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Un giornalista in terra incognita


Tao
 Tao
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Un incontro con Ryszard Kapuscinski

I viaggi, l'Africa, il mondo che si globalizza e si richiude su se stesso. Una conversazione sul mestiere del giornalismo con il reporter polacco, decano degli inviati

Dice di sé Ryszard Kapuscinski: «Ho attraversato decine di paesi, ho incontrato migliaia di persone, ho visitato i luoghi più diversi, ma ogni volta non manco di stupirmi della varietà del genere umano». Reporter rigoroso, instancabile navigatore di luoghi e sensazioni ai quattro angoli del globo, «maestro di giornalismo» secondo il premio Nobel Gabriel García Márquez, il 74enne polacco è approdato nei giorni scorsi all'università di Siena per una lezione con gli studenti del dottorato di antropologia, storia e teoria della cultura. Una lezione sul giornalismo e sulla vita; sul senso del viaggio e della mobilità; ma soprattutto sul suo rapporto con Erodoto di Alicarnasso, l'autore delle Storie, che - come ha confessato nel suo ultimo libro pubblicato in italiano (In viaggio con Erodoto, Feltrinelli, 2005) - lo ha accompagnato per tutta la sua lunga vicenda professionale.

«Erodoto - racconta Kapuscinski - è il primo reporter della storia: per la sua spasmodica ricerca della verità e per la necessità di conoscere l'Altro, si muoveva incessantemente per il pianeta. Voleva verificare di persona; vedere con i propri occhi, toccare con mano. Il suo approccio è umanista, il suo pensiero aperto, il suo stile sobrio. Da bravo giornalista ante litteram, sapeva far parlare il prossimo e scomparire umilmente dietro le sue storie». L'omaggio del cronista polacco al misterioso autore greco vissuto nel V secolo prima di Cristo è totale, la sua devozione assoluta. Kapuscinski mostra di avere un rapporto particolare, ai limiti del morboso, con le Storie di Erodoto. «In tutti i miei viaggi, ne ho sempre portata una copia nella valigia».

E dei suoi viaggi parla volentieri, quasi come un Ismaele che, dopo aver assistito alla mortale e folle tenzone tra Achab e Moby Dick, si gode oggi un meritato riposo osservando scorrere gli eventi del mondo. Racconta quindi Kapuscinki di quando, giovane storico votato all'Accademia, si è dato al giornalismo «perché voleva attraversare una frontiera». Ricorda come il capo dell'agenzia di stampa dove aveva cominciato a lavorare decise di accontentarlo e lo spedì in India, terra incognita e lontana, e di come provocò lo stupore dei locali apparendo da solo con la sua giacca démodée in stile est-europeo, senza quel codazzo di sherpa che usualmente accompagnavano i viaggiatori dalla pelle sbiadita. Racconta di quando trascorse due anni in Cina, «paese fratello» dove improvvisamente divenne ospite sgradito per effetto collaterale degli screzi sino-sovietici. Racconta poi il suo approccio con l'Africa, «un oceano, un pianeta a se stante, un cosmo vario e ricchissimo».
Kapuscinski giunse a sud del Sahara nel 1957, all'inizio di quella stagione magica e straordinaria che fu la decolonizzazione. Il Ghana di Kwane Nkrumah si era appena reso indipendente; le strade di Accra risuonavano di appelli alla riscossa panafricana. Di lì a poco gran parte delle colonie si sarebbero affrancate, almeno nominalmente, dalla tutela politica delle rispettive madrepatrie. Un sussulto di speranza, un vibrante grido di giubilo, sembravano attraversare da parte a parte il continente. Finché ci fu il riflusso, il duro e cocente impatto con la realtà: le nuove élite locali si mostrarono del tutto identiche alle vecchie élite coloniali; i nuovi padroni si limitarono a ereditare i privilegi dei vecchi, gestendo il bilancio degli stati come un proprio patrimonio personale. L'Africa rimase sottomessa, i pochi leader non corrotti furono rovesciati da colpi di stato o liquidati da sicari finanziati dall'Occidente.

Pochi soldi in tasca, scarsi mezzi tecnologici ma un impulso simile al suo maestro di Alicarnasso, Kapuscinski ha passato quarant'anni a scandagliare «questo continente troppo grande per poterlo descrivere». Ha incontrato capi di stato e semplici cittadini; ha vissuto nei suburbi delle metropoli e in villaggi riarsi dal sole; ha visto la morte in faccia sotto forma di una malaria cerebrale; ha raccontato tanto i grandi stravolgimenti politici quanto la piccola e tribolata esistenza di uomini e donne incontrati per caso. Come Erodoto, ha sempre voluto verificare di persona, rimestare con le proprie mani nel torbido della quotidianità. E, soprattutto, ha sempre cercato di comprendere le realtà in cui si svolgevano gli eventi che era stato incaricato di raccontare.

In poche parole, non ha mai abdicato al suo dovere di giornalista. Un dovere che, secondo il reporter polacco, si declina in poche e inderogabili regole: stabilire una forte empatia con le persone protagoniste degli eventi; approfondire sempre le proprie conoscenze e contestualizzare le vicende narrate. «Oggi siamo bombardati di notizie isolate. Un giorno leggiamo sui giornali che una barca piena di kurdi è sbarcata in Sicilia. Un altro che un camion pieno di asiatici è stato trovato in Inghilterra. Un altro ancora che un gruppo di africani cerca di saltare il recinto di Melilla. Si tratta di piccole notizie separate che ci vengono presentate fuori dal loro contesto, che è la miseria e la voglia di riscatto che porta queste persone ad attraversare frontiere e ad affrontare i rischi del viaggio per migliorare la propria vita», dice con una punta di malinconia. «I giornali non prediligono l'inchiesta sul campo, il reportage. Sono per lo più noiosi assemblaggi di notizie d'agenzia. Per questo forse vendono poco».

Narratore lucido e pacato, Kapuscinski appare uno degli ultimi esemplari di una specie in via d'estinzione, quella dei giornalisti a tutto tondo che prima di raccontare un evento vogliono comprenderlo; quella dei cronisti privi di certezze che non viaggiano per trovare conferma di ciò che già credono sapere, ma per indagare e scoprire. «Sono stato in molti paesi, ma solo di alcuni ho scritto. In altri posti non sono riuscito a cogliere la realtà a un livello tale da poterla raccontare», racconta con tono sommesso.

Nell'universo dell'informazione usa e getta che è diventata ormai il nostro pane quotidiano, il cronista polacco ha l'aria di un alieno. Come forse sembrava un alieno Erodoto di Alicarnasso quando, nella Grecia del V secolo avanti Cristo, si interessava all'umanità e alle esperienze di quei barbari stranieri che altri si limitavano a schernire.

Stefano Liberti
Fonte: www.ilmanifesto.it
14.05.06


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