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Susanna Tamaro - Il femminismo non ha liberato le donne


Tao
 Tao
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Tutti i messaggi si concentrano sul corpo: siamo passati dall’angelo del focolare alla mistica della seduzione. La mia generazione ha combattuto la battaglia per la parità tra i sessi e l’aborto. Oggi l’appiattimento ha cancellato le identità

Appartengo alla generazione che ha combattuto, negli anni della prima giovinezza, la battaglia per la libertà sessuale e per la legalizzazione dell’aborto. La generazione che nei tè pomeridiani, tra un effluvio di patchouli e una canna, imparava il metodo Karman, cioè come procurarsi un aborto domestico con la complicità di un gruppo di amiche. Quella generazione che organizzava dei voli collettivi a Londra per accompagnare ad abortire donne in uno stato così avanzato di gravidanza da sfiorare il parto prematuro. È difficile, per chi non li ha vissuti, capire l’eccitazione, l’esaltazione, la frenesia di quegli anni. La sensazione era quella di trovarsi sulla prua di una nave e guardare un orizzonte nuovo, aperto, illuminato dal sole di un progresso foriero di ogni felicità. Alle spalle avevamo l’oscurità, i tempi bui della repressione, della donna oggetto manipolata dai maschi e dai loro desideri, oppressa dal potere della Chiesa che, secondo gli slogan dell’epoca, vedeva in lei soltanto un docile strumento di riproduzione. Erano gli anni Settanta.

Personalmente, non sono mai stata un’attivista, ma lo erano le mie amiche più care e, per quanto capissi le loro ragioni, non posso negare di essere stata sempre profondamente turbata da questa pratica che, in quegli anni, si era trasformata in una sorta di moderno contraccettivo. Mi colpiva, in qualche modo, la leggerezza con cui tutto ciò avveniva, non perché fossi credente — allora non lo ero — né per qualche forma di moralismo imposto dall’alto, ma semplicemente perché mi sembrava che il manifestarsi della vita fosse un fatto così straordinariamente complesso e misterioso da meritare, come minimo, un po’ di timore e di rispetto. Come sono cambiate le cose in questi quarant’anni? Ho l’impressione che anche adesso il discorso sulla vita sia rimasto confinato tra due barriere ideologiche contrapposte. La difesa della vita sembra essere appannaggio, oggi come allora, solo della Chiesa, dei vescovi, di quella parte considerata più reazionaria e retriva della società, che continua a pretendere di influenzare la libera scelta dei cittadini. Chi è per il progresso, invece, pur riconoscendo la drammaticità dell’evento, non può che agire in contrapposizione a queste continue ingerenze oscurantiste. Naturalmente, un Paese civile deve avere una legge sull’aborto, ma questa necessaria tutela delle donne in un momento di fragilità non è mai una vittoria per nessuno. I dati sull’interruzione volontaria di gravidanza ci dicono che le principali categorie che si rivolgono agli ospedali sono le donne straniere, le adolescenti e le giovani. Le ragioni delle donne straniere sono purtroppo semplici da capire, si tratta di precarietà, di paura, di incertezza—ragioni che spingono spesso ormai anche madri di famiglia italiane a rinunciare a un figlio, ragioni a cui una buona politica in difesa della vita potrebbe naturalmente ovviare.

Ma le ragazze italiane? Queste figlie, e anche nipoti delle femministe, come mai si trovano in queste condizioni? Sono ragazze nate negli anni 90, ragazze cresciute in un mondo permissivo, a cui certo non sono mancate le possibilità di informarsi. Possibile che non sappiano come nascono i bambini? Possibile che non si siano accorte che i profilattici sono in vendita ovunque, perfino nei distributori automatici notturni? Per quale ragione accettano rapporti non protetti? Si rendono conto della straordinaria ferita cui vanno incontro o forse pensano che, in fondo, l’aborto non sia che un mezzo anticoncezionale come un altro? Se hai fortuna, ti va tutto bene, se hai sfortuna, te ne sbarazzi, pazienza. Non sarà che una seccatura in più. Qualcuno ha spiegato loro che cos’è la vita, il rispetto per il loro corpo? Qualcuno ha mai detto loro che si può anche dire di no, che la felicità non passa necessariamente attraverso tutti i rapporti sessuali possibili? Chi conosce il mondo degli adolescenti di oggi sa che la promiscuità è una realtà piuttosto diffusa. Ci si piace, si passa la notte insieme, tra una settimana forse ci piacerà qualcun altro. I corpi sono interscambiabili, così come i piaceri. Come da bambine hanno accumulato sempre nuovi modelli di Barbie, così accumulano, spinte dal vuoto che le circonda, partner sempre diversi. Naturalmente non tutte le ragazze sono così, per fortuna, ma non si può negare che questo sia un fenomeno in costante crescita.

Sono più felici, mi chiedo, sono più libere le ragazze di adesso rispetto a quarant’anni fa? Non mi pare. Le grandi battaglie per la liberazione femminile sembrano purtroppo aver portato le donne ad essere soltanto oggetti in modo diverso. Non occorre essere sociologi né fini pensatori per accorgersi che ai giorni nostri tutti i messaggi rivolti alle bambine si concentrano esclusivamente sul loro corpo, sul modo di offrirsi agli altri. Si vedono bambine di cinque anni vestite come cocotte e già a otto anni le ragazzine vivono in uno stato di semi anoressia, terrorizzate di mangiare qualsiasi cosa in grado di attentare alla loro linea. Bisogna essere magre, coscienti che la cosa che abbiamo da offrire, quella che ci renderà felici o infelici, è solo il nostro corpo. Il fiorire della chirurgia plastica non è che una tristissima conferma di questa realtà. Pare che molte ragazze, per i loro diciotto anni, chiedano dei ritocchi estetici in regalo. Un seno un po’ più voluminoso, un naso meno prominente, labbra più sensuali, orecchie meno a vela. Il risultato di questa chirurgia di massa è già sotto ai nostri occhi: siamo circondate da Barbie perfette, tutte uguali, tutte felicemente soddisfatte di questa uguaglianza, tutte apparentemente disponibili ai desideri maschili. Sembra che nessuno abbia mai detto a queste adolescenti che la cosa più importante non è visibile agli occhi e che l’amore non nasce dalle misure del corpo ma da qualcosa di inesprimibile che appartiene soprattutto allo sguardo.

Siamo passati così dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare, che si realizza soltanto nella maternità, alla mistica della promiscuità, che spinge le ragazze a credere che la seduzione e l’offerta del proprio corpo siano l’unica via per la realizzazione. Più fai sesso, più sei in gamba, più sei ammirata dal gruppo. Nella latitanza della famiglia, della chiesa, della scuola, la realtà educativa è dominata dai media e i media hanno una sola legge. Omologare. Ma questo lato apparentemente così comprensibile, così frivolo — voler essere carine o anche voler mitigare i segni del tempo — che cosa nasconde? Il corpo è l’espressione della nostra unicità ed è la storia delle generazioni che ci hanno preceduti. Quel naso così importante, quei denti storti vengono da un bisnonno, da una trisavola, persone che avevano un’origine, una storia e che, con la loro origine e la loro storia, hanno contribuito a costruire la nostra. Rendere anonimo il volto vuol dire cancellare l’idea che l’essere umano è una creatura che si esprime nel tempo e che il senso della vita è essere consapevoli di questo. La persona è l’unicità del volto. L’omologazione imposta dalla società consumista—e purtroppo sempre più volgarmente maschilista — ha cancellato il patto tra le generazioni, quel legame che da sempre ha permesso alla società umana di definirsi tale. Noi siamo la somma di tutti i nostri antenati ma siamo, al tempo stesso, qualcosa di straordinariamente nuovo e irripetibile. Cancellare il volto vuol dire cancellare la memoria, e cancellare la memoria, vuol dire cancellare la complessità dell’essere umano. Consumare i corpi, umiliare la forza creativa della vita per superficialità e inesperienza, vuol dire essere estranei dall’idea dell’esistenza come percorso, vuol dire
vivere in un eterno presente, costantemente intrattenuti, in balia dei propri capricci e degli altrui desideri. Senza il senso del tempo non abbiamo né passato né futuro, l’unico orizzonte che si pone davanti ai nostri occhi è quello di una specchio in cui ci riflettiamo infinite volte, come nei labirinti dei luna park. Procediamo senza senso da una parte, dall’altra, vedendo sempre e soltanto noi stessi, più magri, più grassi, più alti, più bassi. All’inizio quel girare in tondo ci fa ridere, poi col tempo, nasce l’angoscia. Dove sarà l’uscita, a chi chiedere aiuto? Battiamo su uno specchio e nessuno ci risponde. Siamo in mille, ma siamo sole.

Susanna Tamaro
Fonte: www.corriere.it
Link: http://www.corriere.it/cultura/10_aprile_17/tamaro_c023a4e0-49e9-11df-8f1a-00144f02aabe.shtml
19.04.2010


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GinoAnceschi
Eminent Member
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Si capisce che l'unico collegamento della Tamaro con la realtà è Lucignolo.


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Tao
 Tao
Illustrious Member
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Ma quali veline... La tesi della scrittrice triestina  suscita un coro di critiche

Non «ha fatto i compiti, non ha studiato...», parola di Paola Tavella. «È curioso che nel suo articolo manchi il senso del tempo, non c'è la storia, le fisionomie, il racconto», firmato Bia Sarasini. «Nessuna esperienza collettiva è stata per me così importante come il movimento femminista. Parlarne come una fabbrica di aborti fatti nell'incoscienza e nella superficialità mi pare incredibile», rincara la dose Cristina Comencini.«Superficiale, semplicistico quando non manipolatorio», replica Barbara Mapelli.

Non è passato inosservato e non è piaciuto alle storiche esponenti del movimento femminista l'articolo di Susanna Tamaro pubblicato dal Corriere della Sera dal titolo tranchant «Il femminismo non ha liberato le donne». Una lunga dissertazione sulla nuova schiavitù femminile della seduzione, un j'accuse contro i messaggi che si concentrano sul corpo, una fotografia amara del fallimento del femminismo («non c'è stata emancipazione ma solo un cambiamento di forme») che, secondo la scrittrice triestina, avrebbe lasciato in eredità veline e diciottenni in fila dal chirurgo estetico.

«Appartengo alla generazione che ha combattutto la battaglia per la libertà sessuale e per la legalizzazione dell'aborto», premette l'autrice di Va dove ti porta il cuore, sottolineando di non essere mai stata un'attivista. Erano gli anni ‘70 e si respirava un'eccitazione, un'esaltazione, una frenesia impossibile da comprendere oggi («ci sentivamo come sulla prua di una nave a guardare un orizzonte nuovo, aperto, illuminato dal sole del progresso. Alle spalle avevamo l'oscurità della donna oggetto manipolata dai maschi»). Da allora, per una strana eterogenesi dei fini, le figlie e le nipoti di quelle femministe sarebbero ridotte a un manipolo di "bad girls", superficiali e ignoranti, incapaci di capire cos'è la vita («I corpi sono interscambiali, come da bambine hanno accumulato sempre nuovi modelli di Barbie così accumulano spinte dal vuoto, partner sempre diversi»). Alla fine, in un crescendo di affermazioni venate di qualunquismo e retorica, si chiede: sono davvero più felici e più libere rispetto a quarant'anni fa? «Siamo passati dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare alla mistica della promiscuità». Insomma, il femminismo, necessario alle sue origni, non si è evoluto, anzi l'illusoria libertà conquistata - questa la tesi di fondo - ha creato solo altre catene, dorate, ma catene. «Siamo in mille ma siamo sole» è l'amara conclusione dell'articolo che sta suscitando un dibattito serrato nel variegato e complesso mondo post-femminista.
Tutte le analisi convergono su due punti: la Tamaro non conosce la storia del femminismo ed è fuori dalla realtà quando dipinge le nuove generazioni femminili come un esercito di aspiranti veline che, invece, rappresentano una minoranza seppure appariscente.

«Pazzesco», è l'aggettivo più tenero utilizzato da Paola Tavella, giornalista e scrittrice, una lunga esperienza al manifesto e a Noi donne, poi al ministero Pari opportunità. «Pazzesco», dice dopo aver affidato al Corriere on line una replica a doppia firma con Alessandra Di Pietro. «Non ha studiato, dovrebbe documentarsi, perché il femminismo è un pensiero, un'etica, una pratica raffinata e complessa che molte di noi hanno continuato a praticare, modificandosi ma restando fedeli a un punto di vista». Disinformata? «La sua analisi è riduttiva, qualunquista e misogina». Misogina? «Sì, perché come la vita della Tamaro testimonia, lei è una donna molto eccentrica, vive isolata in un agriturismo dove ha una palestra di karate. Non lo dico per amore di pettegolezzo», sorride, «ma dovrebbe imparare a partire da se stessa e scoprirebbe come cambia la prospettiva sul mondo. Se la sua vita non rispecchia quella della classica figlia della buona borghesia triestina, se ha fatto esperienze che né sua madre né sua nonna potevano sognarsi è perché il femminismo ci ha salvato il culo...(si può dire?)». Se le donne oggi studiano di più, si laureano di più, se ci sono biografie femminili così variegate, lo dobbiamo al quel movimento. «E poi non mi sento affatto sola, ho una trama che continuo a tessere e che mi ha permesso di conoscere tante donne diverse da me». Quando alla festa per l'elezione di Renata Polverini, qualcuno mi ha presentato Isabella Rauti - racconta - siamo scoppiate a ridere perché ci conosciamo da bambine («Voglio dire che, al di là dei percorsi, mi riconosco nelle donne che hanno un comune sentire, possono essere suore, militanti di destra, avversarie politiche... Nella Tamaro non mi riconosco»).

Anche per Barbara Mapelli, pedagogista, l'articolo è «semplicistico e manipolatorio» perché il femminismo ha lasciato in eredità una tipologia di donne ben diverse da quelle descritte. «Le donne non sono un esercito di Barbie, ci sono brave studentesse che progettano un futuro non solo di lavoro e famiglia. Esiste una pluralità di scelte, sfide e destini che proprio il movimento femminista ha reso possibile». Movimento che non si può ridurre a una pratica più o meno allegra di aborti casalinghi. Semmai c'è da chiedersi se il travisamento della libertà conquistata non sia figlio della rimozione e della volgarizzazione del pensiero femminista da parte dei media. Per Bia Sarasini, ex direttrice di Noi Donne, quando la scrittrisce scrive che "le grandi battaglie per la liberazione femminile sembrano avere portato le donne a essere soltanto oggetti in modo diverso", non nega le battaglie per la libertà delle donne ma ne rovescia l'esito. È curioso che nel suo articolo manchi il senso del tempo. Nell'eterno presente in cui si rispecchia l'angoscia della conclusione, "siamo in mille, ma siamo sole", non c'è storia, non ci sono le voci delle protagoniste». E ancora, insiste la Sarasini, «che la tirannia del corpo e della bellezza sia propaganda, una potente campagna di immagine imposta alle donne, un'arma per azzerare i risultati di quella liberazione è un pensiero che non sfiora la scrittrice». Durissima anche la replica della regista Cristina Comencini: «Al contrario di Susanna Tamaro, io ho fatto parte attivamente del movimento femminista e non ricordo riunioni "dominate da effluvi di patchouli e canne" come scrive lei, ma incontri tra donne di età, classe sociale, situazioni familiari diverse che si scambiavano esperienze. Parlarne come una fabbrica di aborti fatti nell'incoscienza e nella superficialità mi pare incredibile e mi stupisce che Susanna possa farlo». Con lo stesso disprezzo con cui descrive le femministe, osserva la regista, parla delle ragazze di oggi, figlie di quelle madri. Sono altre le domande da porsi: perché in Italia c'è il tasso di lavoro femminile più basso d'Europa? Perché la tivù pubblica trasmette programmi in cui il corpo delle donne è esposto come non accade in nessun paese europeo? Perché la natalità è così bassa? «La verità è che il movimento femminista non è andato fino in fondo, non ha trasformato le grandi scoperte di quegli anni in diritti acquisiti, non ha preteso dalla politica l'attuazione non solo della parità, ma della differenza femminile, che implica una società a misura delle donne, del compito doppio che hanno sempre svolto nel silenzio».

Gloria Sabatini
Fonte: http://www.secoloditalia.it
22.04.2010


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