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Rai Wayne quotata in borsa


Rosanna
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Rai Wayne
Nello stesso giorno in cui Rai Way (la società che controlla gli impianti, l’hardware, per dir così) veniva quotata in borsa, il cda dell’azienda decideva di ricorrere (al TAR, al giudice ordinario o a entrambi) contro l’irrituale per non dire anticostituzionale taglio dei famosi 150 milioni imposto dal governo Renzi in zona IRPEF. Contro il suo azionista, insomma.

di Luca Giannelli - 21 novembre 2014

Che la sonnolenta “legislatura” Rai iniziata sotto il governo Monti -fattasi conoscere più di ogni altra per una pratica del profilo basso non si sa quanto volontaria e quanto no- emergesse sulla cresta delle cronache con toni da sparatoria degni di un western con John Wayne doveva essere scritto da qualche parte nel librone dei contrappassi. Nello stesso giorno in cui Rai Way (la società che controlla gli impianti, l’hardware, per dir così) veniva quotata in borsa, il cda dell’azienda decideva di ricorrere (al TAR, al giudice ordinario o a entrambi) contro l’irrituale per non dire anticostituzionale taglio dei famosi 150 milioni imposto dal governo Renzi in zona IRPEF. Contro il suo azionista, insomma.

E un consiglio di amministrazione (prossimo alla scadenza, tra 3 mesi) riuscito finora a navigare sottotraccia e che perfino quelle rare volte in cui aveva provato a fare qualcosa -come nel caso del progetto di accorpamento delle news- ha dovuto innestare subito la marcia indietro di fronte al cuore oscuro dell’azienda di Stato, si ritrova così ora in piena burrasca, in una situazione infarcita di disagi, contosensi e corporativismi, capace di illuminare ancora una volta perfettamente la contraddizione regina di viale Mazzini, la natura di un’azienda anfibia, che innome del pluralismo naviga tra pubblico e privato, contraddizione usata tante volte strumentalmente (l’ultima, nel caso Minzolini, licenziato dal cda precedente con procedura poi smentita dal tribunale di Roma, e costi a carico dei soliti cittadini…), dove è diventato standard negli ultimi tempi sentire invocare, da parte di dirigenti e giornalisti entrati solitamente per “affidabilità” politica, l’affrancamento della Rai dall’ingerenza dei partiti…

Chiedendo nel giugno scorso il taglio di 150 milioni come contributo “volontario ma necessario”, il presidente del consiglio Renzi aveva dato corso, come spesso gli capita di fare, a quel sentire diffuso che ha avuto ennesima conferma proprio nei giorni scorsi, con i cinque inviati e le cinque troupe spedite da cinque diverse testate Rai al suo seguito nella tournée australiana, che poi è specialità della casa: lo spreco di soldi pubblici. E lo aveva fatto secondo il solito atteggiamento “meglio voi che noi”, nel senso che i politici non si auto-tagliano nulla, i ministeri non si riesce a capire se e a quanto alla fine rinunceranno, ma per la Rai la cifra è alta, chiara e tondeggiante: 150. E le ragioni di opportunità si scontrano con quelle del diritto.

Nei delicatissimi equilibri di questi tempi, un voto così non poteva non causare feriti sul campo, specialmente se le premesse e le parti in campo erano già di per sé a forte handicap. Eccezion fatta probabilmente per il consigliere di lungo corso Verro, pdl della prima ora, perfino più berlusconiano di quanto non sia ora lo stesso Berlusconi, che dopo aver covato per sei mesi l’operazione “rivincita”, è stato con il suo “ordine del giorno” l’artefice dello sconquasso andato in onda ieri al settimo piano di viale Mazzini, dove: la consigliera Luisa Todini, anch’essa entrata in quota Pdl ma nonostante questo nominata da Renzi come presidente di Poste italiane (“sono multitasking” disse allora) ha pensato bene di anticipare le dimissioni promesse in autunno; il trio “nominato” dal governo Monti si è messo ancora una volta in luce per il suo amore di oscurità in pieno stile “sciolta civica”: la presidente Tarantola astenutasi dalla votazione “per garanzia”, il direttore Gubitosi, stretto tra ragioni politiche e aziendali limitatosi a parlare di “atto inopportuno”, e il consigliere “istituzionale” (indicato dal ministero dell’Economia) Marco Pinto schieratosi ora sul carro aziendalista anti-governativo, proprio come i due consiglieri nominati, nel momento di massima divaricazione pd-governo (grazie a una delle innumerevoli incertezze dell’era Bersani), come pseudo-espressione della troppo citata “società civile”. Lo stesso spirito di corpo tanto diffuso da contagiare anche i consiglieri Rositani e De Laurentis (con targhe rispettivamente assai sbiadite AN e UDC), ma non dal consigliere Pilati, entrato sì in quota Pdl, ma lui sì, a differenza di Verro folgorato sulla strada del nuovo verso promesso da Renzi, l’unico insieme alla Todini, ad aver votato no al ricorso.

E ora? Ora, dopo un voto che sa di mini referendum sul governo Renzi, il ministro Alfano promette vendetta tremenda vendetta, il sottosegretario Giacomelli, immedesimandosi evidentemente in un marziano grida al “voto politico” (come se in Rai ci siano altre possibilità…) aggiungendo che “tutto questo rafforza nel governo la volontà di liberare la Rai dalle vecchie logiche”. Col che si ritorna, come nel vecchio ma sempre attuale gioco dell’oca, al solito punto di partenza, ma che nel caso della Rai è da sempre appesantito da quelle nebbie impenetrabili sulle quali si continua a declamare uno degli slogan più fini a se stessi della storia italiana, che recita così: “via i partiti dalla Rai”, in un’azienda dove anche l’aroma del caffè ha un inconfondibile retrogusto politico….

http://www.lintellettualedissidente.it/inevidenza/rai-wayne/


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