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Rogatoria magistrati di Roma per interrogare Steve Pieczenik


helios
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L'ultimo tentativo dei magistrati romani per aggiungere qualche tassello di verità all'omicidio di Aldo Moro passa per una rogatoria negli Stati Uniti d'America. Il sostituto procuratore Luca Palamara, tramite il ministero della Giustizia, ha chiesto alla «competente autorità giudiziaria» americana di rintracciare e poter interrogare Steve Pieczenik, cittadino statunitense, già assistente al Sottosegretario di Stato nel governo di Washington, nonché ex capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato.

Subito dopo il sequestro del presidente della Democrazia cristiana per mano delle Brigate rosse, avvenuto il 16 marzo 1978 con la strage dei cinque uomini della scorta, l'esperto antiterrorismo fu inviato a Roma per fornire assistenza al governo italiano nella gestione della crisi. E lo stesso Pieczenik ha raccontato in più occasioni di aver collaborato con l'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Almeno fino alla metà di aprile, quando fece ritorno negli Usa.

Nei trentasei anni di inchieste, processi, ricerche e pubblicazioni sul caso Moro, il nome dell'americano di origini russo-francesi, nato nel 1943 nella Cuba pre-Castro, è venuto spesso alla ribalta, per il ruolo svolto nell'ombra. Sarebbe stato lui a indirizzare non solo le scelte di Cossiga (per esempio nel sostenere che le lettere dell'ostaggio dalla «prigione del popolo» non erano «moralmente ascrivibili» a lui), ma anche quelle del «comitato di crisi» insediato al Viminale all'indomani del rapimento.

Dall'archivio del ministero è saltata fuori anche una relazione a lui attribuita, in cui si analizzavano le eventuali conseguenze politiche dell'azione terroristica in corso. Mai però Pieczenik è stato interrogato dagli inquirenti, né dalle varie commissioni parlamentari che si sono occupate del caso Moro. Nel 1988 la commissione stragi aveva deciso di convocarlo, ma dopo una prima dichiarazione di disponibilità il testimone declinò l'invito.

Per contro non sono mancati libri e interviste; ecco perché la Procura di Roma vuole interrogarlo. «Questo ufficio sta nuovamente indagando sull'omicidio dell'onorevole Aldo Moro, che tanto scalpore ebbe e continua ad avere nella storia italiana», ha scritto il pubblico ministero Palamara nel documento inviato negli Usa. Soprattutto dopo che nuove «rivelazioni», o presunte tali (alcune delle quali hanno preso la strada della denuncia per calunnia, dopo che è stata verificata la loro inattendibilità), «intendono affermare il coinvolgimento di soggetti esterni ai terroristi» nella gestione del sequestro.

Tra gli elementi apparentemente più seri o fondati acquisiti dal magistrato c'è una conversazione tra Pieczenik e Giovanni Minoli, trasmessa dall'emittente Radio24 , in cui l'esperto ha parlato di «manipolazione strategica» degli eventi «al fine di stabilizzare la situazione italiana», nella quale il Pci di Enrico Berlinguer rischiava di acquisire un peso sempre maggiore. Ipotesi poco gradita al governo statunitense.

La «manipolazione» ammessa da Pieczenik anche in alcuni volumi passava dalla conduzione di una trattativa con i brigatisti in cui lo Stato doveva irrigidire sempre più la propria posizione, per spingere i carcerieri di Moro a uccidere l'ostaggio: «Aldo Moro era il fulcro da sacrificare attorno al quale ruotava la salvezza dell'Italia», ha ripetuto l'uomo nell'intervista a Radio24 . Una rivendicazione della «linea della fermezza» che però si mescola ad alcune anomalie ed interrogativi ancora aperti, elencati nella richiesta di assistenza giudiziaria della magistratura romana agli Usa.

A cominciare dalla presenza nel famoso «comitato di crisi» istituito da Cossiga, col quale evidentemente Pieczenik ebbe rapporti, di molti personaggi poi risultati iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, come i responsabili dei servizi segreti dell'epoca. O ancora, l'ipotesi che «una qualche forma di "direzione" esterna dell'intera operazione abbia in qualche modo impedito la scoperta della prigione di Moro, e sia intervenuta per ostacolare la ricerca di una soluzione "politica" dell'intera vicenda». Più o meno quello che l'uomo venuto dagli Usa ha confessato a giornalisti e scrittori, e che adesso i magistrati vorrebbero verbalizzare ufficialmente, chiedendo anche dettagli in più. Anche se sono passati trentasei anni. E chissà se la domanda trasmessa a Washington avrà mai una risposta.

http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/moro-per-sempre-i-magistrati-vogliono-interrogare-lesperto-di-antiterrorismo-usa-che-si-dice-69972.htm


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Stopgun
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Il buon Steve e uno psichiatra.

In quel periodo gli psichiatri di moda nel mondo politico

Franco Ferracuti......caso Moro
Pazienza.......Ambrosiano,SISMI

Anche in Vaticano c' erano degli psichiatri......,..


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helios
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Così lasciarono che Moro venisse assassinato dalle Br

Scritto il 10/5/11 • nella Categoria: segnalazioni

Mentre il 9 maggio l’Italia rendeva omaggio ai magistrati caduti sotto il piombo dei terroristi, solo “Rai Storia” ha dedicato un focus a quello che resta il capitolo peggiore di quegli anni, il più eclatante e – tuttora – il più misterioso: la fine di Aldo Moro. Rapito proprio all’esordio della “solidarietà nazionale” e trucidato dai killer delle Br dopo 55 giorni di prigionia. Nei quali, scrisse Leonardo Sciascia, si fece di tutto per evitare di salvarlo, grazie alla doppia intransigenza dei due grandi partiti: i comunisti erano spaventati dall’idea di apparire “morbidi” con le Br, ma perché tanta durezza anche dai democristiani? Scenario oscuro, voci: Usa e Urss, servizi segreti, Israele, mafia. Ma anche la P2 di Licio Gelli, il dossier che negli anni ‘90 accusa il “consulente” americano Steve R. Pieczenik, che prima dice che l’unità di crisi per salvare Moro era infiltrata e lo sapevano anche i golpisti in Argentina, e poi ammette: la fine di Moro l’abbiamo decisa noi.

Tra i misteri del caso Moro – scrive su “Panorama” già nel 1994 il celebre giornalista statunitense Robert Katz – uno dei più appassionanti riguarda Aldo Moroproprio il ruolo giocato dal dottor Pieczenik, psichiatra inviato a Roma da Washington come “consulente” del neonato governo Andreotti. Nel servizio intitolato “L’americano che venne dal freddo”, il reporter (autore di bestseller come “I giorni dell’ira” e “Dossier Priebke: anatomia di un processo”) racconta di aver intervistato più volte Pieczenik, il quale per l’occasione infranse un silenzio che per 16 anni aveva protetto il suo soggiorno romano. Rivelazioni, scrive Katz, che in molti casi «gettano nuova luce sul lato più oscuro dell’affare Moro», lo statista che a quanto pare l’Italia non volle salvare, men che meno il ministro dell’interno Francesco Cossiga, allora alla guida della task force che, in teoria, avrebbe dovuto tentare di liberare l’ostaggio.

Il 16 marzo 1978, a poche ore dalla sanguinosa imboscata di via Fani, è lo stesso Cossiga a chiedere aiuto all’ambasciata Usa, che gli indica Steve Pieczenik come super-consulente: funzionario del Dipartimento di Stato, vice-sottosegretario designato da Henry Kissinger e in servizio presso l’amministrazione Carter. Qualifica: specialista nella microgestione di sequestri ad alto rischio. Un enfant prodige dell’intelligence: ha solo 34 anni ma si è formato ad Harvard come psichiatra, è dottore in scienze politiche congedato dal Mit e ha già risolto casi complicati. Ma il caso Moro gli appare diverso, peggiore: lo considera il tentativo sino ad allora più pericoloso di destabilizzare una democrazia occidentale. Protetto dall’anonimato su richiesta di Cossiga, Pieczenik lavora per tre settimane a Roma, immerso 12 ore al giorno in consultazioni. Poi getta la spugna: impegno «encomiabile», dice, diplomaticamente, congedandosi dallo staff italiano. Ma poi, dopo 16 Robert Katzanni, racconta la sua imbarazzante verità: secondo la sua versione datata 1994, l’Italia evitò accuratamente di salvare Moro.

«Fin dal giorno della sua partenza – ricorda Robert Katz – l’uomo di Washington a Roma è rimasto coinvolto nella trama delle più complesse teorie cospirative sull’assassinio Moro». Alcuni sostengono che Pieczenik «sia stato il padrino della singolare strategia di assoluta intransigenza, la cosiddetta “linea della fermezza”, religiosamente seguita dal governo italiano». Pieczenik era davvero «la longa manus di Kissinger, incaricato di assicurare la fine di Moro?». Lo stesso statista ostaggio delle Br chiese, via lettera, «se la linea dura non fosse stata per caso imposta dall’America: in seguito, avrebbe parlato dell’animosità che Kissinger covava nei suoi riguardi». E Mino Pecorelli, assassinato nel 1979 con tutti i suoi segreti, lasciò intendere di conoscere «particolari sinistri» sulle attività di Pieczenik al Viminale. Dubbi “profetici”, nella nebbia fitta che ancora circonda il caso Moro.

Robert Katz insegue subito il «reticente» Pieczenik per il suo libro “I giorni dell’ira”, sospettando che avesse avuto un ruolo nella «strategia dell’inattività» di Cossiga. Poi, nel 1981, quando salta fuori la famosa lista P2 e si scopre che «i comitati di crisi di Cossiga brulicavano di membri della sovversiva loggia massonica di Licio Gelli», l’ipotesi che Pieczenik fosse venuto da lontano proprio «per nuocere a Moro» sembra acquistare ulteriore consistenza. Infine, a rafforzare la teoria provvede nel 1986 il film “Il caso Moro” diretto da Giuseppe Ferrara e basato sul libro di Katz. Il lungo silenzio dell’americano “venuto dal freddo” non lo ha certo aiutato a dissipare i sospetti e chiarire la vera natura della sua missione, scrive il reporter sempre nel ‘94. E lo stesso Cossiga, davanti alla Commissione Stragi, «ebbe a lodare il contributo fornito da Pieczenik, senza tuttavia Moro strage via Faniscendere in particolari». E gli archivi dei “comitati di crisi” diretti da Cossiga? Spariti nel nulla, «dando vita a un ennesimo mistero».

Bisogna attendere fino al 1992 per rintracciare – attraverso il ministro dell’interno Vincenzo Scotti – un documento di 14 pagine, ribattezzato “Rapporto Pieczenik” e intitolato “Ipotesi sulla strategia e tattica delle Br e ipotesi sulla gestione della crisi”. Fa parte di un gruppo di cinque memorandum identificati da “consulenti” come Franco Ferracuti, Stefano Silvestri e Giulia Conte Micheli. Dattilografato in italiano e apparentemente tradotto dall’inglese, scrive Katz, il “Rapporto Pieczenik” «tende a confermare il ruolo di freddo calcolatore svolto dallo psichiatra americano, capace di concepire schemi crudeli e diabolici da contrapporre ai prodigiosi sforzi epistolari con cui Moro cercava di negoziare il proprio rilascio», arrivando a suggerire a Cossiga l’idea che l’ostaggio avesse «subito un lavaggio del cervello», visto che – dalla prigionia – accusava pesantemente la Dc. Quando 75 vecchi amici di Moro dichiarano inattendibili le lettere del prigioniero, presa di posizione che Sciascia definisce «mostruosa e incivile», lo stesso Moro si dichiara indignato e ferito dal “tradimento” degli amici più stretti.

Così, Robert Katz si rimette sulle tracce di Pieczenik e lo raggiunge a Washington, per interrogarlo sul suo ruolo di stratega occulto della fine di Moro. Ma incontra la più clamorosa delle sorprese: lui, quel documento, giura di non averlo mai scritto. Assicura: mai vergato una riga, sarebbe stato pericoloso. Il reporter è costretto ad analizzare meglio il testo attribuito a Pieczenik: fa riferimento alla richiesta delle Br di liberare 13 terroristi prigionieri in cambio del rilascio di Moro. E’ il “comunicato numero otto”, emesso dalle Brigate Rosse il 24 aprile. Katz si convince: all’epoca, Pieczenik risulta fosse già lontano: difficilmente avrebbe potuto firmare rapporti operativi, essendo tornato negli Usa già il 15 aprile. Dunque quel report era Francesco Cossigapalesemente falso, fabbricato ad arte? Mai scritto né firmato dallo stratega americano?

«Quando mostrai il documento a Pieczenik, decidemmo di rianalizzarlo passo per passo», racconta Robert Katz. «Lo trovò zeppo di interpretazioni fallaci e alla fine lo bollò come un falso di pessima fattura».Arrivati al fatidico passaggio – lo scambio di prigionieri che avrebbe salvato la vita di Moro, Pieczenik sbotta: «Se avessi avuto a disposizione 13 prigionieri per i negoziati, avrei potuto tirare fuori Moro!». Pieczenik si mostra ulteriormente risentito per l’idea che gli avessero attribuito la paternità della campagna di discredito presso gli amici di Moro: al contrario, dice, «io ho salvato 500 ostaggi dalle
mani dei terroristi». E spiega: può essere utile ridimensionare l’importanza politica di un sequestrato, ma a patto di aumentarne il valore sul piano umano.

A quel punto, Pieczenik sembra vuotare il sacco. Ricorda l’ingaggio per il caso Moro, e minimizza: le autorità Usa non sembravano molto preoccupate, la sua fu quasi una missione di routine, dopo un brief «alquanto lacunoso» con l’ambasciata americana di Roma. Nel primo incontro con Cossiga, il ministro gli “spiega” che se la crisi precipita i comunisti «prenderanno il potere». Pieczenik prende nota e intanto si installa in un ufficio accanto a quello di Cossiga, con cui parla in un misto di francese, spagnolo e italiano. Spesso sono presenti altri membri del team, tra cui il criminologo Franco Ferracuti. Un valzer di semi-sconosciuti, «un viavai incessante» di personaggi che Cossiga presenta come esponenti dell’intelligence. «Mi facevano domande sul genere di armi che avremmo Moro, perquisizione covo Br via Gradolidovuto impiegare», si lamenta Pieczenik: «Tutte questioni di ordine militare e paramilitare di cui io non mi occupavo affatto».

Pieczenik, sempre secondo il suo racconto, fa notare a Cossiga che l’unità di crisi fa acqua da tutte le parti: tattica, strategia, capacità di lettura della psicologia della Br. «Il mio obiettivo principale – assicura – è sempre stato salvare gli ostaggi facendo pagare allo Stato, o all’istituzione colpita, il prezzo minimo indispensabile». E punta sulla carta umanitaria, per tentare di proteggere la vita di Moro: «È un modo per salvare la faccia a tutti. Il governo avrebbe sempre potuto dire: “Noi non abbiamo fatto alcuna concessione, abbiamo solo agito in base a considerazioni di ordine tattico”, e dal canto loro le Br potevano affermare: “Lo abbiamo rilasciato per motivi umanitari”». Niente da fare, ma Pieczenik insiste. Chiede a Cossiga di trovare l’interlocutore giusto: Croce Rossa, Vaticano. Ma si accorge che è tutto inutile: «Loro rispondevano: “Sì, sì certo, lo faremo”, ma poi non succedeva niente».

Secondo il Pieczenik intervistato nel 1994, furono i democristiani a ignorare la disponibilità della Croce Rossa, mentre Giulio Andreotti in persona si incaricò di «bloccare la strada del Vaticano». Dichiarandosi esasperato, Pieczenik insiste per conoscere meglio il profilo umano di Aldo Moro, per poter «calcolare la sua capacità di resistenza» nel “carcere” delle Br, ma si rende conto che – in quella sala piena di politici e generali – a nessuno di loro il povero Moro andava a genio, Cossiga compreso: «Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleati». Mai avuto l’impressione che l’ostaggio scrivesse sotto l’effetto di droghe: eppure, a partire dalla prima lettera, «Cossiga e Andreotti avevano già deciso che quella e tutte le Giulio Andreottisuccessive sarebbero state considerate come altrettanti prodotti di un’estorsione, e dunque “moralmente non imputabili” al loro autore».

Così fu “seppellito” Aldo Moro, mentre era ancora vivo. Da chi? Continua Pieczenik: fu Ferracuti a dare un parere “scientifico” sulla pretesa inattendibilità di Moro, mentre per l’inviato americano le lettere erano invece lucidissime. Ben presto, Pieczenik smette di fidarsi di chiunque. O almeno così racconta a Katz nel 1994. «Dopo un po’ mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunioni filtrava all’estremo», continua l’inviato speciale americano: e ci fu chi, persino le Br, «rilasciava dichiarazioni che potevano avere origine soltanto dall’interno del nostro gruppo». Tombola. «C’era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. “C’è un’infiltrazione dall’alto, da molto in alto”. “Sì”, rispose lui, “lo so. Da molto in alto”. Ma da quanto in alto non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due. Cossiga e io, ma la falla non accennò a richiudersi».

Pieczenik racconta di aver messo alle strette Cossiga: è evidente che a Moro è stata tesa una trappola, per cui «bisogna ripartire da zero e stabilire chi avrebbe tratto vantaggio dal suo sequestro». Elementare: il movente, per arrivare al colpevole. L’americano dice di aver sfidato lo stesso Cossiga, includendolo fra i sospettati, ottenendo la sua protesta quasi divertita: «Io? Ma no. Lui è stato il mio mentore, gli ero troppo vicino». Intanto i giorni passano, l’Italia viene setacciata ma di Moro nessuna traccia. «Mi riusciva sempre più difficile credere che non potessero trovarlo, che non avessero indizi da seguire, e sommando questi dati alla fuga di notizie, capii che l’intera situazione era compromessa», dice Pieczenik a Robert Katz. «Ciò che sospettavo, e fu il motivo per cui ripartii anzitempo, era che in realtà non gli interessava affatto tirare fuori Moro vivo. A quel punto – aggiunge l’americano – seppi che la mia presenza a Roma aveva l’unico scopo di legittimare ciò che stavano facendo, che io ero funzionale ai loro obiettivi. Mi resi conto che quanto stava accadendo riguardava una sfera di cui Moro, posto di bloccoufficialmente non avrei dovuto sapere nulla, che esulava dalla mia portata. Così dissi “Signori, vi ringrazio”. E me ne andai».

A Washington, però, Steve Pieczenik racconta di aver trovato un’altra sorpresa, ancora più sbalorditiva: un emissario del governo golpista argentino, il regime militare (filo-Usa) responsabile della morte di 30.000 persone, lo aspettava al varco per ingaggiarlo, proponendogli una missione a Buenos Aires per aiutare la dittatura ad affrontare i suoi “problemi terroristici”. Pieczenik racconta di essersi rifiutato nel modo più netto: mai avrebbe prestato il suo aiuto a quei macellai. Suscitando così la reazione violenta dell’interlocutore, consigliere politico dell’ambasciata argentina. «Mi minacciò. Disse che si sarebbe rivolto al Segretario di Stato», racconta Pieczenik. Ma «la cosa incredibile fu scoprire che quell’uomo era al corrente di ciò che era accaduto nelle stanze romane di Cossiga».

Secondo l’inviato statunitense, l’oscuro funzionario argentino «sapeva esattamente cosa vi avevo fatto nelle ultime tre settimane, anche se avrebbe dovuto trattarsi di segreti». L’argentino non spiegò in che modo fosse venuto a conoscenza di tutto ciò, ma Pieczenik ne dedusse che «la fuga di notizie faceva rotta diretta verso l’Argentina». L’americano era infastidito anche dai modi del funzionario di Buenos Aires, come se la collaborazione del governo Usa fosse scontata, un obbligo. «Parlava in tono arrogante e pieno di sottintesi, come se a unirci fosse stata l’affiliazione a qualche misteriosa confraternita». I conti gli sarebbero tornati solo tre anni più tardi, scrive Katz, quando «apprese» dell’infiltrazione capillare da parte Licio Gellidella P2 nei “comitati di crisi” del Viminale e del legame che univa Licio Gelli all’Argentina. «Ecco qual era l’anello mancante».

Ma chi fu l’autore del “falso rapporto” Pieczenik? E poi: a che pro tenerlo segreto fino al 1992? Nella sua deposizione di fronte alla Commissione Stragi, nel dicembre 1993, Cossiga «si è reso garante del rapporto», scrive Katz, «arrivando persino a identificare i protagonisti anonimi del botta-e-risposta delle ultime cinque pagine: a chiedere era lui, Cossiga: a rispondere, Pieczenik». Il reporter americano ha cercato più volte di intervistare Cossiga, informandolo del fatto che aveva già parlato di tutte quelle cose con lo stesso Pieczenik. «Ogni tentativo è stato inutile», commenta Katz, che ha registrato il lungo racconto dell’uomo indicato come l’anima nera, americana, responsabile della tragica fine di Moro. Vero o falso?

Molti anni dopo, nel 2007, in prossimità dell’uscita del li
bro “Noi abbiamo ucciso Aldo Moro”, scritto con Emmanuel Amara, Pieczenik cambia decisamente versione: rivendicando un ruolo molto diverso nella gestione della crisi: «Vidi che Moro era angosciato e stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive per l’Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva prevalere la Ragione di Stato anche a scapito della sua vita». Fu lui, dunque, ad affrettare la fine di Moro? Così almeno sostiene lui stesso, in interviste a “L’Unità” e a “Left”. Racconta di aver escogitato la falsa notizia del ritrovamento del cadavere di Moro nel Lago della Duchessa, per mandare in Moro prigionieroconfusione le Br: «Uccidendo Moro persero la battaglia. Se lo avessero liberato avrebbero vinto». E Cossiga? «Ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte e faceva da tramite con Andreotti».

«Sono stato io – continua Pieczenik – a decidere che il prezzo da pagare era la vita di Moro». La sua “ricetta” per depistare le Brigate Rosse? Dar loro «un’illusione di negoziazione». Ammette: per ottenere il risultato, aveva «preso psicologicamente la gestione» dei “comitati di crisi”, «dicendo a tutti che ero l’unico che non aveva tradito Moro per il semplice fatto di non averlo mai conosciuto». E aggiunge: «Un giorno chiesi a Cossiga, guardandolo negli occhi, se mi potevo fidare di lui». E Cossiga? «Rispose francamente: “Lei non può”». L’ex ministro ed ec presidente della Repubblica ha reagito a distanza, recentemente: «Pieczenik? E’ in cerca di notorietà: oggi fa lo scrittore». Ma l’americano insiste: l’Italia era sconvolta dal radicalismo di sinistra, e la sicurezza dello Stato era inquinata da «elementi fascisti», vicini a «forze conservatrici» che «volevano la morte di Moro», mentre «le Br lo volevano vivo». Anche Cossiga sperava di salvarlo, ma alla fine «mi diede carta bianca», dice “l’americano venuto dal freddo”.

http://www.libreidee.org/2011/05/cosi-fu-lasciato-che-moro-venisse-assassinato-dalle-br/


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TarasBulba
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Temo che sapremo la verità solo nella valle di Giosafat.....
Ma sarà una verità tremenda per tutti quei congiurati che hanno avuto a che fare con questo omicidio.


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Stopgun
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I tre nomi sono Cossiga Ferracuti,Pieczenik ( in ordine alfabetico)....hanno fatto un gran casino..... Ma erano loro....

Pieczenik riferiva al Disprtimento di Stato (Kissinger, ndr)
Ferracuti riferiva alla CIA
Cossiga riferiva a ......?

A proposito il nome Ferracuti è presente nell'affaire Ustica....omonimia?


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helios
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I tre nomi sono Cossiga Ferracuti,Pieczenik ( in ordine alfabetico)....hanno fatto un gran casino..... Ma erano loro....

Pieczenik riferiva al Disprtimento di Stato (Kissinger, ndr)
Ferracuti riferiva alla CIA
Cossiga riferiva a ......?

A proposito il nome Ferracuti è presente nell'affaire Ustica....omonimia?

il criminologo del caso Moro è FRANCO Ferracuti
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/03/15/morto-il-criminologo-ferracuti.html

Il n.2 dell'aereonautica nella strage di Ustica è SANDRO Ferracuti
http://archiviostorico.corriere.it/1997/giugno/20/adesso_trema_numero_due_dell_co_0_97062013873.shtml

Non so se esiste fra i due un legame di parentela.

Per quanto riguarda Franco Ferracuti e Pieczenik c'è da tener presente che sono stati chiamati da Cossiga. Pieczenik solo poche ore dopo la strage di via Fani quando ancora non si sapevano gli autori dell'agguato.
Per quale motivo Cossiga andò a chiedere aiuto agli USA subito,senza attendere un attimo e gli USA risposero immediatamente mandando Pieczenik?

E'alquanto singolare che si parli di Argentina proprio adesso che Bergoglio è papa.


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