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La vista lunga dei reazionari


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Engels, in genere più grossolano dell’amico Marx, fu molto acuto in una lettera che ci è rimasta e che può ancora stimolare riflessioni. Scrisse che il romanziere francese Honoré de Balzac fu un critico radicale e severissimo della società borghese a lui contemporanea, non perché fosse un progressista ma, al contrario, perché era un reazionario, nostalgico dell’antico regime. Da quel suo osservatorio poteva denunciare tutta la degradazione morale dell’affarismo borghese, giudicato secondo la prospettiva dei valori tradizionali.

Potremmo applicare quel criterio di giudizio anche alla letteratura italiana. Addirittura è possibile abbozzare una regola generale, che come tutte le regole ammette del resto numerose eccezioni: i grandi scrittori sono grandi moralisti e i grandi moralisti sono fondamentalmente dei reazionari. Esemplificando, ci imbattiamo nel primo e più grande dei nostri: Dante. Nessuno può contestare che fosse un reazionario. Era un nostalgico dei buoni vecchi tempi andati, quando Firenze era una piccola città dai costumi semplici, governata da un’aristocrazia rispettata e in cui ognuno sapeva stare al proprio posto. La degenerazione fu provocata dalla “gente nuova” e dai “sùbiti guadagni”, cioè dai nuovi venuti dal contado e dall’avidità dei borghesi, i nuovi arricchiti che hanno contaminato i costumi. Su queste convinzioni Dante ha costruito l’immenso edificio della sua opera, in cui con forza evocativa senza paragoni ha denunciato le storture del suo tempo, nel tessuto sociale, nella Chiesa, nell’Europa imperiale e in quella dei nascenti Stati nazionali. Un grande moralista, un reazionario fustigatore dei costumi e proprio per questo il più profondo nell’affondare la lama della critica.

Leopardi, nonostante la grossolana forzatura di chi l’ha definito “progressista”, fu un reazionario, non nel modo bigotto di suo padre ma nel senso più radicale e più fondato del termine. Non fu solo il poeta del lamento e dell’infelicità, ma soprattutto un intellettuale estremamente lucido nello smascherare i miti progressisti della sua epoca e nell’evidenziarne le rovinose linee di tendenza. Costante fu la sua polemica contro chi parlava di progresso dei tempi moderni e dell’umanità moderna rispetto agli antichi. Esplicito il suo sarcasmo verso chi credeva nelle “magnifiche sorti e progressive”. Nemmeno la consolazione della fede aveva presa su di lui né pensava che una Costituzione liberale e un diverso assetto della società potessero rendere gli individui più felici. L’unico rimedio era la solidarietà contro la Natura matrigna, cioè contro l’inevitabile tragicità della condizione umana, una solidarietà da vivere nel virile rifiuto di ogni facile mito consolatorio e nel sostegno reciproco. Una concezione da moralista laico, fondamentalmente reazionario, che gli ha consentito di vedere più lontano del tanto celebrato liberal-catto-democratico Manzoni.

Verga, siciliano disilluso, approdato a una concezione prettamente reazionaria, quell’esaltazione dell’ “ideale dell’ostrica”, il ripiegamento in difesa dei valori eterni della famiglia, del duro e onesto lavoro, l’ostrica aggrappata allo scoglio in attesa che passi la burrasca, seppe cogliere tutto il vano sproloquio, la falsità della retorica risorgimentale. Nelle sue pagine, non in quelle dei liberali progressisti, si può vedere rispecchiata la vera realtà sociale dell’Italia di fine Ottocento.

Anche negli scrittori italiani più recenti possiamo ritrovare la profondità quasi profetica dello sguardo critico proprio in chi parte da un rifiuto della società contemporanea in nome di un passato di cui si riconoscono tutti i limiti e tutta la durezza del vivere ma in cui si ritrovano valori veri. P.P.Pasolini, pur nel suo proclamato marxismo, fu fondamentalmente un moralista reazionario. Solo ammettendo questa realtà possiamo capire la sua opposizione al divorzio e all’aborto, possiamo capire la sua clamorosa presa di posizione per i poliziotti figli di proletari che si scontravano coi giovani figli di papà nelle mischie del famoso ’68. Proprio da quel suo fondo di moralismo reazionario Pasolini ha potuto gridare la sua protesta contro un mondo del quale vedeva lucidamente le tendenze distruttive. La sua denuncia dell’ omologazione e della mutazione antropologica ne fanno un riferimento attualissimo per chi volesse cercare di capire per quali processi siamo giunti al disastro di civiltà che ci affligge. Guido Ceronetti, dall’alto del suo coltissimo moralismo e della sua spiritualità senza dogmi e senza chiese, restìo a qualunque compiacimento e a qualunque concessione al progressismo, è fra i viventi uno dei più profondi fustigatori dei nostri costumi e di quella barbarie che chiamiamo civiltà occidentale.

Luciano Fuschini
Fonte: http://www.giornaledelribelle.com/
6.09.2'12


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