchi dalla mia libertà”, dice, non a caso, la strofa di una delle sue canzoni più celebri, “La mia libertà”).

Ci soffre ancora, Califano, per il fatto che nessuno, nell’ambiente, se lo filava, dopo la galera, e anche dopo che, “tiè”, ha ricevuto la laurea in Filosofia honoris causa all’Università di New York. Sul suo sito, tenuto dai fan, c’è scritto con una punta di polemica che “fosse nato altrove”, Califano, “magari in America, oggi sarebbe annoverato tra i guru di quell’élite rivoluzionaria targata beat generation”, in Francia tra gli “impenitenti chansonnier” e in Inghilterra tra quelli che si possono fregiare del titolo di “Sir”, e fosse nato a Genova, aggiunge Califano, sarebbe stato considerato “cantautore nobile” (e lui alcuni cantautori nobili li ama, per esempio Francesco De Gregori e Paolo Conte, mentre altri non li capisce: “Perché Vecchioni si è messo a vestirsi da comunista?”). “Certo, magari è perché non sono proprio uno di sinistra, che non mi si filano”, dice Califano. Certo, magari è perché non è mai stato propriamente un cantautore impegnato quando tutti erano cantautori impegnati, tra il 1968 e il 1977, ha scritto in “Senza manette”. (“Facevo altro”, dice, “non mi andava di seguire la moda del prendere un fatto di cronaca e costruirci per forza attorno una canzone. Cantavo altro – l’amore, l’amicizia, la vita – e facevo il tutto esaurito ovunque”). Lo chansonnier trucido, che la stampa non ostile poi definì “Prévert di Trastevere” e “Belli dei giorni nostri”, scriveva pezzi storici per Mia Martini (“La musica è finita”, “La nevicata del ’56”) e album per l’amica Mina (“Amanti di valore”, nel 1974). Usciva dal King’s di Porto Ercole e stava in spiaggia con la vodka a parlare con gli amici dei fatti suoi e partiva per il weekend con una ragazza appena incontrata e il weekend diventava una settimana e poi un mese. Scriveva canzoni che vedevano nel suo stesso futuro, Califano, si sentiva vita non scontata fin dal primo minuto: nato a bordo di un aereo, nel 1938, sul cielo di Tripoli, reduce di un’infanzia randagia, adolescente duro che al funerale del padre affonda il dolore in un rapporto occasionale con una sconosciuta. (Califano dice di odiare “i lamentosi”, la gente “che va in televisione a raccontare i drammi famigliari e non capisce “che oggi il padre morto ce l’hanno un po’ tutti”).
Che poi alla fine era pure divertente, essere un giovane senza mezzi nella Roma della Dolce Vita. Bastava “essere bellocci” e si poteva “sfruttare la presenza”, fare fotoromanzi, “tirare avanti con tre espressioni: arrabbiato, felice, pazzo d’amore”, fare la parte del cattivo e far innamorare le colleghe di set, con gran scorno del regista che si atteggiava, e diventare, grazie a “Grand Hotel”, “il Gary Cooper delle serve”. “Era quella la mia strada, l’attore”, dice Califano, “mi vedevano nel cinema internazionale, potevo essere un Al Pacino o un De Niro, chissà”, ma poi due mandati di cattura stroncarono sul nascere i sogni di gloria (“ero partito bene, vai a sapere”). Fu l’amico Edoardo Vianello a chiedergli di scrivere una canzone per lui, visto che scriveva di tutto, compulsivamente (“mi dicevano che avrei dovuto fare il liceo classico, perché a sedici anni avevo scritto varie novelle di vita vissuta”, poi confluite nell’immaginario delle canzoni sulla vita di borgata).

Il resto fu noia e gioia, e incontri diventati canzoni: l’amico che non ricordavi più e “ch’ha tante rughe in più” e “ti fa pietà” anche se tu odi l’espressione “tempo fa” e allora “te fai ’n pianto sulla vita tua perché la trovi inutile follia…”; l’ultimo amico che va via “perché domani se va’ a sposa’ / er vecchio gruppo ‘ndo sta / me li so’ persi così / se so’ scordati de me
/ tanto amici e poi… tiè!”); il bicchiere di vino che ordina al cuore di non fare lo scherzo di soffrire ancora per lei (“Core, sopravvivi a ’sto dolore/ nun me da più er dispiacere de crolla’ pe’ lei… / E intanto io me ’mbriaco…”); Roma che accoglie di notte il poveraccio che soffre per amore (“’N amico nun ce sta che me po consolà stasera / m’attacco a ’sta città che s’è addormita gia da ’n’ora… / …cammino su de lei, su strade uguali a pelle scura / si poi se sveglierà, io certo nun glie posso fa’ paura / … Roma nuda…”). Il resto è stato gioia e noia, da Roma a Milano e ritorno (“all’estero no, non conosco le lingue”) specchiandosi nei cani incontrati per strada (“Io nun piango pe’ quarcuno che more / non l’ho fatto manco pe ’n genitore / che morenno m’ha ’nsegnato a pensare / Io piango quanno casco nello sguardo / de’ ’n cane vagabondo perché / ce somijamo in modo assurdo / semo due soli al monno. Me perdo, in quell’occhi senza nome / che cercano padrone / in quella faccia de malinconia / che chiede compagnia”).
Eppure del suo passato non conserva nulla, neanche i dischi, il Califano che non vuole finire nel gruppo “dei rincoglioniti al bar”. Vuole essere un “uomoartista tutto attaccato”, dice con riso amaro (“so che ai giovani piaccio io, più che la mia musica, anche se spero che l’arte, un giorno, mi venga riconosciuta”).

Marianna Rizzini
Fonte: www.ilfoglio.it
1.04.2013


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