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Slavoj Zizek il ciarlatano


Tao
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Illustrious Member
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Così un filosofo sloveno è diventato il re del verbiage postmoderno Zizek, il giullare che ha nostalgia di Stalin e della ghigliottina

Slavoj Zizek ha imparato da Bertolt Brecht. Ha tradotto le sue poesie. Da lui ha acquisito lo speciale talento per l’ipocrisia travestita da dissenso. Ma soprattutto l’idea che per essere un intellettuale di successo devi costruirti una speciale immagine fisica. Una sorta di divisa.

Il guardaroba di Zizek così è ristretto a una serie di t-shirt da proletario dell’est Europa. Non veste altro, il filosofo più chiacchierato del mondo. Quelle magliette sgualcite gli danno un’aria da sbadato, da uno che non si cura dell’aspetto fisico, da uno che si compiace di non sapere il numero del proprio appartamento, appositamente decorato di fotografie di Giuseppe Stalin e di poster della Germania dell’est. Zizek ha imparato da Brecht, che teneva sempre una barba di tre giorni, famoso per un giubbotto di cuoio con le maniche di stoffa da proletario, oppure per un abito da lavoro grigio di buon taglio con un berretto anonimo, che Carl Zuckmayer disse lo facevano sembrare un “incrocio tra un camionista e un seminarista”.

“Chiedersi se Zizek è sincero è come chiedersi se un giullare è sincero”, ha scritto un altro marxista senza rimpianti come l’inglese Terry Eagleton. Zizek è il re del verbiage, un ciarlatano, ma non un ciarlatano irrilevante, circondato com’è da una adulazione quasi sovietica. Il New York Magazine lo ha preso così sul serio da dedicargli “120 minutes with Zizek”. In Italia è coccolato da tutti, e perfino uno studioso serio come Antonio Gnoli ha chiamato Zizek “pensatore complesso” (poi vedremo di quale complessità si parla).

Zizek tiene duecento lezioni pubbliche all’anno, ha rifiutato cattedre in ogni università americana e ha scritto cinquanta libri tradotti in venti lingue, da “Contro i diritti umani” all’ultimo appena uscito in Italia per il Nuovo Melangolo “La visione di parallasse” (salutato come “il capolavoro filosofico di Zizek”), e collabora con le maggiori testate del globo, New York Times compreso, commentando avvenimenti politici, mass media, cinema, cartoni animati, sesso orale. Esce in Italia anche la prima parte di “Meno di niente” (edizioni Ponte alle Grazie), “la più grande impresa della mia vita”, ha dichiarato. Settecento pagine su Hegel che sarebbero state scritte tutte in aereo.

E’ nato anche un Giornale internazionale di studi zizekiani. Senza contare innumerevoli articoli e interviste, oltre a film come “Zizek!” e “The Pervert’s Guide to Cinema”. L’uomo è un mistero. Come è possibile che un simile banale pensatore che si permette di scrivere che “è meglio il peggior terrore staliniano della migliore democrazia capitalistica liberale”, uno che ha scritto che “la grande maggioranza” di coloro che vivevano dietro la cortina di ferro “non ha chiesto il capitalismo”, venga invitato dal New York Times a celebrare il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino? Come è possibile che più questo filosofo indulge nell’elogio del terrore, da Stalin ai decapitatori iracheni, più viene osannato dalla sinistra dei campus e dei giornali?

Il motivo, forse, è presto spiegato: quando Zizek fa l’elogio del marxismo-leninismo, quando inneggia ai gulag di Stalin o di Mao, gioca sull’assunto che il ritorno di idee che un tempo furono cause di colossali tragedie possa avvenire soltanto nella forma della farsa. Nessuno prende sul serio lui né il suo laborioso gioco di parole clownesco. Eppure Zizek è letteralmente ovunque. Sarà perché, usando le parole di John Gray, “è riuscito a smerciare il più grande errore del secolo come intrattenimento d’élite, con un neobolscevismo modaiolo che promette al consumatore annoiato l’eccitante esperienza delle idee proibite”. Zizek ha reinventato il comunismo, “non più confinato alle tetre riunioni di trotzkisti stagionati o alle lungaggini dei seminari accademici, ma trasformato in una sorta di cabaret intellettuale”.

Zizek fa parte dei vanitosi molesti, quelli che si distinguono perché parlano sempre di sé, delle proprie fobie (“sono un depresso”, ha dichiarato in una recente intervista), della propria solitudine, delle tirature dei propri libri. Libri voluminosi e verbosi che tutto devono a un altro stregone illeggibile come Jacques Lacan. Anni fa Zizek ha sposato bene, come si dice. Si tratta di Analia Hounie, bella ragazza e allieva lacaniana dal nome un po’ fatale. Poi ha sposato una ragazza di trent’anni più giovane di lui, la giornalista Jela Krecic. L’intellettuale sloveno ha creato un autentico personaggio, le cui apparizioni sono performance fra l’arte e la commedia. In un epocale ritratto-stroncatura che gli ha dedicato New Republic, Adam Kirsch lo ha definito “filosofo da jet set”. Un blasone dai tratti oscuri, tanto che l’editore Suhrkamp ha rifiutato alcuni suoi scritti contro Israele perché considerati in odore di antisemitismo.

Nato a Lubiana, in Slovenia, mascotte hegeliana del movimento “Occupy”, Zizek inframezza qualsiasi discorso serio a citazioni improvvisate e senza senso, del tipo: “Prokofiev era meglio di Shostakovich”. Oppure: “Non sono umano, sono un mostro”. Riflette sempre controcorrente, minoritario con libidine e con tutta l’opulenza rigogliosa del suo pensiero inutile.
Due anni fa ha pubblicato un pezzo sul New York Times in cui deplorava l’uso della tortura per estorcere una confessione a Khalid Shaikh Mohammed, il leader di al Qaida che ha architettato gli attentati dell’11 settembre. Zizek vi sostiene che la tortura, “lungi dall’essere un tradimento dei valori americani, offre in realtà una conoscenza diretta dei valori americani”, la tortura dunque è il cuore stesso “del godimento osceno che sostiene il modo di vita degli Stati Uniti”. Ne consegue che la legalizzazione della tortura, lungi dal barbarizzare gli Stati Uniti come vorrebbe un vero liberal, secondo Zizek è in realtà un passo verso la sua umanizzazione. Perché i diritti umani universali secondo Zizek “sono una finzione ideologica”. Allora la violenza di al Qaida è sì “orribile”, ma anche “uno dei possibili luoghi da cui si possono dispiegare dubbi critici sulla società di oggi”, ovvero “uno dei siti di resistenza”. Tra le altre cose, Zizek afferma che san Paolo è stato “il primo leninista”.

E’ questo il suo cuore vivo: la resistenza all’ordine liberal-democratico è così urgente da giustificare qualsiasi grado di violenza. Zizek, che ama definirsi “uno scrittore stimolante”, afferma anche che “il modo per combattere l’odio effettivamente non è attraverso la sua controparte immediata, la tolleranza, al contrario ciò di cui abbiamo bisogno è ancora più odio”. Al comunista Zizek piace essere così paradossale che arriva a scrivere che “Heidegger è grande”, non malgrado, ma “a causa del suo impegno nazista”. Poi emerge il suo lato burlone di intenditore di cose pop. Scrive per esempio che “Jurassic Park è un dramma da camera circa il trauma della paternità nello stile del primo Antonioni o di Bergman”. Oppure che “Parsifal è un modello per Keanu Reeves in ‘Matrix’, con Laurence Fishburne nel ruolo di Gurnemanz”. Oppure che Patricia Highsmith è “la più grande scrittrice del XX secolo”. Nella sua grafomania compulsiva, spazia agilmente da “Kung Fu Panda” all’ontologia senza senso di Alain Badiou.

Un’iperbole comica, ma che ha spesso cascami orrendi. Così nel 1994, durante l’assedio di Sarajevo, Zizek ha scritto che “non c’è differenza tra la vita in quella città e la vita in qualsiasi città europea o americana”. Questo mentre i civili strisciavano come serpi sotto i tiri dei cecchini. La sua promiscuità intellettuale sembra davvero il privilegio del giullare. Il Chronicle of Higher Education lo ha soprannominato “
l’Elvis della teoria culturale”.
A Zizek piace dialogare in pubblico con Bernard-Henri Lévy, un altro paraguru impalpabile e glamour che il Nouvel Observateur ha definito “un disc jockey delle idee”. Zizek si compiace di essere un sostenitore della rivoluzione in un momento in cui quasi nessuno, nemmeno a sinistra, pensa che un tale cataclisma sia più possibile o addirittura auspicabile. Che cosa sia davvero la rivoluzione, lo aveva imparato sotto il comunismo sloveno. Poi, appena laureato, andò a Parigi a farsi analizzare da un parente di Lacan. La sua carriera accademica è stata fermata da burocrati comunisti che hanno creduto, senza dubbio correttamente, che la sua genialità eccentrica lo rendesse politicamente inaffidabile.

Nel 1990 Zizek si presentò come candidato alle presidenziali per Democrazia Liberale, un partito di centrosinistra che sarebbe stato la forza politica dominante nel paese per il resto del decennio, ma le “idee liberali”, al di là del servire come punti di riferimento per posizioni che egli respinge, non hanno mai plasmato il suo pensiero. Dunque Zizek è un caso unico al mondo di liberal-democratico diventato un idolatra di Lenin e un nemico sprezzante della democrazia liberale.
Secondo Alan Johnson, giornalista di Dissent, rivista della sinistra radical americana, Zizek è un “fascista di sinistra”, uno che ama denunciare la società occidentale in quanto “despiritualizzata”, “egoista”, “mercatista”, uno che condanna la democrazia occidentale come una forma di “corruzione”. Zizek crede che la civiltà liberale occidentale sia “un incubo” dal quale solo una “violenta rivoluzione” ci può risvegliare. Zizek è dunque l’erede dell’odio novecentesco per il borghese, uno che prova disprezzo per il 99 per cento delle persone che definisce “idioti noiosi”. Per questo la violenza rivoluzionaria dovrebbe essere celebrata come “redentiva”, persino “divina”, scrive Zizek.

“Sono assolutamente a favore dell’ugualitarismo con un tocco di terrore”, ripete il filosofo sloveno. Allora i jihadisti non sono realmente motivati dalla religione, come dicono di essere, in realtà sono vittime del capitalismo globale e quindi “oggettivamente” a sinistra. I qaidisti sono meglio degli zapatisti e di Porto Alegre: “Mentre perseguono fini malvagi con mezzi malvagi, l’essenza della loro attività incontra il più alto ideale di bene”. Sì, di bene: Mohammed Atta e i suoi compagni di volo su Manhattan esemplificano, scrive sempre lo sloveno, “il bene e la prontezza a sacrificarsi in nome di una causa più grande”. E’ la formula di Badiou tanto cara a Zizek: “Mieux vaut un désastre qu’un désêtre”. Meglio un disastro del niente.

“Dare alla dittatura del proletariato una possibilità!”, è il titolo di un altro scritto di Zizek. Naturalmente il filosofo conosce meglio di chiunque altro i risultati di questa “possibilità”, essendo cresciuto nella grigia e povera Yugoslavia di Tito. “Anche se, in termini di contenuto positivo, i regimi comunisti erano per lo più un triste fallimento, generando il terrore e la miseria”, ha scritto Zizek, “allo stesso tempo hanno aperto un certo spazio, lo spazio delle aspettative utopiche”.
Si arriva così alla giustificazione dei milioni di morti della Rivoluzione culturale maoista, definita da Zizek come “l’ultima grande esplosione veramente rivoluzionaria del Ventesimo secolo”. C’è sempre una frivolezza beffarda nei suoi elogi del terrorismo. Non basta ricordare la sua difesa esaltata del terrore nella Rivoluzione francese, in cui cita la giustificazione alla ghigliottina che decapitò Lavoisier (“la Repubblica non ha bisogno di scienziati”), occorre sottolineare anche la sua difesa dei khmer rossi, elogiati per aver tentato una rottura totale con il passato. Il tentativo implicò omicidi di massa e torture; ma nella visione di Zizek non è questa la ragione del suo fallimento: “I khmer rossi non furono, in un certo senso, sufficientemente radicali: mentre portarono la negazione astratta del passato al limite, non inventarono alcuna nuova forma di collettività”. In soli quattro anni, i khmer rossi sterminarono un milione e mezzo di loro concittadini: un quarto dell’intera popolazione. Una “soluzione finale” capace non solo di cambiare, ma di rigenerare il mondo e la storia. Ma “non abbastanza radicale” per il cretinetto di Lubiana.

Se il lettore non è sazio di boutade di cattivo gusto, gli farà piacere apprenderne un’altra sul bombardamento dei magnifici Budda di Bamiyan da parte degli studenti di Allah: “Ero con i talebani quando bombardarono le statue”, ha detto il filosofo.
Zizek ama ripetere che la Primavera di Praga è stato il momento topico della sua formazione: “Trovai là, nella piazza centrale, un caffè che funzionava ancora durante quella emergenza. Produceva magnifiche torte di fragole. Sedevo là, guardando i carri armati russi contro i dimostranti. Era perfetto”. Allora la domanda sorge spontanea: ma non è che il pubblico di Slavoj Zizek è troppo preso a ridere alle sue battute e non ha mai riflettuto davvero sulle fregnacce che gli va propinando?

Giulio Meotti
Fonte: www.ilfoglio.it
25.11.2013


Citazione
eresiarca
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Registrato: 2 anni fa
Post: 761
 

Ma che si pretende da una firma fissa de "Il manifesto"?


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ComeDonkeyKong
Trusted Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 92
 

Bravo Meotti, questo concentrato di ignoranza, banalità, luoghi comuni e veleno ti presenta e rappresenta al meglio. Continua cosí, e nel giornalismo italiano farai grande carriera.


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