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Lettera aperta a Giulietto Chiesa


Tao
 Tao
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Lettera aperta a Giulietto Chiesa e a tutti coloro che leggono Megachip

Prima di tutto, che senso ha scrivere una lettera aperta?
Scrivere risponde sempre a una necessità. In questo caso, si tratta della mia necessità personale di agire in modo costruttivo, condividendoli, l’angoscia, l’indignazione, l’incredulità e il senso di impotenza che mi accompagnano da tempo. Se fosse solo un problema mio personale eviterei di cercare visibilità pubblica. Ma siccome credo si tratti di sentimenti collettivi, da ricondurre alle «quattro crisi maggiori del sistema» di cui parla Paul Ariès, forse non sarà inutile discuterne insieme. Premetto che il mio è il punto di vista di una studentessa neolaureata di primo livello – come si usa dire in questo linguaggio spersonalizzante – che si guarda intorno e si pone domande come giovane donna della cosiddetta “generazione senza futuro”,
con una modesta esperienza non di partito ma di “movimento”.

L’intento di questo scritto è quindi quello di mettere in fila dei pensieri, dei dubbi, delle idee, con la speranza che diventino il punto di partenza per un largo dibattito sulle pagine di Megachip e, nella migliore delle ipotesi, per la costruzione di un percorso politico condiviso. Dal virtuale al reale, insomma.
Alle quattro crisi sistemiche di Ariès - ambientale (deregolamentazione del clima), sociale (aumento delle diseguaglianze), politica (disaffezione e deriva della democrazia) ed esistenziale (perdita di senso) – ne aggiungerei un’altra: quella culturale.

L’origine del senso di smarrimento: la mancanza di un orizzonte politico adeguato ai nostri bisogni e desideri

Mi sembra che, da almeno vent’anni, abbiamo perso un modello essenziale per dare un orizzonte politico e una strategia organizzativa ai bisogni sociali, all’utopia di una società diversa da quella dominata dal capitale: sto parlando, ovviamente, del comunismo. Oggi di rivoluzione parlano le banche, non ricordo di aver sentito pronunciare questa parola a nessun esponente politico di recente. La BNL Paribas, invece, offre un conto corrente dall’allettante nome “BNL Revolution: per un mondo che cambia. Fino a 100 mila euro e 120 mesi con una rata a misura per te”.
Rivoluzionario è il marketing, che è riuscito a stravolgere i più elementari principi di economia domestica, facendo credere che spendere soldi sia in realtà un guadagnare soldi. Come recita, ad esempio, la pubblicità della Smart Genius: «Vuoi 19 mila euro? Compra Smart Genius!».

Credo che gran parte dello stato di smarrimento e di impotenza che molti di noi sentono oggi derivi proprio da questo stravolgimento di senso, da questa perdita di razionalità, che avvengono in un vuoto politico devastante, e dal fatto che la “sinistra” non abbia saputo aggiornare i propri contenuti politici, perdendo in gran parte di significato. Oggi la “destra” e la “sinistra” governative non hanno differenze sostanziali, né nel linguaggio né negli obiettivi politici, poiché avallano lo stesso modello di sviluppo.

E, peggio, la “sinistra” lo fa perché crede ancora possibile coniugare lo sviluppo economico - cioè la crescita, la gallina dalle uova d’oro che mette tutti d’accordo - al benessere sociale. Questo modello ha funzionato nei primi vent’anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie alla congiunzione di un motivo ideologico e di un motivo sistemico. Il primo era la necessità, per le democrazie occidentali, di porsi come modello alternativo e vincente rispetto a quello sovietico. Il welfare state è stato il protagonista di quello che Ralf Dahrendorf chiamava il «secolo socialdemocratico», di quel tentativo, cioè, di armonizzare capitalismo e democrazia, libertà e sicurezza, profitto e benessere sociale. Ciò è stato possibile in una fase storica “di abbondanza”, che garantiva grandi opportunità di investimento e remunerazione del capitale.

Ma è proprio qui che si innesta il motivo sistemico che caratterizza tanto le fasi d’oro del capitalismo, quanto quelle di crisi, come quella che stiamo vivendo oggi. Il capitalismo è un modo di produzione narcisista, che ha al centro esclusivamente il capitale e la sua auto-valorizzazione, sprezzante tanto dell’uomo quanto della natura. Proprio per queste caratteristiche intrinseche il capitalismo non può a lungo indossare la maschera del paternalismo con il suo popolo schiavo, e deve passare presto a sonore manganellate: la caduta tendenziale del saggio di profitto porta il capitalista nel circolo vizioso dell’accumulazione di plusvalore tramite l’allargamento della scala di produzione. È per questa via che si arriva agli accordi capestro alla Marchionne: i lavoratori sono un onere troppo alto per il capitalista e se vogliono avere un impiego devono lavorare e consumare di più, guadagnando meno. Si tratta di un gesto di responsabilità nazionale, altrimenti il sistema andrà a rotoli: è il paradosso a cui siamo arrivati, una bugia criminale narrata tanto dalla “sinistra” quanto dalla “destra”.
Pare che la “sinistra” non si sia accorta di questo cambiamento epocale davanti al quale siamo di fronte e della necessità si una vera e propria rivoluzione culturale, prima che politica. E credo che sia proprio questa incapacità di analisi a bloccare “la sinistra” in una secca ideologica e politica mostruose. È da qui, mi pare, che nasce l’incapacità di rispondere – figuriamoci di rappresentarlo! - al disagio sociale diffuso, di costruire una narrazione di sinistra, in grado di dare lo spessore d’analisi e le risposte adeguati a problemi quali la precarietà, l’immigrazione, l’ambiente, la gestione del denaro pubblico.

E forse un altro limite della “sinistra” sta nel voler riprodurre forme del fare politica legate a dinamiche novecentesche vincenti, che oggi evidentemente non funzionano più. Si pensi ai partiti di massa guidati dai leader carismatici, ridotti a calcarei apparati di ceto politico senza base sociale attiva. Oggi la democrazia diretta non sta più nelle sedi dei partiti. Si badi bene, non lo considero un elemento necessariamente positivo, ma un dato di fatto legato al declino degli stati nazionali con cui dover fare i conti: è arrivato il momento di risignificare il concetto di sovranità.

Cosa sta cambiando? Dall’età dei partiti all’età della rete e i limiti della lotta di classe

Mi sembra, però, che un’”alternativa” alla politica mainstream si stia costruendo e che questo sia l’unico dato positivo nel panorama politico attuale. Si sta costruendo lentamente e dal basso, contrariamente al modello politico novecentesco, sta nascendo dai comitati che si costituiscono spontaneamente in difesa dei beni comuni e della conservazione del territorio nazionale, dalle lotte studentesche e, certo, anche dal no degli operai di Mirafiori e di Termini Imerese.

Quello che voglio dire, insomma, è che sì, è ancora valida la lotta di classe nelle fabbriche e il ruolo che dovrebbe avere il sindacato in questo contesto è innegabile (anche se la mondializzazione del sistema di produzione capitalistico, nella sua forma transnazionale assunta nel corso del Novecento, dovrebbe imporre ai sindacati una prospettiva extranazionale, che unisse almeno i lavoratori europei). Tuttavia credo che sarebbe fallimentare un discorso politico che si limitasse a parlare secondo queste categorie. Come il capitale ha preso molte forme, così la lotta contro di esso deve essere combattuta oggi anche in luoghi diversi dalla fabbrica, da soggetti sociali e punti di vista variegati.

Credo che a questo cambiamento in atto abbia in gran parte concorso la diffusione di internet come mezzo di informazione e mobilitazione su scala planetaria. Perché se è vero che oggi una buona parte del potere politico si basa sull’accesso all’informazione, è anche vero che grazie ad internet tutti potenzialmente possono saper
e, quindi tutti potenzialmente possono avere potere. In questo modo i luoghi deputati a “fare politica” si sono decentralizzati e connessi in una rete globale. Internet è forse oggi la forma di democrazia che manca allo Stato, a patto che non diventi un altro strumento di delega e di leaderismo.

Credo che sia già partito un processo di cambiamento molecolare. Si tratta di potenziarlo con un’opera di cucitura del tessuto sociale: si tratta di un lavoro enorme e molto complesso da fare. Il rischio di molti (micro)movimenti è che non riescano a fare questo lavoro, restando delle fiamme di indignazione sociale che dopo una vita intensa, a tratti spettacolare, di qualche mese, si spengono, lasciando tracce indelebili solo nel ricordo di chi vi ha partecipato. Credo che il motivo sia da cercare nel fatto che molte volte le dinamiche sociali “dal basso” ricadono nelle stesse dinamiche politiche “del sistema” che si vuole cambiare: gerarchie, narcisismo, autocelebrazione e spettacolarizzazione del movimento, mancanza di un’accurata analisi teorico-politica e preferenza per il “fare” – che spesso diventa un farsi vedere. Questi aspetti rendono le onde rivoluzionarie dei giganti dai piedi d’argilla, delle rivolte potenti, ma non delle rivoluzioni.

La decrescita è il pensiero rivoluzionario di cui abbiamo bisogno?

Credo ci sia bisogno di molta discussione teorica e di elaborazione politica a partire dall’analisi della fase che stiamo vivendo. Ultimamente mi sono avvicinata al pensiero della decrescita. Non posso dire di saperne abbastanza e di avere le idee chiare, anche perché si tratta di un pensiero in fieri. Tuttavia mi sembra una direzione giusta da provare a elaborare. Non solo perché prende le mosse da una constatazione ormai sotto gli occhi di tutti: la limitatezza delle risorse del pianeta e l’impossibilità di mantenere livelli di crescita come quelli attuali. Ma anche perché mi sembra un pensiero rivoluzionario con degli elementi buoni non solo a potenziare quello che dal basso già ha iniziato a muoversi, ma anche a scardinare le logiche centenarie che presiedono al sistema occidentale.

Nel “movimento” trovo molta ostilità pregiudiziale verso questo pensiero. Si tratta di un altro meccanismo pericoloso, in grado di creare lacerazioni e rotture, che potremmo chiamare “compagnometro”: il valutare idee e persone in base a “quanto sono compagne”. È una logica da stato d’assedio, comprensibile alla luce della storia d’Italia, ma forse oggi un po’ anacronistica, specie se ad usarla sono le generazioni che non hanno vissuto sotto la dittatura fascista, e controproducente rispetto alla volontà di allargare la partecipazione politica e di creare una grande massa critica. Questa ostilità nasce dal fatto che, fino ad oggi, il pensiero rivoluzionario più intrinsecamente coerente e strutturato, per certi aspetti con una capacità analitica e predittiva geniali e in grado di indicare una strategia politica anticapitalistica, è stato il marxismo. Ed è quindi facile tacciare tutto ciò che non è apertamente marxista come anti-rivoluzionairo.

Spesso, però, mi sembra di trovare nei discorsi denigratori della decrescita un’incomprensione di fondo degli obiettivi di essa. Come se si desse per scontato, appunto, che un discorso non strettamente di classe non possa essere rivoluzionario. Ho già detto sopra che secondo me oggi come oggi un discorso di tal fatta sarebbe anzi minoritario e perdente.

In più, mi sembra che la decrescita abbia proprio come obiettivo finale quello di costruire una società radicalmente opposta a quella occidentale capitalista che ben conosciamo. Il pensiero decrescente è prima di tutto una rivoluzione culturale: criticare il concetto di sviluppo come concetto di crescita economica, opporsi alla fede tecno-scientifica, significa sgretolare le fondamenta del pensiero occidentale.

Pensiamo a uno dei punti di avvio di questo pensiero: la critica dell’antropocentrismo, dello sfruttamento della natura come uno strumento qualsiasi per aumentare il profitto. Non si tratta solo di sensibilità ambientale. Oggi sull’ambiente si giocano partite economiche e politiche di importanza planetaria. Gli equilibri finanziari mondiali, dopo il crack immobiliare, si stanno assestando nel campo delle derrate alimentari e delle materie prime cinesi e indiane.

Per questo i prezzi di tali beni stanno aumentando e l’eventualità che i Paesi emergenti non riescano a sostenere il loro ritmo di sviluppo attuale – se non a costi di lacerazioni e guerre sociali interne di difficile gestione, che in Cina si stanno già manifestando – si fa concreta. Questo è un esempio di come un discorso che vada a intaccare il modello della crescita senza fine, così come le lotte popolari per la difesa del territorio dalla cementificazione forsennata e per i beni comuni, siano essenzialmente di tipo anticapitalista: ostacolano l’accumulazione allargata del plusvalore, che nelle sue forme più estreme e anomale si traduce nella sussunzione della natura e nell’economia virtuale, cioè nella finanziarizzazione dell’economia.

Ancora. La vittoria dei referendum contro il nucleare e contro la privatizzazione dell’acqua pubblica sta creando seri problemi tanto alle società private per la gestione degli acquedotti, quanto alle grandi lobbies dell’energia a combustione, che vedono sfumare accordi di milioni di euro. Certo, adesso il lavoro da fare è uno stretto monitoraggio affinché l’esito referendario non venga ignorato e la transizione dal nucleare al rinnovabile non venga gestita dagli oligopoli di sempre, ma è evidente che la massa critica ha ancora un qualche potere di influenzare le dinamiche economiche e, speriamo a breve, anche politiche del nostro Paese.
Mi sembra, se non vado completamente errata, che questi due esempi rispecchino l’idea di fondo della decrescita: fare dei comportamenti e delle “piccole” scelte individuali dei volani del cambiamento sociale, economico e politico globali. Restituire all’individuo, in una società dove l’individualismo predomina, il ruolo di soggetto politico, di attore di cambiamento. Per dirla in slogan: si scrive conversione ma si legge rivoluzione. Si tratta prima di tutto di un’azione di educazione, un lavoro di termiti dentro il tessuto sociale, per spostarlo nella direzione del cambiamento radicale: si tratta di originare una marea a partire da piccoli mulinelli che girano in direzione opposta a quella del mare…

Il problema più grande che vedo, però, sta proprio nel riuscire a dare spessore politico alle buone pratiche individuali. Per dirla fuori dai denti: non credo che la decrescita sia soltanto farsi il sapone in casa, o il pane, o la marmellata (anche perché come fare a iniziare questo circuito virtuoso di autoproduzione finché non cambia l’organizzazione del lavoro in modo da dare a ognuno maggior tempo libero?) , andare a fare la spesa con le buste di tessuto per non sprecare la plastica, chiudere il rubinetto quando ci spazzoliamo i denti… Questo fa parte della responsabilità sociale e ambientale di ciascuno di noi – e già non è un discorso da poco. Ma la decrescita ha l’ambizione di collegare questi comportamenti a un discorso politico molto più ampio.

Ecco, quello che mi sembra ancora non ben sviluppato nel pensiero decrescente, è il come far sì che i comportamenti individuali diventino prassi politica. In altre parole, come fare a cambiare forme, modi di funzionare e obiettivi delle istituzioni in modo che esse diventino alleate in quel percorso di cambiamento, di cui la volontà popolare emersa nei referendum ha già indicato alcune tappe. Perché mi pare innegabile che per attuare una transizione, come quella auspicata dalla decrescita, da un mondo socialmente e ambientalmente irresponsabile a un mondo socialmente e ambientalmente responsabile, ci vogliano radicali azioni coordinate quantomeno a livello nazionale, le uniche in grado di dare l’
efficacia della pianificazione, dell’educazione e della diffusione al cambiamento. Certo non è un obiettivo semplice: essere contro la crescita significa essere contro la logica stessa del modo di produzione capitalistico, di cui le istituzioni, oggi come oggi, sono l’espressione politica e i tutori sociali.

Faccio un esempio. Uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori della crescita (del PIL) è che senza tale crescita non potranno essere garantiti gli stessi servizi che ora, grazie alla crescita, vengono garantiti senza bisogno di aumentare le aliquote fiscali. Facendo per un momento finta di ignorare i tagli capestro fatti negli ultimi tempi indiscriminatamente su tutti i servizi di necessità pubblica, si può facilmente dimostrare che legare la crescita al benessere dell’erario statale è del tutto mistificatorio della realtà.
Un arresto della crescita del PIL, unita a una revisione delle voci di spesa statali – apportando tagli massicci, ad esempio, alle spese militari e a quelle per le grandi opere finalizzate allo sviluppo economico – non porterebbe necessariamente a dover tagliare i servizi, anzi, probabilmente consentirebbe di ridurre il debito pubblico . Inoltre, una società rispondente al motto “lavorare meno, lavorare tutti”, associata ad una ristrutturazione del sistema produttivo a favore di beni e servizi socialmente necessari, anziché beni commerciabili, merci, creerebbe più lavoro lasciando maggior tempo libero al singolo lavoratore, aumentando al contempo domanda e offerta di beni relazionali e riducendo il bisogno di spesa pubblica.

Con più tempo libero dal lavoro, ad esempio, si ridurrebbe il bisogno di certi servizi, come ad esempio di assistenza agli anziani. In una società ambientalmente sostenibile, poi, si ridurrebbero le spese per il ripristino dei danni ambientali causati dalla produzione deregolamentata. Parallelamente, una produzione rilocalizzata e finalizzata alla conservazione dell’esistente permetterebbe di risparmiare sui trasporti, sulle grandi opere e di favorire il lavoro indipendente. Ma sommando tutte queste cose non si sta sferrando un duro colpo ai grandi profitti e alle grandi rendite e delineando l’immagine di una società del tutto diversa da quella in cui viviamo? Non si tratta di una transizione rivoluzionaria?

Credo che sarebbe ora di prendere in considerazione con maggiore apertura mentale il pensiero decrescente. Forse ci si accorgerebbe che non si tratta di una favola per addormentarsi tranquilli la sera, ma di un pensiero in grado di destrutturare la nostra società, di scardinarne i rapporti produttivi, sociali e quindi politici. Si tratta di aprire un grosso dibattito su come fare a dare concretezza politica a questo percorso.

Stella.

Cara Stella,
grazie per la lunga riflessione che hai proposto a me e ai lettori di Megachip.
Capisco che è parte di un lungo processo di maturazione personale e vedo, con grande piacere, che tu sei giunta da sola agli approdi cui molti di noi - parlo di Alternativa - siamo giunti in età più avanzata della tua. Cioè sei in anticipo, almeno rispetto a me. Alla tua età io ero ben lontano dal pormi gli stessi problemi e sarei stato in difficoltà ad esprimermi con tanta precisione di linguaggio.

Segno anche questo che i tempi corrono.
Troppo velocemente, aggiungo. La tua generazione temo sarà costretta a correre disperatamente non solo per mantenere il livello di vita che ha trovato nascendo, ma addirittura per sopravvivere.
Siamo d'accordo, in sostanza, su quasi tutto. Sulla decrescita, io penso, non vi sono dubbi. Decresceremo anche se non volessimo. E sarà una decrescita tanto più infelice quanto più grande sarà il ritardo con cui la dovremo fronteggiare. Cioè più che un programma la considero un obbligo.
Meno convinto sono delle tue certezze su internet come luogo del sapere. Per la stragrande maggioranza dei suoi frequentatori internet è il luogo dell'istupidimento e sono sempre più convinto, dati i risultati intellettuali e morali del mondo che ci circonda - che è già il mondo di internet - che lo sarà sempre di più in futuro. Noi tutti (noi intellettuali, e tu sei un'intellettuale, che lo voglia o no) tendiamo a proiettare noi stessi sugli altri, sulla massa, quasi che la massa possa essere come noi. In questo modo finiamo per ingannarci e per commettere gravi errori di valutazione. Le masse sono diverse da noi. In primo luogo perché sono già state manipolate in profondità e non hanno gli strumenti per emanciparsene. Non basta sedersi di fronte a un computer per sapere cosa significa studiare, dove si deve andare per imparare, con quale metodo imparare. Il fatto che tu abbia imparato non dice nulla statisticamente. E mentre tu hai imparato a milioni sono diventati analfabeti di ritorno.
E' un discorso che non posso affrontare qui. Suggerisco, come faccio spesso, la lettura di due libri che sono stati per me illuminanti: Neil Postman , "Divertirsi da morire" e Giovanni Sartori , "Homo videns".
Sono certo che uscirai da quelle pagine trasformata.

Per intanto credo tu già sappia che Alternativa, il laboratorio politico che ho fondato un anno e mezzo fa, si muove su coordinate di decrescita, di cambio degli stili di vita, di giustizia sociale e di democrazia nella comunicazione che forniscono nuovi paradigmi per la lettura di questa Matrix in cui noi viviamo e per la sua demolizione controllata.
Se avrai tempo e voglia, vieni con noi per proseguire il discorso che hai cominciato con te stessa e che noi stiamo già percorrendo.
Cordiali saluti

Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/finestre/lettere/6924-lettera-aperta-a-giulietto-chiesa-e-a-tutti-coloro-che-leggono-megachip.html
12.10.2011


Citazione
materialeresistente
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trovo il discorso abbastanza confuso, quantomeno nella elaborazione di una proposta che non stia nel libro dei sogni.
Intanto la sottovalutazione di quelle che sono state le "pratiche" novecentesche. Magari la signorina non lo sa ma negli anni 70 la riappropriazione di spazi comuni con l'occupazione di case, la lotta contro gli straordinari facendo "ronde" nelle 1.000 fabbrichette presenti sul territorio, i mercatini rossi per distribuire a prezzi fuori dal gioco della grande distribuzione il cibo, le autoriduzioni sui costi dei servizi. le biblioteche e le mense popolari etc.etc. erano elementi di costruzione di un tessuto sociale che doveva essere altro rispetto a quello che l'organizzazione del capitale aveva prodotto.
Come pensa di far crescere una proposta se non creando le premesse affinché questa abbia un qualche successo? Con internet e portando in piazza movimenti che ogni tre per due si squagliano come neve al sole?
Sarà mica un caso che un certo tipo di approccio è bello dal punto di vista emotivo ma assolutamente inefficace da quello pratico?
La lettura poi dei primi 20 anni diopo la 2a guerra mondiale è di uno schematismo che fa orrore. Come se quelle cose fossero arrivate per virtù divina e non grazie a lotte dure e fatte dal sangue di una massa enorme di persone.
E poi, la decrescita dove? In un solo paese? in un quartiere? in quale spazio se 3/4 dell'umanità si muove ancora nell'ottica di soddisfare gran parte dei bisogni primari?


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