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La gravità delle pene


Tao
 Tao
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L’inumanità di ciò che ha fatto Breivik non deriva solo dalle decine di giovani vite che ha spento e dalle centinaia di feriti e mutilati che ha prodotto, ma anche dalla presunzione del superuomo che, per lanciare al mondo il suo messaggio, riduce a oggetto irrilevante la persona delle sue vittime. Vittime anche a suoi occhi incolpevoli, ma strumenti utili al suo disegno. Certa essendo – e anzi rivendicata - la sua colpevolezza, come resistere alla tentazione di trasferire dal fatto alla persona il giudizio di «non umanità»? Che farne? Come punirlo? Punirlo o renderlo inoffensivo, o entrambi? Come in altri atroci casi il dibattito esce dalle aule giudiziarie, dagli studi dei criminologi e dei penalisti, dai parlamenti e investe la società nel suo complesso. La richiesta è solitamente di maggior severità delle pene inflitte ed anche di lunga, se non definitiva, esclusione del colpevole dal consorzio sociale.

In Norvegia il difficile (impossibile?) quesito sulla capacità di intendere e di volere di Breivik è stato oggetto di sondaggio di opinione e la maggioranza ha detto di volerlo condannato piuttosto che internato in custodia psichiatrica. In Belgio, pochi giorni orsono, la liberazione condizionale dopo sedici anni di reclusione, della moglie complice del Dutroux che seviziò e uccise numerose giovani ragazze, ha spinto centinaia di persone a protestare in corteo, guidate da parenti delle vittime. In Italia le condizioni, spesso inumane, in cui i detenuti vengono tenuti in carcere non riescono a suscitare grande turbamento nella società. Negli Stati Uniti i candidati alla presidenza si guardano bene dal mettere in discussione la pena di morte, ma persino si tengono lontani dal problema della diffusione delle armi da fuoco, pur davanti alle ripetute stragi con esse compiute. Segnali diversi di un atteggiamento che ha tratti simili.

La storia delle pene criminali riflette la varietà degli scopi del potere statale di punire, dopo che lo Stato ne ha assunto il monopolio, progressivamente escludendo o limitando la vendetta privata. Essa illustra anche l’evoluzione dei costumi e della sensibilità umana, che ha portato via via ad attenuare le più atroci sofferenze inflitte ai rei. A lungo pene con sofferenze per noi oggi inconcepibili rimasero in vigore e furono praticate in società per altri versi celebrate come modelli di raffinata civiltà. Tra i tanti, la Venezia del ‘600 e ‘700 né può essere un esempio. Si trattava non solo della pena di morte, ma con essa di torture efferate, praticate in pubblico per punire il colpevole e, con le sue sofferenze, ammonire il popolo. Il popolo ne era intimorito, ma anche partecipava allo spettacolo. Ciò che in Europa fa parte della storia, è ancora visibile altrove nel mondo e qui da noi ora suscita orrore. Ma si tratta di storia nostra ancora recente e non priva di lasciti. Cesare Beccaria, solo duecentocinquant’anni orsono, combatteva la pena di morte e la pratica della tortura, ma per i più gravi reati suggeriva una pena gravissima, una «perpetua e gravosa detenzione»; sulla sua scia Denis Diderot, proponeva di sostituire la pena di morte con la «schiavitù perpetua», con «una dura e crudele schiavitù».

E si trattava degli intellettuali più illuminati della loro epoca, quella in cui affondano le radici del diritto del nostro tempo. Nello stesso ordine di idee, la proposta del Comitato della legislazione penale dell’Assemblea costituente francese del 1789 di abolire la pena di morte, era accompagnata e sostenuta dall’atrocità della pena sostitutiva: pena detentiva da dodici a ventiquattro anni, così descritta: «Il condannato sarà detenuto in una segreta oscura, in completa solitudine. Corpo e membra porteranno i ferri. Del pane dell’acqua e della paglia gli forniranno lo stretto necessario per nutrimento e doloroso riposo». Una volta al mese la porta della cella sarà aperta «per offrire al popolo una lezione importante. Il popolo potrà vedere il condannato carico dei ferri al fondo della sua cella, e leggerà sopra la porta il nome del condannato, il delitto e la sentenza».

E’ passato il tempo, i costumi si sono addolciti, la repulsione per la crudeltà, anche e specialmente se praticata dallo Stato, è cresciuta nella società. Ma la questione della gravità della pena da infliggere ai colpevoli di reati (non necessariamente solo dei più gravi) è sempre aperta e riguarda la giustificazione e lo scopo della pena, insieme alla legittimazione dello Stato e della società a infliggerla. La retribuzione per il male cagionato si accompagna alla preoccupazione di eliminare il pericolo che il criminale può rappresentare. Pene dolorose dunque, e lunghe o persino perpetue, come l’ergastolo («fino alla fine»). Ma a queste elementari richieste si accompagna ora, pur senza integralmente sostituirsi ad esse, un diverso atteggiamento, non disperato rispetto alla natura inemendabile del criminale, ma ottimista o almeno non chiuso alla speranza. Si tratta della scelta, anche propria della nostra Costituzione, che vede nella pena l’occasione e la possibilità di risocializzazione del reo: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Pene lunghissime e tanto più le pene perpetue, non solo finiscono per applicarsi nel corso del tempo a persone che necessariamente sono diventate radicalmente diverse da quelle che hanno commesso il delitto (perché allora continuare a punirle?), ma in più, sopprimendo ogni speranza nel detenuto, lo incattiviscono piuttosto che aprirlo a rapporti corretti con gli altri. Chi opera nelle carceri a contatto con i detenuti conosce questa dinamica nell’esecuzione delle pene.

Sono questi degli argomenti che rispondono alle domande di fondo sul potere o addirittura del dovere di punire? E sul come e quanto punire? O sono solo considerazioni che arricchiscono il quadro, mostrando quanto complesso e relativo esso sia? Forse senza risposta definitiva e tranquillizzante.

Vladimiro Zagrebelsky
Fonte: www.lastampa.it
25.08.2012


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