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Un Oscar alla impudica virilità della guerra


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Hollywood ha voluto premiare Kathryn Bigelow a tutti i costi. Perché è la regista più maschia che gli studios hanno, perché i suoi film rendono più appetibile la solita minestra, perché quando dirige ha il piglio di John Wayne, perché è visionaria senza essere rivoluzionaria, perché…Sono tanti i buoni motivi del movie-system per affibiarle questo Oscar e fare bella figura davanti al mondo intero (in realtà, la figura sarebbe pessima. La prima donna regista mai premiata!! Duemila e passa anni…), a costo di infrangere le regole ("The Hurt Locker" è uscito nelle sale nel 2008, non del 2009 come il regolamento vorrebbe) e di scavalcare film più meritevoli (ma vogliamo mettere la creatività di Up" o la fantasmagoria iper-storica di "Inglorious Basterds"?).

Detto questo, Kathryn Bigelow da sempre sa come affascinare lo sguardo senza condurlo troppo lontano. Con questo suo "The Hurt Locker" - storia di un commando di disinnescatori di bombe - riporta Hollywood sul luogo del delitto, ovvero la guerra in Iraq. Una ricognizione formale più che sostanziale, la regista di "Point Break" e "Strange Days" torna dove già erano stati, tra gli ultimi, De Palma e Haggis, per andare a recuperare qualcosa che, a suo avviso, era stato dimenticato: il senso della guerra come droga dell'anima, le mani nude a contatto con la morte, senza guanti tra i fili delle bombe, il rosso o il blu, forse salto in aria forse vivo fino a domani. Il risultato è maschio, virile, cameratesco. Nelle sue mani, la guerra in Iraq fa un balzo indietro, torna ad essere canto al milite ignoto, colui che tra il sangue e il fragore perde il senso della realtà per ritrovarla, poi, solo tra le braccia di un bambino. Non è solo una questione ideologica, è proprio nella forma del cinema di Bigelow che si respira l'epica reazionaria più saldamente americana, quell'attaccamento ai valori primari del maschile che fanno del suo film un'ode al coraggio piuttosto che una condanna alla follia.

Sul tema della guerra, il film non aggiunge assolutamente nulla a ciò che abbiamo visto, anzi, come dicevamo, ci riporta indietro. E pochissimo si sente la scrittura del reporter di guerra Mark Boal, già collaboratore di Paul Haggis per "Nella Valle di Elah" e per il precedente "Crash" . Bigelow dichiara il suo diritto ad essere neutrale nell'osservazione del conflitto, ma la neutralità di fronte alla guerra non esiste. In battaglia, funziona la regola del silenzio-assenso. E in "Hurt Locker" la cosa risulta inopportunamente evidente.

Lilla Jordan
Fonte: www.liberazione.it
12/03/2010


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