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Se indossi il velo la legge non vale più


mastermind
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Diego sarà punito. Severamente. Forse perderà il posto di lavoro. La sua colpa? Aver fatto rispettare una legge dello Stato, chiedendo a una musulmana velata fino agli occhi di scoprirsi il viso in un luogo pubblico. Un «crimine» che può costar caro nell’Italia politicamente corretta, dove la «contaminazione» è un valore in sé, come ci insegna la Festa del Pd. Diego fa il sorvegliante al museo Ca’ Rezzonico di Venezia e, per dirla tutta, magari non si chiama neppure così: almeno la gogna i suoi dirigenti gliel’hanno per il momento risparmiata e quindi il suo nome non è stato divulgato. Per il resto, come si dice, non si sono fatti mancare nulla: «Un fatto sgradevole, discriminatorio e stupido, non condiviso né da me personalmente né dal resto della direzione dei Musei civici», ha tuonato dalle colonne del Gazzettino il conservatore di Ca’ Rezzonico, Filippo Pedrocco. «Prenderemo i provvedimenti necessari nei confronti del guardiasala».
E così Diego la pagherà. Lui pensava forse di fare il suo dovere. Anzi considerava l’intervento di routine, visto che c’è una legge del 1975 che proibisce di girare a volto coperto: divieto confermato anche dal regolamento dei Musei civici veneziani, che lui è pagato per far rispettare. E lo aveva fatto altre volte. La cosa più divertente è che ad ammetterlo è lo stesso Pedrocco, sì quello che lo vuole punire. «Per questioni di sicurezza», ha spensieratamente dichiarato alla Nuova Venezia, «persone con il volto coperto non hanno accesso alle sale espositive. Succede per esempio a Carnevale, quando molti entrano mascherati. In quel caso chiediamo gentilmente ai visitatori di scoprirsi il volto».
Perfetto, è proprio quello che ha fatto il nostro Diego con la donna araba che indossava il niqab, il velo che lascia scoperti solo gli occhi: quindi, dov’è il problema? Ha fatto bene, no? Errore. Anzi, «grave errore». «Sta al buon senso del personale capire in quali casi sia richiesto far vedere il viso», sentenzia lo spericolato Pedrocco. «In questo caso la signora aveva tutto il diritto di visitare il museo e mi scuso per l’accaduto». Fantastico, no?
Ricapitoliamo. Se, in Italia, un italiano pretende di visitare un museo con il volto mascherato, lo si ferma. Giustamente. Lo stesso avviene, poniamo, se un ragazzo entra in un bar o in un negozio con il casco che gli copre il volto. Questioni di sicurezza, chi non lo comprende: sotto quel casco può celarsi un rapinatore; dietro quella maschera un pericoloso terrorista. E comunque, c’è una legge da far rispettare, ci sono i regolamenti. Se però a violare l’una e gli altri è un’islamica, cambia tutto. L’ipotesi che sia una persona poco raccomandabile non va neppure presa in considerazione e chi si fa sfiorare dal pensiero va redarguito, rimesso al suo posto. Se possibile cacciato.
Perché? Ma è ovvio, perché una musulmana ha diritto di veder rispettate le sue tradizioni che le impongono di non mostrare il viso. Un diritto che, per qualcuno, è più forte della legge. E che le dà facoltà di accedere a Ca’ Rezzonico: «per giunta», come sottolinea opportunamente l’agenzia di stampa Apcom, «dopo che la donna, con il marito e la figlia, aveva pagato il prezzo del biglietto d’ingresso, di 6,5 euro». Per giunta. Avevano perfino pagato e tu, Diego, sei andato a rompere le scatole. Certo, verrai punito, ma «intanto», piange ancora l’Apcom, «né la donna né la sua famiglia hanno potuto godersi la visita che avevano pagato».
E a te, Diego, magari passerà per la testa che anche le maschere sono una tradizione. Ma è una tradizione nostra, italiana, e quindi non conta. Ti frullerà l’idea che se a tua sorella o a tua figlia venisse voglia di visitare il Paese da cui proviene quella signora, le obbligherebbero a indossare mortificanti copricapi e ampie vesti lunghe fino ai piedi non appena sbarcate dall’aereo, fregandosene allegramente sia dei loro usi e costumi sia del caldo impossibile. Penserai che non sia giusto. Ecco, limitati a pensarlo. Non dire una parola: c’è il rischio che, oltre a perdere il posto di lavoro, ti guadagni dai progressisti in servizio permanente effettivo anche il marchio di razzista.

Massimo de' Manzoni
Fonte: Il Giornale
Link: http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=285978
27.08.2008


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pierrot
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Più che razzista, ha un'aria sessista, la discriminazione positiva...


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mastermind
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Discriminati al contrario: con il velo vai dove vuoi con il casco porte chiuse

Milano - Frequentare luoghi pubblici con il volto coperto, o comunque impossibile da identificare, in Italia è vietato. Lo stabilisce una legge del 1975. E lo confermano numerosi regolamenti che si sono susseguiti negli anni. Eppure, la realtà è diversa. Basta passeggiare per le strade di Milano per scoprirlo. Noi ci abbiamo provato, prima indossando un casco integrale, poi un lungo velo che lasciava visibili solo gli occhi. Insomma, un niqab «artigianale». Risultato: con il casco puoi scordare musei, chiese e boutique. Se invece somigli a una giovane integralista musulmana, nessuno fa domande e vai dappertutto.

GIRO IN CENTRO

Velo. Qualche sguardo incuriosito, l’occhiata penetrante di un ragazzo islamico. È il massimo che può capitarti se giri per il centro di Milano con un velo sulla faccia. Comincio la mia passeggiata in piazza Duomo e provo a entrare in una nota libreria. Nessuno fa caso alla mia presenza. Giro fra gli scaffali, ma dai clienti ai dipendenti, non c’è una sola persona che mi chieda spiegazioni. Esco e mi dirigo nella galleria Vittorio Emanuele. Anche qui nessuno mi ferma, né i vigili né i poliziotti. Del resto, sono in buona compagnia. Decine di donne musulmane (questa volta «originali») passeggiano indisturbate con il volto interamente nascosto da un burqa nero. Provo a curiosare in un negozio di lusso: il buttafuori mi spalanca la porta senza problemi. Qui gli arabi non badano a spese e sono clienti molto desiderati.

Casco. «Senza giustificato motivo». Proprio come vieta la legge. Così ho indossato il casco e mi sono reso irriconoscibile. Qualche occhiataccia, ma per il resto nessuno ostacola il percorso sui marciapiedi dello shopping. Riesci pure a ficcarti nei negozi, d’altronde - pensa una commessa - questo tipo potrebbe aver parcheggiato la moto dietro l’angolo e va di fretta. Approfitti della calca, prendi una maglietta, sfogli un libro, qui perfino l’uomo mascherato finisce per passare inosservato. Tranne in Galleria, dove se t’azzardi a varcare la soglia delle griffe più costose ecco che ti si para davanti un bestione della security. «Qui così non entri, o chiamo la polizia», una mano alla radiolina e l’altra che si agita pericolosamente davanti alla visiera sollevata. Meglio girare i tacchi.

NEI MUSEI

Velo. Decido di visitare il «Cenacolo» di Greenaway, a Palazzo Reale. A pochi metri di distanza dall’ingresso ci sono due pattuglie della polizia. Nessuno, fra gli agenti a bordo delle auto, accenna a fermarmi. A stento, uno di loro guarda nella mia direzione. Mi confondo fra i turisti e arrivo in prossimità del guardaroba. Qui una signora mi spiega in inglese che per raggiungere la biglietteria devo salire al primo piano. Seguo il suo consiglio e affronto la scalinata. Nessun problema, neanche quando mi rivolgo agli addetti per acquistare un biglietto. Pago il corrispettivo: la visita può cominciare.

Casco. Anche senza connotati, si avrà pure il diritto di godersi un museo... A Palazzo Reale, scelgo la mostra del pittore Ligabue. Ma non faccio in tempo a fare il primo gradino del salone d’onore. La maschera, ironia della sorte, ce l’ha con me. «Con quell’affare in testa non si entra. Anzi, il casco deve lasciarlo in guardaroba». «Ma scusi, sui cartelli dei divieti non è scritto nulla...». Risposta: «Facciamo così anche per gli ombrelli». Niente arte.

IN DUOMO

Velo. Per entrare nel Duomo mi metto in fila come una qualunque turista. Prima di varcare il portale devo sottopormi ai controlli di routine. Ma gli agenti in divisa non fanno caso alla mia presenza. Non mi chiedono di scoprire il volto, non verificano il contenuto della borsa con il metal detector. Cosa che, invece, fanno puntualmente con gli altri avventori. Anche dentro non incontro ostacoli. Passeggio fra le navate con il viso completamente celato e a guardarmi sono solo altri musulmani. Né il personale all’interno del Duomo né quello che controlla l’uscita sembra interessato al mio look.

Casco. Come un Valentino Rossi qualsiasi, o modello uomo sulla Luna se preferite, mi metto anch’io in coda per una preghiera. Al momento dei controlli, gli uomini del servizio d’ordine, più i militari, sorridono per un attimo poi si fanno decisamente seri. «Ma lei è italiano? E crede di poter entrare in chiesa con il casco? Questo non è un posto adatto agli scherzi». Sono costretto a toglierlo, tra le risatine dei turisti giapponesi. Un carabiniere commenta a mezza voce: «Ormai se ne vedono di tutti i colori...». Tradotto, se provi a entrare in Duomo con soli occhi e naso in vista, o non hai rispetto per il sacro o sei stupido. In entrambi i casi, resti fuori.

UFFICI PUBBLICI

Velo. Con un velo sul viso si può fare tutto, anche entrare in un ufficio pubblico. Alle Poste, per esempio, dove non ci sono controlli all’ingresso e quindi nessuno è in grado di bloccarti. Provo a pagare un bollettino. Mi avvicino all’addetta. Lei non fa una piega. Allora vado a curiosare nell’angolo adibito alla vendita dei gadget. Anche qui non mi ferma nessuno, anzi il personale è ben contento di rispondere alle mie domande. È la dura legge dell’accoglienza.

Casco. Non resta che un salto a «casa» della Moratti e di tutti i milanesi. A Palazzo Marino, sede del Comune. Perentorio, il vigile al cancello mi squadra come a dire: «Prima si levi il casco». Quindi: «Vorrebbe salire? Ma come cittadino o come turista?». Naturalmente l’ipotesi «motociclista misterioso» è esclusa.

Daniela Uva e Giacomo Susca
Fonte: Il Giornale
Link: http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=286245
28.08.2008


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pierrot
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Non hanno capito: dovrebbero fare l'esperimento con un uomo e una donna (entrambi con i tratti tra l'italico e l'arabeggiante) entrambi col volto coperto da un velo, e scoprire la discriminazione...


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dom
 dom
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Nessuno tocchi il guardiano di Venezia. Sicuramente non dopo il clamore suscitato dalla notizia che potesse rischiare il posto il custode di Ca' Rezzonico che domenica scorsa aveva bloccato la turista islamica con il niqab, applicando alla lettera il regolamento. «Nei Musei civici veneziani tutti possono vestire come vogliono, basta che non si velino gli occhi», è stata la battuta del sindaco Massimo Cacciari. Ma poi ha chiuso secco: «Non licenziamo nessuno, è certo. Come potremmo, semplicemente perché è stato un po' stupidino?». La parola del sindaco è stata l'ultima di una giornata di proclami. Con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi che difendeva la legalità: «La legge è uguale per tutti, soprattutto quando nasce da ragioni di ordine pubblico. L'episodio può sembrare poco importante, ma è su come un Paese affronta queste situazioni che si gioca l'alternativa tra la reale integrazione degli extracomunitari e un disastro di incomunicabilità».

Il governatore veneto Giancarlo Galan fermo sul principio di reciprocità: «Noi dobbiamo rispettare gli usi e costumi degli altri, in cambio però gli altri rispettino le nostre leggi. Se fossi un guardasala del Topkapi di Istanbul non farei entrare gente vestita in modo sommario». La Lega scatenata sulla richiesta di estendere i controlli alle donne islamiche pure su calli e campielli (Alberto Mazzonetto, capogruppo della Lega in consiglio comunale).

E perfino l'appello del sottosegretario alle Infrastrutture Roberto Castelli al ministro dell'Interno Roberto Maroni per intervenire «al più presto» in difesa «dell'onesto lavoratore del museo». Si è fatta sentire anche la gente comune, con decine di email. «Non ho nessuna intenzione di licenziare il sorvegliante, perché si è attenuto scrupolosamente alle regole. Il licenziamento vale per i fannulloni di Brunetta, non per chi fa bene il proprio dovere», ha assicurato Gianni Curti, presidente della cooperativa «Verona 83» per la quale lavora il guardiano. Da oggi, comunque, ogni struttura del Polo museale veneziano avrà una stanza (o «uno spazio a prova di privacy»), nella quale le islamiche con il volto coperto dovranno farsi identificare da una custode. «Ho dovuto agire in fretta e furia», ha spiegato la direttrice Adriana Augusti. Il responsabile dei Musei civici Giandomenico Romanelli aveva chiesto provvedimenti. Forse non si aspettava questi.

www.corriere.it


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