Un reportage sulla vita durante la guerra in Siria di Andrea Cucco e Giampiero Venturi per difesaonline.it
Diario siriano. Cap.1: Il varco nel buio
Coerenti con la scelta di raccontarvi i Paesi solo attraverso l’esperienza sul campo, siamo in Siria!
Il sistema di sicurezza, più rigido dopo l’intervento russo, rende impossibile l’ingresso alla stampa, tranne in rare occasioni. Noi ci siamo aggregati a un gruppo di volontari italiani e siamo riusciti ad entrare via terra dal Libano. Vogliamo raccontare come stanno le cose in un Paese brutalizzato dalla guerra e dai media internazionali. La verità di qui, non la racconta nessuno.
Quasi sera. La strada tra l’aeroporto Hariri di Beirut a Damasco porta verso il nulla. Lasciati il traffico, la vita e le auto di lusso della capitale libanese si sale ripidi fino a Chtaura, grosso snodo in direzione est dove tempo fa eravamo già passati (vedi articolo). Il sole cala in fretta alle nostre spalle, poi quando la costa scompare tutto diventa buio e inizia a fare freddo, molto freddo. È l'immagine più eloquente della guerra.
Due ore scarse e siamo alla frontiera. La scritta sull’edificio bianco ricorda che la Siria è un Paese arabo. Dentro, la luce e il riscaldamento elettrico sono intensi. Le guardie di confine e gli addetti alla sicurezza parlottano sotto un quadro enorme del Presidente Assad. Fuori intanto si passa dal caldo artificiale al fuocherello di ciocchi di legna della garitta siriana. Il posto è surreale: un’oasi calda e illuminata nella notte nera senza luci.
La rete dei lampioni stradali installata al centro tra le due corsie di marcia, è fitta ma spenta. Ai lati oscurità e gelo: a gennaio, il freddo fra Libano e Siria diventa sempre neve.
Dalla frontiera in poi incrociamo o sorpassiamo di rado un veicolo. Lungo la strada di tanto in tanto spuntano dal buio militari in mimetica e scarpe leggere. Quando i fari dell'auto passano vengono inghiottiti di nuovo dalla notte.
La temperatura è sotto zero. Dopo mezz’ora di strada in silenzio dal mantello scuro del nulla s’intravedono le prime abitazioni e le luci gradualmente aumentano. Ma non abbastanza: siamo a Damasco.
Superiamo alcuni posti di controllo tra mezzi oscurati e soldati e giungiamo di fronte all'entrata dell'albergo (per ragioni di sicurezza non possiamo dire quale).
Due mesi fa proprio qui è caduta una bomba da mortaio: tre morti. Per non farci mancare nulla, su una facciata ci sono i segni di una precedente granata a razzo.
La cosa preoccupa: un colpo di mortaio ha una gittata di alcuni chilometri. L'RPG poche centinaia di metri. Significa che la guerra è passata qui accanto.
È notte fonda ormai. Dalla finestra dell’hotel si vedono case. Siamo a Damasco, Siria.
Cap.2: Damasco rinasce, ai margini della guerra
Damasco è una città al minimo. Arrivarci fa uno strano effetto, soprattutto se non è la prima volta: poco traffico e troppe luci spente la notte. Per chi ci vive o c’è già stato negli ultimi quattro anni è diverso. In realtà la città sta rifiorendo. Comincia a tornare la gente nei ristoranti, le strade si riempiono, qualche fiore spunta tra macerie e schegge di muro.
Fino a poco tempo fa ai check point militari i kalashnikov spianati erano la regola. Ovunque l’ostentazione delle armi diventava ingombrante, ossessiva. Rinunciando a sé stessa, Damasco odorava di piombo e polvere pesante.
Oggi, pur senza abbassare la guardia, l'impressione generale è una grande voglia di normalità. La sicurezza passa dalle canne dei fucili abbassati, da qualche sorriso in più, da una maggiore disponibilità di soldati e uomini della sicurezza. Se sia una politica o un comportamento legato alle buone notizie che arrivano dal fronte non è dato saperlo. Gli uomini seduti nei caffè meno frettolosi di ieri lo dimostrano: Damasco lancia segnali di un ritorno alla vita, lento ma progressivo.
Dall’attentato di tre giorni fa alla moschea di Sayyida Zeinab all’eco delle detonazioni ci abbiamo fatto l’abitudine. Sullo sfondo di ogni giornata ci sono boati e ritorno di esplosioni in lontananza. Se siano bombe, granate a razzo o cannoneggiamenti non è chiaro. È una litania senza fine, pesante e discreta allo stesso tempo. La guerra c’è ma non si vede. Porta il suo carico di angoscia con discrezione, intrecciata a quella normalità di cui si ha disperatamente bisogno.
Eppure Damasco nonostante gli orrori mantiene tutto il suo fascino: tra i merletti architettonici della città vecchia e i colori dei banchi di spezie, nelle antichissime e strette viuzze del centro ci si dimentica quasi che a pochi km da qui c’è ancora l’inferno. Un inferno che dura da troppi anni e che questa gente non merita.
Domani ci avvicineremo ai luoghi dove si spara, dove si combatte, dove si vince o si muore.
Cap.3: Al fronte coi “Falchi del deserto”
Da una cittadina lungo la costa puntiamo a nord. Vicino Latakia incrociamo per la prima volta una colonna di camion russi seguiti da un BMP che viaggia a tavoletta. I siriani che ci accompagnano tengono a precisare che in Occidente il loro aiuto è stato sopravvalutato. Hanno ripulito il cielo ma a terra hanno fatto poco. Pochi minuti e dal lato che guarda il mare spuntano batterie russe antiaeree ed antinave. Ci accompagna uno sfondo di luce e vento.
Usciamo dal traffico dell’autostrada e ci immettiamo in un tratto in cui si circola su una corsia. Il divisorio in cemento protegge parzialmente dai colpi da nord. Dopo un tratto veloce raggiungiamo i primi check point dei Falchi del deserto. Sono una forza d'élite di volontari dei Comitati di difesa. Sono la sintesi perfetta di questa guerra: ben addestrati, tenaci, famosi per la determinazione, sono cittadini che hanno scelto di liberare la Siria dai terroristi, anzi, dai “ratti”, come loro chiamano invasori e traditori. Hanno un corpo gemello, i Falchi del mare, addetti alla difesa costiera. Questi uomini, da noi sconosciuti, in Siria sono leggenda.
Ci aspettavano. Le facce sorridenti di ogni età non sembrano quelle di combattenti straordinari che solo due giorni fa hanno respinto un altro tentativo di rioccupare Salma, la città di montagna dove siamo diretti.
Sale la strada e sale il freddo. Il tragitto è trafficato da moto che fanno la spola per trasportare viveri, munizioni e anche feriti. Ad un posto di controllo alcuni soldati si reggono a malapena sulle stampelle: sono i feriti che hanno scelto di rimanere al fronte insieme ai loro fratelli di guerra e di sangue. È commovente.
Salendo di quota il freddo aumenta ancora ma rimane sopportabile. Niente a che vedere con il mezzo metro di neve di gennaio quando qui si combatteva spesso con un uovo sodo al giorno per sfamarsi.
Arroccata in cima, Salma è praticamente distrutta. Non c'è edificio che non abbia subito danni. Appena entriamo arriva un messaggio sui cellulari: “Benvenuti in Turchia”. Il confine è in realtà a 15 chilometri. La telefonia a volte va oltre la geopolitica. O viceversa, chissà...
La città è stata presa nonostante il parere contrario russo. Il tentativo sembrava folle. C'erano asserragliati migliaia di terroristi a cui si affiancavano traditori (per denaro o per costrizione) siriani.
I terroristi sono per lo più miliziani di Al Nusra di etnia turcomanna che vanno e vengono dalla Turchia. L'appoggio di Ankara è sfacciato. Fino a pochi giorni fa c'era un canale diretto di rifornimenti e ambulanze turche che facevano la spola. Ma gli aiuti non riguardano solo la
logistica. Un ufficiale (con mimetica woodland senza gradi) ci racconta che l'artiglieria turca ha sparato per giorni sulle postazioni siriane. Una pratica che ancora continua.
Proprio la protezione dell'artiglieria ottomana ha finito per tradire i difensori. Rilassati in città, si sono visti piombare addosso i falchi siriani che sotto le granate di grosso calibro hanno dato l’assalto con uno scontro sanguinoso casa per casa.
Nella fuga i “ratti” hanno lasciato alcune auto imbottite di esplosivo che hanno mutilato ed ucciso otto uomini. Gli artificieri hanno lavorato giorni per disinnescare tutte le trappole sparse in giro. Negli stessi giorni i terroristi hanno tentato più volte di riconquistare le posizioni ma sono stati sempre “bastonati”.
Giriamo tra macerie, mimetiche, muri sfondati con scritte in arabo e un freddo troppo bello per l’orrore che avvolge.
Il solo fatto di essere raccontati da degli occidentali riempie gli occhi degli uomini che incontriamo con una felicità sincera. È un'emozione piccola, in una tragedia tremenda.
Uno di loro mostra un coltello di fabbricazione turca sottratto ad un terrorista ucciso (foto). Un altro ne mostra uno con la scritta “USA” e a gesti fa capire la dinamica con è diventato suo: ha mitragliato il nemico, gli si è avventato contro, glielo ha sfilato dal fodero e lo ha finito.
Mentre salivamo per la montagna i boati dell'artiglieria facevano tremare la terra. Ora che siamo in città sono più forti e a tratti intensificano la cadenza. Fortunatamente per noi, sono colpi in partenza.
Chiediamo ad un altro soldato se vuole raccontare qualcosa dell'assedio. Lui sospira e inizia a parlare.
“Ero con una squadra che risaliva per un bosco sotto la città quando ad un tratto è calata una nebbia fitta. Pochi passi e sentiamo arrivare un gran numero di terroristi. Credevo che saremmo morti tutti quando uno di noi improvvisamente urla: - Fate attenzione che stanno arrivando i siriani!- I terroristi, ormai a pochi metri, senza fermarsi hanno risposto sicuri: - Proseguite pure, che a quelli ci pensiamo noi...-. Abbiamo continuato per poco e poi siamo piombati alle loro spalle: abbiamo fatto 35 morti. Solo alla fine, con le mani tremanti, mi sono reso conto con quanta paura avessi vissuto quei momenti”.
I racconti si susseguono. Qualcuno a cui chiediamo di spiegare chi siano i falchi fa un parallelo con l'Italia, e li descrive come una sorta di marò. La notizia della tenacia eroica dei due italiani è arrivata anche qui…
I colpi dell'artiglieria attorno a noi intanto s’intensificano. Sembra strano dirlo, ma dopo aver stretto la mano a uomini come questi lasciamo l'area con rimpianto. Un pizzico di rimpianto che rimane nel vento.
(foto apertura Difesa Online: scritte lasciate sui muri di Salma dai terroristi "Sì alla legge di Dio e sì alla sua giustizia". "No alla democrazia").
Cap.4: I figli della guerra
Oltre le bombe e il sangue, la guerra è fatta di scie. Non quelle di aerei e missili, non quelle di fumo. Le scie sono gli strascichi di dolore e morte che cavalcano una generazione e distruggono l’anima giovane di un Paese intero.
Siamo sulla costa, in una cittadina sicura bagnata dallo stesso mare nostro. La Siria è l’ultimo lembo nel Mediterraneo: il primo che vede nascere il sole e il primo su cui tramontano le speranze di un’informazione corretta. Qui, mentre l’Occidente parla del nulla, si è già morti.
Abbiamo conosciuto i figli del massacro che si consuma da cinque anni: A. e H.. Hanno 6 e 9 anni. Sono due di cinque fratelli, educati e generosi. Li accompagna la sorella maggiore, una bella ragazza di 20 anni.
Una volta presa confidenza il più piccolo tira fuori dalla tasca un biscottino e ce lo offre. Per loro è un dono importante e rifiutare sarebbe un sopruso. Da una parola incompresa sboccia un sorriso, ma i loro occhi intelligenti portano il peso di un'ombra profonda, una cicatrice evidente che ne scalfisce la luce. Chiediamo allo zio e il quadro tremendo si chiarisce.
Fino a tre anni fa il padre dei 5 fratelli era un famoso avvocato di Homs. Aveva un grande un difetto: amava il suo Paese e quando scoppiò la rivolta rimase fedele al governo, continuando a lavorare. Come sempre, come un semplice cittadino, come se ci fosse ancora un futuro.
Insieme a quattro colleghi fu rapito dal suo ufficio e torturato per giorni. Infine, nel rituale video su YouTube, fu sgozzato e decapitato. Le teste dei cinque avvocati furono recapitate alle rispettive famiglie. L'intento era di spaventare la popolazione e indurla a lasciare la città. Il terrore voleva il vuoto assoluto da riempire con altre idee, altre bandiere, altri interessi lontani. Per quella famiglia, il progetto ebbe successo. La loro casa a Homs fu distrutta e con essa l’intreccio di cinque famiglie normali in un Paese normale di cui si parlava poco e niente.
Oggi è un giorno speciale: il secondo fratello di 19 anni ha terminato l'addestramento nell'esercito in cui si è arruolato volontario lo scorso anno e parte oggi per il fronte. Allo zio che gli ha chiesto se non avesse paura ha risposto: “vado per mio padre”. La terzogenita frequenta le superiori. Sogna di diventare medico. Lo stipendio da militari dei primi due permette alla famiglia di sopravvivere. I bambini che ci guardano ancora curiosi sono studenti modello. Il più piccolo vuole studiare per diventare giudice e seguire le orme del padre.
Ci viene raccontato degli incubi, delle urla a squarciagola con cui i cinque fratelli si svegliavano la notte. Nell’aria dolce del mare che tra un po’ odorerà di primavera, il contrasto è enorme.
Un ultimo sguardo ai bambini e viene un nodo in gola. Impossibile non sentirsi partecipi, toccati, responsabili. Veniamo da un mondo avanzato e civile, unto del grasso di cose inutili. Un mondo che ha armato la mano di animali ignoranti chiamandoli "ribelli moderati". Nel chiacchiericcio di una politica imbelle, l’Italia fa parte di quel mondo. Un mondo colpevole che adesso non sa fare di meglio oltre a schiarirsi la coscienza e stare a guardare.
L’importante ora però è sapere. Nell’indifferenza gelida, nella controinformazione, nella distorsione quotidiana di notiziari afferenti a chissà cosa, è importante vedere e capire. Un giorno potremo dire “io ho visto, io ho ascoltato, io sapevo”.
Pensiamo a quello che abbiamo sentito mentre cala il sole. Un chiosco vende succhi di frutta, in una logica strana di normalità eccessiva. L’imbrunire del cielo intanto indora le acque indaco del Mediterraneo. Il sole corre e s’inclina sull’acqua. Tra poco quella luce calerà anche in Italia e sarà buio per la Siria e buio sui pensieri dell’Occidente.
Cap.5: "Così l’ISIS ha massacrato il mio plotone..."
Uno sguardo obliquo, oltre la finestra. Somar parla lento, con le parole certe e cadenzate di chi ha visto. È un sopravvissuto, l'unico dei 21 uomini del suo plotone.
Tutto capita in una notte infame di alcuni mesi fa, a metà strada fra Homs e Palmyra. Sono i giorni in cui i tg occidentali rimbalzano notizie da Palmyra, inorridendo dietro a un display.
Per 6 giorni i rifornimenti elitrasportati vengono sistematicamente distrutti insieme a velivoli ed equipaggi e tutt
o il reparto di Somar si sfama con serpenti ed altri animali del deserto. Un momento tremendo per l’Esercito siriano.
Buio assoluto tra le tende dei soldati allestite vicino ad un T55 in panne, bloccato da giorni per un guasto e ormai insabbiato. Uno, due, tre… Per i cecchini dell'Isis le sentinelle e tutti i commilitoni di Somar sono un bersaglio facile. Alcuni vengono freddati nel sonno. Un massacro senza scampo.
Quando inizia la mattanza Somar prova a soccorrere il più vicino dei suoi compagni colpiti. Niente da fare, viene colpito prima al petto (i medici estrarranno un colpo a 2 centimetri dal cuore), poi al piede sinistro. Gli assalitori hanno visori ed ottiche ad intensificazione luminosa. Chi considera l’Isis una banda di briganti, è fuori strada. Armi ed equipaggiamenti vengono da lontano e c’è chi sa farne uso.
I 21 siriani sparano raffiche di AK nel buio. Il suono acuto si perde nel vuoto intenso di sabbia e polvere. Per Somar lo scontro si chiude con un proiettile attraverso la testa tra fronte e occhio sinistro.
Guarda ancora fuori. Ha toccato la fine con entrambe le mani e nella sua voce è rimasta la traccia. Dice che nel buio è caduto e ha pensato alla moglie e ai tre figli. Piange dentro senza commuoversi.
Quando tutto sembra finito arriva un soccorso dal cielo. Un aereo sgancia pesante attorno alla loro posizione per proteggerli. Ma è un lancio cieco. Cieco come il buio intorno. Nell’oscurità i lampi brevi delle esplosioni e delle scintille si spengono nei cumuli di sabbia grigia che si alzano a caso. Fiotti di luce gialla e rosa sembrano tracce di un incubo amico.
Passano 6 ore prima che arrivi il giorno e con la luce chiara del deserto arrivano aiuti di terra. Dei compagni di Somar, spenti uno ad uno come lumini al vento, non rimane nessuno.
Somar racconta di aver ripreso conoscenza in ospedale. Gli ci sono voluti 8 mesi per lasciare il letto, circondato dall'affetto della moglie e dei tre figli. Somar non ha vent'anni, ne ha 35. Si è congedato 14 anni prima al termine della leva triennale. E avrebbe potuto restarsene a casa con la famiglia se qualcuno non avesse permesso a bestie assassine di avvicinarsi a pochi chilometri dai suoi. Volontario, cieco ad un occhio e zoppicante, ammette senza remore che rifarebbe immediatamente la scelta perché "la famiglia di un uomo è anche la propria Patria, la sua terra".
Non si finisce mai d’imparare da questo popolo. Come Somar ce ne sono migliaia, sconosciuti, persi, chissà dove, meno fortunati. Lui dice che in futuro, una volta pacificata la Siria, non si vendicherebbe comunque delle bestie assassine dell'Isis. I suoi tratti arabi violentati dall’orrore lasciano trasparire un cuore buono.
Non è un eroe Somar, ma un onesto padre di famiglia che ha difeso qualcosa, probabilmente tutto quello che aveva e che ha ancora. Riprenderebbe un fucile solo per difendere la Siria. Mentre guarda fuori col suo viso sbilenco, sembra pensarci e convincersi ancora. La Suriia come dicono gli arabi, è un ritornello che torna sempre. Un nome antico, inossidabile nel cuore di uomini semplici e anonimi, ma dai sentimenti grandi. Sorride per la prima volta e quasi a ripensarci dice che il fucile lo imbraccerebbe ancora anche per aiutare i russi, gli unici che aiutano i suoi fratelli siriani. Sorride ancora e riprende a guardare fuori.
Chissà che pensa, chissà cosa gli torna in mente… Roba di uomini. Roba di soldati e gente per bene…
Cap.6: Il barbiere di Damasco
M. è un uomo esile. La barba di un mese incornicia una faccia triste e grigia come il muro. Ha uno sguardo cupo che nasconde un abisso, una ferita profonda. La seconda volta che ci incontriamo si scuote un po’ e nel suo silenzio si apre una breccia. Prende confidenza e inizia a parlare.
Novembre 2012 (area a nord-est di Damasco): prima che la guerra passi di lì, M. manda lontano moglie e figli. Lui rimane perché il negozio di barbiere e la casa sono tutta la sua vita. Deve lavorare per mantenere la famiglia.
Se li trova in casa all'improvviso. Sono i “miliziani moderati per la libertà e la democrazia” del Free Syrian Army. Quelli della primavera araba, amici degli amici…
Viene immediatamente pestato a sangue con l'accusa di essere uno sciita, un infedele. Lui in realtà è sunnita, ma non gli credono. Iniziano giorni assurdi di pestaggi e sevizie.
Scopre le bende dai piedi e ci mostra i segni sulle caviglie (foto). Lo hanno torturato con la corrente elettrica per estorcere una confessione.
Per alleviare le pene M. poteva confessare quello che non è. Se lo avesse fatto lo avrebbero ucciso sul posto come è successo ad altri vicini di casa.
Continua a negare ma i suoi aguzzini non gli credono. Dopo settimane di botte e minacce di morte gli infami dell’FSA decidono di farla finita. Lo portano in strada, lo incaprettano e gli dicono di pregare. Quando l’AK che gli hanno puntato alla fronte sta per sparare passa il capo della banda. Solleva la canna del fucile mentre parte il colpo che gli sfiora la testa.
“È un sunnita, che cazzo fate!” - esclama.
Il leader locale dei miliziani è un uomo del posto e lo riconosce. L'esecuzione scampata è l’inizio di un altro inferno: gli occupano casa e lo riducono in schiavitù. È costretto a servire tra violenze fisiche e morali di ogni tipo.
Intanto in quest’area di Damasco la vita quotidiana è cadenzata da esecuzioni sommarie. I corpi dei soldati catturati, dopo le torture vengono gettati nei cassoni della spazzatura. Vengono eliminati sistematicamente tutti gli “infedeli”: sciiti, alawiti, drusi, cristiani... C’è un piano preciso, preordinato.
I miliziani sono siriani locali ma soprattutto stranieri, in maggioranza marocchini e tunisini. Nessun europeo. Lui riconosce quasi tutti i siriani, perché erano suoi clienti.
M. si ferma impietrito. Un’immagine, un ricordo, qualcosa lo turba. La sua voce diventa rabbiosa, quasi cattiva. Dice che quelle bestie non erano veri credenti: si drogavano, si ubriacavano e si sodomizzavano a vicenda. Il tutto nel suo letto nuziale... Il pudore e la presenza di clienti nel negozio gli impediscono di dire oltre. Le violenze fisiche che ha dovuto subire si perdono nel suo sguardo spento, gelato in un odio profondo e in una postura contratta.
Riprende a parlare e dice che il piano superiore di casa era diventato un'armeria.
Le armi sono tante e modernissime. Non si sa chi gliele abbia fornite ma i miliziani sono equipaggiati meglio dell'esercito. I fucili da cecchino con ottiche notturne mietono vittime per mesi. Le famiglie smettono di mandare i bambini a scuola perché diventano sempre più i bersagli dei cecchini appostati sui tetti. I miliziani moderati si divertono per 9 mesi, quanto dura l’occupazione di questa fetta di Damasco.
La festa un giorno finisce. Arriva l'esercito e i miliziani del Free Syrian Army fuggono via. Si portano dietro M., ma lui riesce a sganciarsi. Si dirige verso i militari siriani. Sventola la canottiera bianca, li raggiunge e trova scampo.
Negozio ed abitazione sono diventati macerie. Riesce però a raggiungere la famiglia a iniziare di nuovo. La vita a Damasco lentamente riprende.
Chiediamo se abbia mai creduto alle proteste del 2011.
Risponde che la rivoluzione era organizzata da fuori. Era chiaro fin dall’inizio che fosse una trappola.
Quando parla di quello che prova per i miliziani gli torna il buio negli occhi. Perdono luce e vita. Dietro la sua faccia grigia non riesce a trovare il perdono per quello che gli hanno fatto. Parla di morte, di vendetta, di un odio senza fine. È la guerra voluta dagli altri.
Cap.7: rapimento e riscatto
Nel viaggio di ritorno a Damasco sul sedile a fianco c’è un militare. Si chiama A. e viene da un piccolo villaggio del centro. Torna in servizio dopo una breve licenza. Accartocciato nella sua woodland racconta quanto gli è capitato tre anni fa.
Era di leva, in servizio a Yabroud, una cittadina tra Homs e Damasco. Come addetto ai rifornimenti invece del fucile usava la pistola: quella della pompa di benzina. Un pomeriggio riceve una chiamata del suo comandante che gli ordina di raggiungerlo in un certo posto in periferia. Lui obbedisce. All'arrivo, del comandante non c'è traccia. Lo chiama al telefono ma in quell'istante preciso viene assalito, incappucciato e portato via.
Riconosce le bandiere nere appese ai muri: si trova in un covo di miliziani di Al Nusra. È prigioniero assieme al suo comandante e ad altri soldati. Sono caduti tutti nella stessa trappola che evidentemente funziona. In breve arrivano altri colleghi fino a raggiungere il numero di 7.
I carcerieri sono egiziani, sauditi e siriani del posto. Non c'è troppo tempo per riflettere: vengono gonfiati di botte per settimane. Vengono nutriti con legumi provenienti da un magazzino dell'UNHCR dove i terroristi sono di casa. Lui e gli altri sono tenuti legati nello stesso ambiente.
Ogni tanto qualcuno viene portato in un’altra stanza per essere torturato o lasciato appeso ore intere per le mani. “Non credevo assolutamente che sarei sopravvissuto!” dice A. mentre rallentiamo per un controllo.
L’autostrada che collega Damasco col nord del Paese potrebbe fare invidia alle nostre se non fosse per i continui posti di blocco e per i lavori non segnalati. Sul tratto che attraversiamo due anni fa c’erano bande di terroristi… Ora tutto è quasi normale.
Passa una moto con 4 ragazzini sopra. L’unico che non ride è quello dietro, scomodo come la guerra che ci gira intorno. A. li vede, sorride e poi mostra sul cellulare il video di youtube dove si vede prigioniero. Più volte gli hanno fatto scavare la tomba annunciandogli l’esecuzione.
Quando ormai si dava per morto arriva la notizia che la famiglia ha pagato il riscatto. Altri come lui riescono a salvarsi. Chi non riceve soldi, viene ucciso sul posto. Tutti qui gli ideali di Al Nusra? È questa la guerra santa?
Riprendiamo a viaggiare. Mi parla del comandante. Lo hanno salvato con uno scambio di prigionieri. Se non avesse chiamato i suoi soldati sotto la minaccia della armi, lo avrebbero ucciso. Era un ufficiale ma A. non lo giudica per questo. Non tutti sono eroi in Siria. Anche qui come altrove chi recita la guerra è quasi sempre gente normale.
Passiamo un altro controllo. Nella corsia per governativi e militari i mezzi vanno veloci. I civili invece fanno la fila. Ci sono dei camion in colonna. Sono cisterne di fabbricazione russa, abbronzate dalla ruggine. Siamo nell’area desertica a ridosso di Yabroud. A. è quasi arrivato ma non si scompone. Quando parla guarda fisso negli occhi. Dice di non aver paura ormai. Vuole continuare a servire il suo Paese e ha una voglia matta di vendicarsi.
Rallentiamo. Ci sono altre macchine. Arriva un suo amico in mimetica a bordo di una piccola moto. A. il suo amico sorridono e si parlano in arabo. “Speriamo che al tuo ex comandante abbiano tolto il cellulare di servizio...” è la prima cosa che mi viene in mente scherzando. È un modo per congedarci. In fondo è un altro volto che non vedremo mai più, inghiottito dalla guerra e dalla normalità che tornerà ancora.
Lui e l’altro soldato se ne vanno fumando una sigaretta. Sorridono come ragazzi qualunque. Noi ripartiamo, fra puzza di benzina e il sole che muore. Pochi km dopo a est, sulla sinistra dell’autostrada, vediamo esplosioni. Non sono distanti. I boati sono cupi, fortissimi, uno dopo l’altro. Il traffico viene subito deviato. Cecchini sparano sull’autostrada e l’esercito bonifica l’area. Dopo soli 200 metri siamo incolonnati ad un check point mentre i tuoni dell’artiglieria continuano, abbastanza vicini. Non c’è panico. La guerra per questa gente è diventata normale, ma a noi ancora manca qualcosa. I soldati fanno scendere tutti e controllano borse e documenti. Basterebbe un colpo per far saltare tutte le macchine in fila. Non c’è logica, non c’è ragione. I militari non sono abituati ai reporter occidentali. Sorridono quasi felici e lasciano andare.
Ripartiamo verso sud con le macchine dietro ancora in fila e un’eco roca di tuoni sullo sfondo. Con lo sguardo alle spalle, pensiamo a quanto succede. Tutto è normale, tutto è follia. Nemmeno il tempo di pensarci e arriva la periferia nord di Damasco.
Cap.8: la gente fugge in Europa perché...
S. è un imprenditore. A giudicare dal parco auto sotto la sede di Damasco della società, anche di successo. Ha modi cordiali ed eleganti.
Quando entriamo nel suo ufficio ci accoglie con un espresso italiano. Dopo settimane di intrugli è il modo più familiare per iniziare un’intervista tranquilla, niente di più di un incontro tra chi ha voglia di raccontare e chi di trasmettere.
La società di S. si occupa di import-export e tratta vari generi di merce: dall'abbigliamento ai ricambi, dagli alimentari alle componenti industriali. Fino a cinque anni fa trattava con europei, turchi, cinesi… Oggi sono rimasti solo i cinesi perché dall'inizio della guerra il giro d'affari si è quasi dimezzato.
Il mercato più colpito dal conflitto è stato quello dell’Europa da cui giungevano tecnologia ed attrezzature sanitarie. Il Paese che ha perso di più è stato l'Italia da cui provenivano non solo arredi e prodotti alimentari ma anche impianti. Con la sospensione dei rapporti diplomatici e commerciali, per esempio, non è andata in porto la spedizione dall'Italia di un panificio industriale.
Fuori intanto piove. La folle normalità di Damasco passa anche per le condizioni meteo. Anche qui fa brutto tempo… Una cornice umida rende la strada oltre il parcheggio ancora più triste. S. risponde a tutte le domande con cordialità. Ha voglia di parlare. Racconta della Siria rispetto agli altri Paesi.
La Russia?
È oggi protagonista sul piano militare ma non su quello commerciale, non lo è mai stata, i pezzi di ricambio d'altronde non si trovano là...
La Cina?
Una scelta forzata dall'economia di guerra. Ma con un aspetto positivo: “dicono sempre di sì a qualunque richiesta”.
Avete scambi con gli USA?
Ci sono ma minimi. A differenza di altri, gli americani sono pragmatici: basta che su un carico non ci sia scritto “Siria”.
Si aspettava la fuga italiana da un mercato in cui era protagonista?
Sì, non mi ha sorpreso. Bastava guardare la televisione per capire che avreste fatto le valigie.
Sul versante orientale tutti i collegamenti con l'Iraq sono stati interrotti?
Buona parte della dirigenza del Daesh - quella supportata da USA ed Arabia Saudita - è formata da ex comandanti iracheni. Li conosco... Far transitare un camion in Iraq, non è impossibile: mi costa 350$!
Ci sono segni di ripresa?
Basta osservare le strade. Nel 2012 alle 17 non si vedeva più girare un'anima. Oggi alla stessa ora c'è vita.
S. si accende una sigaretta. I movimenti lenti e le pause nella nuvola di fumo, lo rendono ancora più arabo.
Prima della guerra il tenore di vita siriano era alto e molti emigrati tornavano volentieri in patria. La Siria viveva in piena occupazione.
Dopo qualche istante mi guarda negli occ
hi e dice...
Vi voglio porre io una domanda! Cosa credete che abbia spinto milioni di siriani a fuggire?
La guerra?
Sono milioni di persone che devono mantenere una famiglia e hanno perso il lavoro! La Siria era un Paese prospero. L'economia è stata massacrata. I “profughi” cercano semplicemente un'occupazione.
Voi, impietositi alla loro vista, li state facendo entrare in massa.
Sulla base di quanto sperimentato qui vi voglio però avvertire... Fate molta attenzione! La Siria è definita un “regime alawita”, tuttavia gli alawiti sono una classe sociale che non ha approfittato del potere ed è rimasta sostanzialmente povera. I 2/3 dei siriani sono sunniti. Una maggioranza che era di fatto la parte benestante del Paese. Se un imam – o il Papa – dicesse a noi sciiti o a voi cristiani“vai e fatti saltare per aria facendo una strage!”, dotati di libero arbitrio, non lo ascolteremmo minimamente. Se un imam sunnita lo ordina ad un suo fedele questo, nell'80% dei casi, obbedirà!
80%... Non è eccessivo?
No, nella stragrande maggioranza dei casi lo farà. Non sono capaci di discriminare liberamente.
Vi state riempiendo di potenziali stragisti e, sull'onda della compassione, non lo comprenderete finché non sarà troppo tardi.
Fuori smette di piovere. Passano una macchina, poi un furgone. Poi altre macchine ancora. Sì, nonostante il tempo brutto, c’è ancora vita a Damasco.