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La media non conta più. Ipermeritocrazia e futuro del


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Tyler Cowen, “La media non conta più. Ipermeritocrazia e futuro del lavoro”

Dopo aver letto l’interessante libro di Brynjolfsson e McAfee proseguiamo con il testo per molti versi complementare di Tyler Cowen, che condivide (e per molti versi incrementa) la preoccupazione per le conseguenze delle trasformazioni nel mondo del lavoro e della produzione (sia di beni sia di servizi) che si stanno affacciando prepotentemente nella nostra epoca. Come vedremo fondamentalmente ogni guadagno di produttività è realizzato disintermediando qualche mediazione umana o comunque riducendo gli input di lavoro a parità di risultato. Ciò che vediamo è, in altre parole, un paesaggio nel quale gli uomini sono sempre più marginali e molti territori lo diventeranno (incluso il sud Europa).

La posizione di Tyler Cower è di un conservatore con componenti libertarie (in USA più o meno significa destra), per sua diretta dichiarazione (p. 95), e nel libro se ne vedono tracce, anche per questo prenderemo le distanze da alcune delle sue conclusioni e valutazioni, ma la sua analisi tagliente merita sicuramente una lettura attenta. L’osservazione dalla quale parte il lavoro è piuttosto semplice: molti giovani sono costretti a fare i conti con una netta diminuzione delle opportunità di lavoro ed un degrado della loro qualità, ciò mentre pochi altri guadagnano molto di più. La distribuzione delle opportunità si sta divaricando, la media non conta più.
Questo nuovo ambiente fortemente ineguale deriva, per Cowen, da alcune spinte basilari:
- La crescente produttività delle macchine intelligenti,
- Gli effetti della globalizzazione dell’economia,
- La divaricazione tra settori economici stagnanti e settori dinamici.

In questo ambiente aggressivo lo spartiacque individuale è ormai la capacità di lavorare con le macchine intelligenti, traendo da esse il meglio. Infatti in ultima analisi “l’onda che solleva in alto o scaraventa in basso è l’incremento della capacità delle macchine di sostituire il lavoro intelligente dell’uomo”. Bisogna notare la parola “intelligente”, perché la novità di cui si fatica a misurare la portata è che ciò che le macchine sostituiscono non sono le braccia dell’uomo ma il suo cervello. È la sua intelligenza (come vedremo meglio per ora soprattutto nelle prestazioni proceduralizzabili e routinarie, ma via via anche in quelle più evolute) ad essere imitata.
Questa dinamica muove attraverso una grande serie di innovazioni, come i robot nelle sale operatorie, guardie carcerarie robotizzate (in Corea) o le immancabili auto automatiche (che potrebbero far precipitare il parco auto di parecchie volte), i software per la compilazione di notizie giornalistiche, o per la valutazione di testi, o per i consigli sui comportamenti individuali (magari dai telefonini).

In sostanza l’intelligenza meccanizzata aiuta a fare molte cose in modo molto più economico, questo semplice ma potentissimo effetto andrà a vantaggio di ciò che è scarso. Cioè dei terreni di qualità e dei territori pregiati, della proprietà intellettuale e del lavoro di qualità; mentre svantaggerà in modo decisivo il lavoro non qualificato, per il quale crescerà la concorrenza, e il denaro non impiegato (che, infatti, sconta la tendenza a tassi bassi o negativi).
In questo nuovo ambiente troveranno, è vero, spazio molti nuovi lavori nei servizi alle persone, ma tendenzialmente poco pagati (a meno siano di grande pregio e nei cluster più dinamici), e lavori nel settore del marketing (dato che saranno rimescolati tutti gli assetti) come del management (per la prevalenza di nuovi schemi organizzativi basati sul lavoro di gruppo in remoto). Ma la tendenza generale, già molto visibile, sarà che il segmento centrale della distribuzione dei redditi e dei lavori si assottiglierà sempre di più. Tutto questo è molto visibile dall’inizio del millennio (anzi, dagli anni ottanta del secolo precedente): dal 1999 al 2007 i lavori che sono cresciuti di più sono quelli sottopagati ed il reddito mediano è sceso costantemente (al 1999 ha raggiunto il suo massimo), dal 2007 al 2011 è sceso del 8%. Anche il reddito complessivo distribuito agli stipendi è sceso dal 63% del reddito nazionale, nel 1990, al 58% nel 2011.
Sono tendenze potenti, che muovono dal 1980, e che portano ad una crescita costante dei redditi alti ed alla stagnazione o calo di quelli medi e bassi.
Cowen non si chiede se questo fenomeno sia anche dipendente (o coprodotto) dalle politiche pubbliche introdotte dal reaganismo, in particolare dalle politiche fiscali in favore dei ricchi e dalla deregolazione. Individua, invece, fenomeni centrali come la riduzione del tasso di partecipazione alla forza lavoro (in diminuzione dall’inizio millennio) e lo spiazzamento che il lavoratore medio ricava dalla possibilità di sostituire i compiti routinari con sistemi automatizzati, anche molto raffinati. In sostanza evidenzia come la maggior parte delle persone sia concentrata nell’esecuzione ripetitiva di routine specializzate, anche sofisticate, e non sia formata od orientata al pensiero astratto e concettuale (“intelligenza generale”, o “fattore g”). Questa caratteristica lo espone alla facile sostituzione o marginalizzazione nel momento in cui software sempre più “intelligenti”, flessibili e capaci di imparare, vengono introdotti.
Quindi e progressivamente sistemi sempre più potenti sostituiranno tutti quelli che non sono capaci di mettere in campo la magia di saper lavorare con le macchine in modo profondo e creativo. L’esempio portato è quello degli scacchi free-stile (in cui squadre di giocatori e di analisti, insieme a software di gioco potentissimi, riescono normalmente a prevalere sia contro grandi campioni umani sia contro i software da soli). Da pag. 82 è dettagliatamente spiegato che i software di gioco, ma anche quelli che operano nel settore borsistico nel trading on line, o nel suggerimento di scelte e strategie (che prenderanno molto piede), si affermano per la loro capacità di interrogare enormi cataloghi precostituiti di soluzioni, di combinarle (un punto sul quale insistevano anche Brynjolfsson e McAfee) e di non sentire lo stress. Inoltre di scegliere soluzioni senza lasciarsi influenzare dalle emozioni e dal nostro senso estetico. Gli uomini, infatti, cercano sempre di farsi guidare dall’intuizione e dall’eleganza delle teorie che applicano (il che spesso li porta fuori strada). Le macchine, invece, rendono possibili descrizioni precise, regolari e freddamente noiose.
Questo potrebbe (anche nel mondo delle professioni e della consulenza) alzare la concorrenza, esporre tutti a minuziose valutazioni quantificate, che contribuiranno a ridurre compensi e tariffe (p. 119).

Questo fenomeno potente di sostituzione viene accelerato durante le fasi di crisi e recessione. In esse, infatti, le aziende trovano la forza (o la disperazione) di compiere scelte socialmente dure e ristrutturano i loro cicli produttivi in cerca di maggiori guadagni di efficienza. Normalmente questo significa espellere i lavoratori che sono sostituibili in quanto inefficienti in senso relativo (cioè quelli che non producono abbastanza valore rispetto a quanto sono pagati), e sostituirli con sistemi più evoluti. Ciò significa con mix uomo-macchina più potenti. La conseguenza, che è sotto gli occhi di tutti, è che la disoccupazione cresce molto velocemente in queste fasi e poi viene riassorbita molto lentamente.
Ma ce ne è un’altra: al rientro le persone trovano indisponibili gli schemi di remunerazione precedenti, perché la loro funzione è stata occupata da nuovi input di capitale e modalità organizzative. Dunque la nuova occupazione creata sarà molto più polarizzata: molti posti a basso reddito e pochi a più alto.
Osservando queste dinamiche il Segretario all’Istruzione del Presidente Obama ha recentemente affermato che di fatto i ¾ dei giovani americani sono inadatti
a lavorare. Si tratta della “generazione limbo”.

Secondo Cowen entro questa dinamica generale le politiche dell’amministrazione democratica sono controproducenti, in quanto tendono ad aumentare il costo del lavoro (attraverso misure come la sanità pubblica, l’assicurazione obbligatoria o il reddito minimo sul quale infuria la polemica in questo momento) e dunque riducono la possibilità di assorbire lavoratori. Indirettamente spingono l’innovazione e l’informatizzazione, riducendo ulteriormente i posti offerti.
Questo effetto secondario è reale (ed oggetto di polemiche tra destra e sinistra da secoli), ma implica anche una decisione su quale tipo di società si vuole essere. Nel Discorso sull’Unione Obama lo ha detto chiaramente: “dovremo accettare un’economia in cui solo pochi di noi fanno spettacolarmente bene? Oppure potremo impegnarci a [creare] un’economia che genera l’aumento dei redditi e la possibilità per tutti di avere [i risultati] dei loro sforzi?”
L’agenda proposta vede l’incremento della spesa sociale e la riduzione delle tasse alle famiglie deboli, gli investimenti nella scuola e nelle infrastrutture, il salario minimo e la protezione dei lavoratori, che devono tornare ad essere orgoglio ed investimenti centrale delle aziende e non più utensili usa-e-getta. E prevede di farne pagare il conto all’1%, e non più solo alla classe media.
Come vedremo la visione di Tyler Cowen è diametralmente opposta, vede gli stessi rischi di Obama (e della Commissione sulla Prosperità Inclusiva di Summers), ma crede che bisognerà solo adattarsi ad un mondo diverso. Ci torniamo.
Quel che comunque si vede nella dinamica in corso è una “esplosione dei free lance”, imprenditori autonomi, consulenti, precari, lavoratori autonomi, artigiani, un settore che nel 2005 assorbiva più o meno 1/3 della forza lavoro americana. E che presumibilmente crescerà ancora, per lo più nella parte bassa della distribuzione.

In prospettiva questi fenomeni accelereranno, fino al limite in cui le macchine potrebbero di fatto fare tutto (p.131) e costringere i (pochi) salari rimasti a ridursi drasticamente. In sostanza saranno inutili e sovrabbondanti. Quando per un dato lavoro ancora utile ci sono cento candidati, l’esito è scontato, il limite è quello dei cosiddetti “salari malthusiani”, insufficienti persino per sopravvivere.
Secondo la visione di Cowen, questo è il punto cruciale, “i salari malthusiani non implicherebbero una vita di indigenza per tutti. Le macchine sarebbero ancora possedute da qualcuno e i proprietari di macchine sarebbero molto ricchi, dal momento che le macchine produrrebbero quantità di beni o servizi a costi molto bassi.
Se tutti avessero una partecipazione alle macchine, quella descritta potrebbe essere un’utopia invece che una distopia. Oppure il governo potrebbe possedere una quota delle macchine e utilizzare questa ricchezza per sostenere i poveri rimasti, che non hanno comprato le macchine in tempo e che ora non riescono a trovare lavoro a causa della concorrenza delle macchine. Finiranno sotto tutela dello stato, proprio come le tante persone che vivono della ricchezza del petrolio in alcuni dei paesi petroliferi meno popolati” (p. 132).
In questa scala lunga e con cambiamenti estesi il dilemma è posto. Il conservatore Cowen accusa, sostanzialmente i poveri di essere stati ignavi, “di non aver comprato le macchine in tempo” (come se l’avere risorse, o il non averle, non conti), e vede l’intervento redistributivo dello stato come una forma di paternalismo autoritario. Ovviamente può esserlo (gli effetti disciplinanti di uno schema di redistribuzione non vanno mai sottovalutati), ma la questione può anche essere posta in termini di responsabilità sociale e quindi come dovere da parte dei ricchi come afferma Obama (o Papa Francesco). E, naturalmente, non è necessario “possedere una parte delle macchine”, basta tassarne il rendimento. Ma come vedremo questo non è considerato realistico.

Nei prossimi anni si andrà in una di queste due direzioni, ma gradualmente. Per una fase non breve il modello vincente sarà il free-style (prima che si imponga quello del rentier a spese delle macchine).

Ancora nei prossimi anni, avremo una tendenza alla concentrazione dei benefici economici dell’automazione e dei guadagni di efficienza dell’innovazione. Per illustrarlo Tyler Cowen apre un’interessante parentesi (a pag. 169) sull’Unione Europea. Questa vedrà a suo parere un potente processo di polarizzazione e concentrazione verso le aree più forti (la Germania), e nel tempo la riduzione di alcuni territori a vivere di assistenza. Faranno questa fine “aree sempre più grandi del sud Europa”, a causa dello spostamento di risorse lavorative verso le imprese e le aree economiche di maggior valore che svuoterà di individui istruiti e ben retribuiti le regioni perdenti. Queste aree “saranno come il sud Italia e la Sicilia: prive di imprese caratterizzate da successo economico su larga scala. Conteranno sempre più su turisti, pensionati e trasferimenti statali” (p.170). Inoltre, il conseguente peggioramento della posizione fiscale, potrà “conseguentemente [far] perdere parte della loro autonomia politica”.
In poche righe l’intero dilemma del processo di unificazione europeo mostrato senza alcuna remora; la geografia economica condanna queste regioni ad essere o divenire “periferia”, nel momento in cui le leve monetarie e di politica economica sono neutralizzate. Si tratta, diciamo, di elementari nozioni di geografia economica da corsi universitari del secondo anno, note da decenni (nel 1978 Scalfari usò la metafora dell’elefante nella barca nel dibattito sullo SME), ma spesso dimenticate o ignorate. La normale “concentrazione geografica e istituzionale del talento commerciale”, condanna le aree di integrazione subalterna, come l’Italia del nord, a seguire il percorso a suo tempo compiuto dal Regno delle Due Sicilie.

Ma torniamo al cuore del testo, queste dinamiche polarizzanti, sia a livello sociale come territoriale e geografico, porteranno secondo Cowen a produrre una società con una classe media molto debole (a meno di efficaci politiche di contrasto sul piano dell’istruzione, della promozione di nuove forme di coordinamento ed imprenditoria, di motivazione) ed elevate concentrazioni di specializzazione in piccoli cluster.
Si passerà ad una società più dura, “nella quale bisognerà arrangiarsi” (p. 219), con pochi vincenti, dinamici ed adatti all’interazione uomo-macchina, (o dotati dei capitali per comprarsele, le macchine), e moltissimi marginali e perdenti. Una massa costituita dalla grande maggioranza, con “salari stagnanti o in discesa”, ma con la possibilità compensatrice di accedere a prodotti e servizi erogati dalle macchine. Dunque più a buon mercato, o gratuiti. Nella società “a costo marginale zero”, infatti, il singolo prodotto costa poco.

Tuttavia la riduzione dei redditi della gran parte della popolazione indurrà una violenta crisi fiscale (che già è in campo, a tutta evidenza) non compensabile con incrementi di tassazione all’1% (come vorrebbe Obama) perché i ricchi sono anche potenti, poi sono mobili, e non lo consentiranno. Tyler Cowen di questo è sicuro, l’1% non può pagare più tasse perché non lo vuole (p.222).

Dunque resteranno solo i tagli alle spese pubbliche, in particolare sociali, per far quadrare i conti. Per primi quelli alla sanità (vera ossessione della destra americana). Nell’elenco delle cose da fare, o da subire, di Cowen ci sono, dunque:
1- Alzare, ma poco le tasse ai ricchi;
2- Tagliare Medicaid ai poveri (si, ho scritto bene, p.224);
3- Sopportare il calo del gettito fiscale per stagnazione dei redditi da lavoro;
4- Sopportare il calo del gettito da rendite fondiarie (per il degrado territoriale di cui parliamo tra poco);
5- Spendere di meno in servizi sociali per far quad
rare i conti.

Tutte queste dinamiche autorafforzanti indurranno i membri della ex classe media, insieme ai vari livelli di poveri ed incapienti, a cercare di risparmiare sulla residenza e sui costi, dunque a concentrarsi in aree a basso costo, o a lasciar degradare quelle in cui vivono. L’auto-espulsione degli abbienti (secondo una dinamica ben nota ed abbondantemente in corso) porterà alla creazione di quella che Bernardo Secchi chiamava “la città dei ricchi e dei poveri” ed alla creazione di sempre più larghi “bacini dell’ira”. Ma baraccopoli e slums, o più modestamente periferie degradate, faranno parte necessaria di quello che l’autore chiama “il nuovo contratto sociale”: servizi a buon mercato in cambio di fedeltà ad un modello sociale e territoriale polarizzato che vede il soggetto come marginale. Una sorta di nuovo medioevo.
Certo, alcuni preferiranno spostarsi “fuori della rete” e molti rimodelleranno i propri gusti (la teoria della “decrescita felice”, in alcune versioni particolarmente individualistiche potrebbe essere segno di questo riadattamento); chiaramente “il mondo sembrerà molto più ingiusto e molto meno uguale per tutti e di fatto lo sarà” (p.239).

Ma resterà stabile, perché sarà un mondo più anziano e più tranquillo. Malgrado quello che ipotizzano quelli che lui chiama “i commentatori della sinistra” (ai quali, diciamo, mi ascrivo) l’invidia si applica sempre al vicino e questo tenderà a stabilizzare. L’esempio che fa l’autore è proprio quello che mi viene in mente, ma la cosa è vista positivamente: il medioevo. In cui enormi ineguaglianze erano tollerate come “naturali”. Un sistema stabile.

L’insieme delle trasformazioni che sono descritte in questo libro, alla fine, si possono descrivere in questo modo: le persone che ascenderanno saranno coloro che lavorano con le macchine superintelligenti che si stanno per affacciare (o perché servono ad esse o perché le possiedono). “Presto ci guarderemo alle spalle e vedremo che abbiamo creato due nazioni: una di straordinario successo, attiva nei settori tecnologicamente più dinamici; di là tutti gli altri. La media non conta più” (p.247).

Questa prospettiva per l’autore “spaventa. Ma è anche eccitante”.

Io sarei più per la prima.

http://tempofertile.blogspot.it/2015/07/tyler-cowen-la-media-non-conta-piu.html


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Prova delle alternative: ping e pong.


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