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Per combattere la fame servono scelte politiche


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Il mondo sarà pure sempre più globalizzato, ma fatica a darsi delle regole globali nei settori dove invece sarebbero indispensabili. Ne abbiamo avuto, nei giorni scorsi, una duplice conferma con il sostanziale fallimento del vertice Fao di Roma e con quello, annunciato, della prossima Conferenza di Copenaghen sul clima. A proposito di quest’ultimo appuntamento, i presidenti di Stati Uniti e Cina hanno prima fatto sapere che sarà praticamente impossibile sancire un trattato vincolante, ma poi si sono corretti dicendo che entrambi mirano a un’intesa dagli “effetti operativi immediati”, senza fornire ulteriori dettagli.

Secondo gli esperti, sarà comunque difficile che, nella capitale danese si riesca a stabilire delle nuove regole sulle emissioni di gas inquinanti perché la distanza tra le parti è ancora grande. L’accordo, probabilmente, verrà rimandato alla Conferenza di Bonn, a metà del 2010, o a quella, ancora più lontana, che si terrà a Città del Messico. A causa dei tempi di ratifica degli Stati, c’è il rischio di un vuoto normativo sulle emissioni globali poiché il Protocollo di Kyoto scade nel 2012. Intanto, la maggioranza degli scienziati continua ad avvertire che il riscaldamento della terra procede a un ritmo superiore alle previsioni. Le due questioni, quella della fame e quella del clima, sono connesse. Si calcola che il riscaldamento climatico ridurrà tra il 15% e il 30% i rendimenti dei terreni agricoli nell’africa subsahariana.

La miseria di alcune vaste porzioni del pianeta, già di dimensioni tragiche, è destinata ad aumentare, se si confermeranno le tendenze attuali, a causa della crescita demografica che dovrebbe portare la popolazione della Terra a raggiungere, nel 2050, la cifra di 9 miliardi e 300 milioni di persone. La fame non è però una catastrofe naturale. La sua abnorme diffusione è causata anche dalle norme internazionali che regolano l’odierno modello di sviluppo. Il presidente della Fao, Jacques Diouf, ha dichiarato che servirebbero 44 miliardi di dollari per cancellarla dalla faccia della Terra: una cifra largamente inferiore ai 356 miliardi di dollari investiti, nel 2007, per il sostegno all’agricoltura nei Paesi Ocse e ai 1.340 miliardi impiegati, nello stesso anno, per le spese militari nel mondo. Il vertice di Roma si è però chiuso senza decidere alcuno stanziamento, con una dichiarazione finale che parla di una generica volontà di sradicare il flagello della fame il “prima possibile”.

Gli aiuti ai Paesi poveri sono necessari, ma sarebbe finalmente il momento di ridiscuterne la natura e l’uso, avviando una riflessione sugli errori del passato. La giovane economista dello Zambia Dambisa Moyo ha suscitato vivaci polemiche con un libro nel quale sostiene che un trilione di dollari di aiuti, in trent’anni, è servito solo a foraggiare le corrotte dirigenze dei paesi africani. Inoltre, questo approccio ha creato una mentalità di dipendenza che certo non favorisce uno sviluppo autonomo. Secondo Dambisa Moyo, bisognerebbe destinare i finanziamenti direttamente alla popolazione, permettendo agli africani di avviare iniziative economiche che creino occupazione.

Qualsiasi somma verrà impiegata non sarà, comunque, sufficiente se non verranno corrette le storture che condizionano il commercio internazionale dei prodotti agricoli. Come dicevamo, alla base della crescita della fame nel mondo ci sono le regole stabilite dalle organizzazioni internazionali che governano l’economia mondiale. In un artico su “Le Monde diplomatique”, l’economista Jacques Berthelot ha ricostruito le tappe essenziali del percorso normativo che ha causato la rovina dell’agricoltura nel Terzo Mondo. Dopo che negli anni Ottanta il Fondo monetario internazionale aveva imposto ai Paesi in via di sviluppo la liberalizzazione degli scambi, sfruttando l’arma dei debiti da essi contratti, si giunse, nel 1994, all’Accordo sull’agricoltura (Asa) nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio. I Paesi poveri si sono così trovati ad affrontare la concorrenza della produzione agricola di Usa ed Europa, in una competizione enormemente squilibrata già in partenza.

Il fatto paradossale è che statunitensi ed europei, grazie alla complicità del Wto, continuano a proteggere le proprie produzioni agricole, barando sulla quantità di sostegni che vi destinano. I Paesi “ricchi”, inoltre, si difendono dall’importazione agricola, applicando diritti di dogana molto più alti di quelli del Terzo Mondo. Per esempio, il diritto medio sui cereali della Ue si attesta al 50%, mentre quello dell’Unione economica e monetaria dell’Africa dell’Ovest è fermo al 5%. Nel suo articolo, Berthelot cita il caso del Kenya che, contrariamente alla tendenza generale, ha aumentato il diritto doganale sul latte in polvere dal 25% al 60%, diventando un esportatore di prodotti lattieri e incrementando considerevolmente il consumo interno.

Simili esempi smascherano la retorica dell’aiuto internazionale al Terzo Mondo, che procede di pari passo con l’imposizione della liberalizzazione dei prezzi e dell’apertura dei mercati nelle stesse nazioni. E’ chiaro che gli Stati con gravi carenze strutturali non dovrebbero, in alcuni settori essenziali, aprirsi alla concorrenza internazionale. La sola via allo sradicamento della fame nel mondo è quella della “sovranità alimentare” dei Paesi poveri. La rappresentazione liberale di una globalizzazione economica che, alla fine, porterebbe benefici a tutti, grazie all’aumento del commercio internazionale, non solo è falsa, ma è anche lo strumento ideologico dello sfruttamento dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo.

Servirebbe, dunque, un altro modello di sviluppo che solo la decisione politica può imporre agli appetiti del “libero” mercato. La politica, oggi, è però considerata solo un intralcio all’economia, un ambito della società il cui peso residuale può essere tollerato a patto che non ostacoli la crescita del mercato. In un saggio fondamentale, apparso sulla rivista “Trasgressioni”, Alain de Benoist ha spiegato che questo esito ulteriore del liberalismo si chiama “governance”. Questa parola, di uso relativamente recente, che adesso è sulla bocca di tutti i politici di qualsiasi schieramento e dei grandi imprenditori, come un mantra per la risoluzione di ogni problema, prescrive che le questioni pubbliche debbano essere affrontate con i criteri della gestione aziendale.

Flessibilità, integrazione, efficacia sono le parole chiave della governance, per la quale non esistono scelte di valore (politico), ma solo modi più efficienti per raggiungere i risultati (economici) che vengono identificati, sempre e comunque, con il bene comune. I teorici liberali non si accontentano più della mano invisibile del mercato, ma pretendono che lo Stato regoli, in ogni ambito, la società sulle richieste del mercato. Il trionfo di questa ideologia si paga anche, ogni sei secondi, con la morte per fame di un bambino.

Roberto Zavaglia
Fonte: http://www.lineaquotidiano.net/
20.11.2009


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