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Quale politica nella postmodernità?


MatteoV
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La nuova epoca detta postmodernità (o seconda modernità o surmodernità o modernità liquida, o comunque si voglia chiamarla) si caratterizza per una privatizzazione delle diverse istanze. “Privatizzazione” non deve intendersi soltanto in senso tecnico-economico, ma fa riferimento alla più generale tendenza della società a delegare all'ambito privato quelli che un tempo erano prerogative del pubblico. Questa tendenza potrebbe essere riassunta nella ricerca, secondo l'efficace espressione di Ulrich Beck, di “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”.
L'individuo non dispone degli strumenti per risolvere i problemi che lo attanagliano, ma su di lui viene comunque scaricato tutto il peso di essi. Mentre in passato, nella “modernità solida” come la definisce Bauman, era possibile una politicizzazione dei problemi, uno spazio pubblico nel quale trasporre su un piano di interesse collettivo le questioni che si ponevano di fronte agli individui, col passaggio alla “modernità liquida” questa possibilità viene a mancare, e anzi, sono le questioni pubbliche a essere delegate alla sfera privata.
L'assenza di “metanarrazioni” annunciata da Lyotard e il “pensiero debole” preconizzato da Vattimo e Rovatti, intendevano evidenziare le condizioni per una disarticolazione della differenza dalla metafisica e dalla “totalità”. Bisogna constatare che l'“indebolimento” invocato dai postmodernisti si è per molti versi realizzato. Oggi assistiamo alla scomparsa di un telos, un fine universale perseguibile collettivamente, sostituito da tanti piccoli scopi individuali a breve e brevissimo termine. Viene a cadere l'idea di un sapere unitario e con essa non soltanto una sistematizzazione ideologica funzionale al potere ma anche ogni discorso emancipativo. Questo processo non è stato, però, “liberatorio”, non ha prodotto la soppressione della violenza del sistema ai danni del “dimenticato” della storia, ma ne ha soltanto mutato la forma.
Gli incubi della vecchia modernità erano costituito dalla prospettiva di un potere autocratico, totalitario, tentacolare, dotato grazie alla tecnica di una capacità illimitata di controllo e che intrappolasse l'individuo in una morsa di ferro. Queste paure moderne sono state immortalate nei romanzi di Orwell e di Huxley che costituiscono il prototipo del massimo potere del tempo. L'immagine che forse meglio riassume questo stato di cose è quella del Panottico, il carcere ideato da Bentham e preso a modello da Foucault come metafora del potere.
Oggi il potere è tutto meno che panottico. Non è il Socing di Orwell e non è il fordismo di Huxley...[CONTINUA]


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