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La lingua che parliamo influenza


Matt-e-Tatty
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La lingua che parliamo influenza la personalità e modella il cervello

La nostra visione del mondo è profondamente condizionata, fra l’altro, dal linguaggio che usiamo per esprimerci. L’idioma madre viene oggi correlato anche ad atteggiamenti che ne sembrerebbero lontani, come la propensione al risparmio o il senso di colpa

di Elena Meli

La capacità di comunicare attraverso un linguaggio parlato e scritto, strutturato e complesso, è la caratteristica che più ci distingue dagli altri animali. Non solo: il linguaggio è in grado di “modellare” il nostro cervello, le convinzioni e gli atteggiamenti cambiando il modo di pensare e agire. Essere madrelingua inglese, cinese, o russo ha effetti diversi sull’architettura del pensiero, stando a un numero sempre più nutrito di studi. Succede perché ogni lingua pone l’accento su elementi diversi dell’esperienza, forgiando così un modo specifico di vedere il mondo.

Le parole e il substrato culturale

In parte dipende dalle influenze culturali, come spiega Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista e docente di neuropsicologia dell’Università San Raffaele di Milano: «La parola che indica uno stesso oggetto in lingue diverse può acquistare sfumature differenti, che dipendono dal substrato culturale specifico». In cinese “drago” rimanda non solo a un animale fantastico e pauroso ma soprattutto a un simbolo di fortuna, forza, saggezza: inevitabilmente un cinese “vedrà” in modo diverso da un occidentale perfino un essere del tutto irreale. Accadrà lo stesso a un bilingue: per un anglo-cinese il drago sarà meno spaventoso che per un inglese. «La visione culturale sottesa alle parole di lingue differenti può influenzare chi conosce più di un idioma — sottolinea Abutalebi —. Il cervello, dovendo processare lingue con una semantica varia, associa ai singoli concetti elementi tratti dai linguaggi che conosce. In genere poi chi padroneggia più lingue è più curioso nei confronti delle culture legate agli idiomi conosciuti e questo facilita una maggior apertura e una visione diversa delle cose. Il modo di pensare e relazionarsi col mondo rimane immutato solo se una lingua viene imposta, perché in questo caso si mette in atto una resistenza a qualsiasi “commistione” culturale».

La madrelingua resta il vettore della morale e dell’etica

L’influenza del linguaggio sul nostro Io è tuttavia ancora più profonda, con effetti sorprendenti perfino sulle decisioni coscienti: uno studio su PLOS One ha dimostrato che quando ci esprimiamo in una seconda lingua tendiamo ad avere meno remore morali. I partecipanti all’esperimento pubblicato su PLOS One infatti accettavano di sacrificare una persona per salvarne cinque - facendo una scelta “utilitaristica”- più spesso se veniva loro chiesto nella seconda lingua rispetto a quando dovevano esprimere il loro parere in madrelingua: in questo secondo caso prevaleva infatti il divieto morale a uccidere. «Un idioma che non sia appreso dalla nascita è meno influenzato dalle emozioni perché mentre lo si parla si deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la madrelingua, che resta il vettore della morale, dell’etica, dei sentimenti», commenta Abutalebi. Il linguaggio appreso in culla è anche quello che più modula la nostra struttura mentale.

Chi parla una lingua senza numeri non sa far di conto

E la lingua può perfino modulare l’attitudine al risparmio come ha scoperto l’economista Keith Chen dell’Università di Los Angeles: i cinesi, che non hanno un tempo verbale preciso per indicare il futuro, hanno una propensione a mettere da parte i soldi del 30% maggiore rispetto a chi parla lingue più “definite” forse perché «identificare linguisticamente il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando meno a risparmiare», ha spiegato Chen. Si è scoperto che pure indicare il genere delle parole incide sulla visione del mondo: uno studio su bambini ebrei e finlandesi ha rivelato che i primi si accorgono in media un anno prima di essere maschi o femmine anche perché la loro lingua assegna quasi sempre il genere alle parole, mentre in finlandese non accade. In alcuni casi gli effetti di un idioma sono ancora più curiosi: Lera Boroditsky, dell’Università di Stanford, ha verificato che nella lingua della tribù Piraha, in Amazzonia, non esistono lemmi per indicare i numeri ma solo i termini “pochi” o “tanti”. Risultato, i Piraha non sanno tenere conto di quantità esatte.
Forse Shakespeare aveva torto: ciò che chiamiamo rosa non profumerebbe così tanto, se la chiamassimo con un altro nome.

Con i numeri serve un maggiore «sforzo cognitivo»

Riguardo alla matematica: i numeri si “pensano” nella lingua che sentiamo come primigenia perché, come spiega il neuropsicologo Jubin Abutalebi, «la matematica attiva circuiti cerebrali diversi da quelli del linguaggio e chiama in causa un maggior “controllo”. Da un certo punto di vista è simile alla grammatica, la parte del linguaggio più influenzata dal periodo di apprendimento dell’idioma: nei bilingui tardivi ad alta padronanza, quelli cioè non distinguibili dai madrelingua anche se hanno appreso la seconda lingua non in contemporanea alla prima, una mappatura cerebrale rivela una maggiore attivazione delle aree di controllo esecutivo durante compiti di grammatica, mentre in caso di compiti lessicali o semantici l’attivazione è identica a quella di un bilingue precoce. Per padroneggiare la grammatica delle lingue apprese dopo l’infanzia serve perciò uno sforzo cognitivo maggiore».

Da Carlo Magno a Noam Chomsky

Si dice che Carlo Magno abbia detto: «Conoscere una seconda lingua significa possedere una seconda anima». Ne era convinto anche il linguista americano Benjamin Lee Whorf che, nel 1940, postulò la teoria secondo cui il linguaggio plasma il cervello al punto che due persone con lingue differenti saranno sempre cognitivamente diverse. Tale tesi passò di moda con gli studi di Noam Chomsky, che negli anni ‘60 e ‘70 propose la teoria di una “grammatica universale”, ovvero basi generali comuni per tutti i tipi di linguaggio. A partire dagli anni ‘80, però, alcuni studiosi hanno iniziato a rivalutare Whorf, depurando la sua teoria dagli eccessi: così oggi sappiamo che, al di là di fondamenta concettuali simili, ogni linguaggio sottende una sua “visione del mondo” e la infonde, almeno in parte, in chi lo parla. Un esempio è il senso di colpa e di giustizia: in inglese se un vaso si rompe si sottende sempre la presenza (e quindi la responsabilità) di qualcuno, in spagnolo si tende a dire che il vaso si è rotto. Secondo alcuni proprio da questo dipende la tendenza anglosassone a punire chi trasgredisce le regole, più ancora che risarcire le vittime.

http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/16_febbraio_26/lingua-influenza-personalita-modella-cervello-95a1f04a-dc83-11e5-830b-84a2d58f9c6b.shtml?

Un professore tempo fa mi spiegò che la forza della lingua latina (e in parte di quelle derivate con la lingua italiana in prima fila) è quella di non lasciare molto spazio all'equivoco, quando parlava un romano dell'antica Roma, il significato delle parole che usava non poteva essere travisato.
Forse dovremmo impararlo tutti il latino, o obbligare la nostra classe dirigente a rivolgersi a noi solo con quell'idioma.

prelevare

Vocabolario on line
prelevare v. tr. [dal lat. tardo praelevare «levare prima», comp. di prae- «pre-» e levare] (io prelèvo, ecc.). –

1. Prendere , detrarre, ritirare parte del denaro o di quanto (oggetti, materiali, ecc.) è messo in deposito: p. una somma in banca; p. una quantità d
i merce dal magazzino. Più genericam., prendere una piccola parte di un tutto: p. un campione, per un esame merceologico, chimico, ecc.: p. sangue, secreti, a scopo diagnostico o terapeutico.

2. estens.

a. Requisire per necessità di guerra; anche, scherz., rubare: sull’autobus gli hanno prelevato il portafoglio.

b. Portar via da un luogo una persona, d’autorità o con la forza: all’alba sono venuti i carabinieri a prelevarlo; lo hanno prelevato come ostaggio; scherz., passare a prendere una persona in un luogo: alle otto verrò a prelevarti a casa tua.

http://www.treccani.it/vocabolario/prelevare/

rilevare

Vocabolario on line
rilevare (ant. relevare) v. tr. [lat. relĕvare «sollevare, rialzare», comp. di re- e levare] (io rilèvo, ecc.). –

1.

a. Levare, togliere di nuovo: s’era già messo il cappello in capo, ma se lo rilevò quasi subito.

b. ant. o raro. Alzare, rialzare, risollevare: la donna, alquanto spaventata, il cominciò a voler rilevare (Boccaccio); fig., risollevare spiritualmente: per alquanto gli animi vostri pieni di compassione per la morte di Ghismunda forse con risa e con piacer rilevare (Boccaccio); o moralmente, da una condizione di peccato, d’abiezione: La divina bontà ... A rilevarvi suso fu contenta (Dante, con allusione all’opera di redenzione). Più com. nel rifl. o nell’intr. pron., rialzarsi, risollevarsi, sia in senso proprio sia in senso fig., spirituale o morale: s’è rilevato dal letto solo ieri; l’aereo si rilevò in volo; si è rilevato il vento; più largo fu Dio a dar sé stesso Per far l’uom sufficiente a rilevarsi (Dante); rilevarsi dall’abiezione; diamogli la possibilità di rilevarsi.

c. tosc. Allevare: l’ha rilevato con i suoi sudori; dopo la morte della mamma, è stato rilevato dalla zia; l’hanno rilevato assai male.

2.

a. Rialzare, dando rilievo: r. una figura a sbalzo.

b. Ritrarre, ricavare: che frutto rileverà dalle sue fatiche?; più spesso, con valore concr. e in usi più tecn.: r. le impronte digitali; r. un disegno da uno schizzo, una statua da un abbozzo; r. la maschera da una salma; r. un calco.

c. Nell’uso scient. e tecn., effettuare un rilevamento (v. rilevamento, n. 2): r. situazioni, dati, elementi, in statistica; r. una zona, il terreno, in geologia e in geofisica; r. una costa, in idrografia; r. una nave, un astro, un punto di riferimento, un bersaglio, in marina e in aeronautica.

d. Individuare o accertare situazioni e fatti per mezzo di ricerche, indagini, analisi e altri procedimenti conoscitivi: l’ispettore inviato dal ministero ha rilevato gravi irregolarità; dai sintomi non si rileva nulla di preoccupante. Anche, venire a conoscenza, apprendere, comprendere, arguire: rileviamo dalla vostra lettera che non avete ancora ricevuto ...; dalle sue parole rilevo che ha capito ben poco di tutta la questione; da varie cose m’è parso di poter r. che ci dev’essere qualche altro intrigo, che per ora non si può capire (Manzoni); notare: rilevo che nell’elenco mancano alcuni nomi; spesso con l’idea di critica, di biasimo, e in questo caso, oltre al senso di notare, ha anche quello, frequente, di far notare, mettere in evidenza, additare ad altri: gli feci r. che il suo contegno non era corretto; il vigile rilevò che l’automobile era troppo spostata a sinistra; r. i pregi, i difetti, gli errori, gli spropositi, le incoerenze, le contraddizioni, di un discorso, di uno scritto, di un autore, ecc.

3. Liberare una persona da un peso, da un aggravio, da una responsabilità, assumendo per sé i suoi compiti o oneri. Dell’uso più largo che aveva in passato, oggi conserva soprattutto questi sign.:

a. Subentrare in un contratto o in una gestione in sostituzione dei contraenti o dei gestori originarî: r. un contratto di locazione; r. un negozio, un’azienda; subentrare nel possesso, mediante acquisto: ha avuto in affitto la bottega, ma ha dovuto r. i mobili; r. una partita di merce, ricomprarla in blocco da chi intende disfarsene.

b. In diritto civile, liberare qualcuno da un’obbligazione assumendosi l’onere del suo adempimento: r. il fideiussore, nel contratto di fideiussione; r. i promotori dalle obbligazioni assunte, nelle società per azioni.

c. Riferito a persona, sostituirla nel suo lavoro o nel suo compito, dandole il cambio alla fine del suo turno: r. una sentinella; alle 20, venne a rilevarlo l’infermiere notturno. Per estens., andare a prendere qualcuno per accompagnarlo altrove: andrò io a rilevarlo alla stazione; alle sette, vieni a rilevarmi in ufficio.

4. intr.

a. Aggettare, elevarsi da una superficie, prendere rilievo, e per estens. spiccare, stagliarsi su uno sfondo per nettezza di contorni o per vivezza di luce, di colore: ricami che rilevano sulla stoffa; la sua figura bianca rilevava (ma più com. si rilevava) nella penombra della stanza.

b. tosc. Riferito alla pasta di pane, di focacce e dolci, rigonfiarsi per effetto del lievito: questi panini non sono ben rilevati (è questo l’unico sign. degli usi intr. in cui si abbiano anche i tempi composti).

c. fig., letter. o non com. Avere peso, importanza, contare: tutto questo non rileva nulla; rileva molto, poco se ...; dove Dio sanza mezzo governa, La legge natural nulla rileva (Dante); Sai quanto ciò rilevi (T. Tasso). Quindi anche giovare, riuscire, approdare a qualche cosa: Il sempre sospirar nulla releva, verso del Petrarca (Canz. CV) apposto dal Leopardi come epigrafe alla sua Palinodia (ma con il verbo nella forma rileva). ◆ Part. pres. rilevante, anche come agg. (v.). ◆ Part. pass. rilevato, anche come agg. e s. m. (v.).

http://www.treccani.it/vocabolario/rilevare/


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Neriana
Estimable Member
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Grazie Matt-e-Tatty, io sono innamorata delle lingue e delle parole e della specificità di ogni linguaggio e di ogni vocabolo, per cui davver grazie di questo articolo


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Rasna
Honorable Member
Registrato: 2 anni fa
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ma lo sai che hai ragione....
io parlo un discreto inglese e non ho bisogno di tradurre dall'italiano ma per i calcoli, anche se sono all'estero e parlo (e penso) solo in inglese, li faccio in italiano. Se provo a farli usando l'inglese mi perdo alla prima operazione più difficile di una somma di due numeri.


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Matt-e-Tatty
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In realtà poi, la nostra lingua madre non è nemmeno quella italiana, ma il nostro dialetto.

Il mio per esempio, oltre che avere delle proprietà analgesiche (quando ci si da una martellata su un dito, o ci si frega una mano con un cacciavite, l'imprecazione in romagnolo lenisce molto il dolore), piacerebbe molto alla presidentA, in quanto contiene moltissime parole che nascono al maschile, ma che declinate al femminile suonano benissimo e non perdono in musicalità.
In italiano non è così, PresidentA suona male, avvocatA pure, e sono tante altre che stridono se non declinate nel genere con cui sono nate.

Provo a fare un esempio pratico.

Imbecille è maschile, se declinato al femminile diventa ImbecillA, si capisce bene che suona male.
In Romagna se ci si trova di fronte ad un imbecille di sesso maschile si dice "Imbezél" mentre se ci si trova di fronte alla PresidentA del Consiglio, la si può far felice declinando al femminile e senza comprometterne la musicalità: Imbezélla".


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Rasna
Honorable Member
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Post: 634
 

Beh si forse vale per il romagnolo, ma per noi romani che non abbiamo un dialetto ma semmai un accento (per quanto pesante, non lo nego) questo non vale.
Non sto parlando del classico buzzurro televisivo che estremizza il gergo da borgata per caratterizzare il suo personaggio ma della maggioranza dei romani che non usano quel linguaggio e che, a parte poche parole ormai arcinote, non possono avvalersi di una forma di "sollievo" come concede il dialetto romagnolo.
Certo è che a volte si possono mutuare dei termini da altre lingue, per esempio io trovo che il napoletano possa rappresentare la giusta valvola di sfogo nel traffico cittadino... se solo non fossi ridicolo a dire parole napoletane declinate nel mio accento romano 😆


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Matt-e-Tatty
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Battutazze a parte, non sapevo che non ci fosse il dialetto romano. Prima dell'italiano come parlavano i romani? Ero convinto che fosse quel modo di parlare definito "coatto".


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Anonymous
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Registrato: 2 anni fa
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Il Romano esiste, eccome ed e' una varieta' di Toscano, il quale e' abbastanza preponderante nella artificiale ed artificiosa lingua pre-fabbricata italiana.

Comunque questi del Corriere "so' fforti": dall'alto della loro ignoranza ci comunicano di non avere mai avuto notizia dell'esistenza di Marshall McLuhan.

Complimenti. E come tutti gli ignoranti: "un recente studio...."

1962: The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man


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