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“Le ragioni del sangue”

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“Le ragioni del sangue”, il romanzo che distrugge il melting pot

Miami, 28 ott – Quando Tom Wolfe coniò il termine “radical chic” per massacrare sic et simpliciter la sinistra al caviale newyorkese, considerava la società americana tutto sommato armonica. Correva l’anno 1970 e dalle colonne del New York Magazine la penna più sarcastica del new journalism stroncava i rivoluzionari da salotto che, per sostenere le Black Panthers, organizzarono un party nell’attico di Leonard Bernsterin a Park Avenue. Una festa dove la crème della società bianca offriva tartine al Roquefort alle Pantere separatiste di Malcolm X. Un raffinato terzomondismo d’antan, tra complessi di superiorità intellettuali e fascinazioni per il buon selvaggio che si faceva ribelle.

La Miami del terzo millennio per Tom Wolfe ha poco di chic e molto di feroce. “Le ragioni del sangue” (Mondadori), il nuovo romanzo del dandy più cinico degli States, fa letteralmente a pezzi il melting pot. Il titolo originale, Back to blood, è ancora più emblematico: tornare al sangue. E così la meta più hollywoodiana della Florida è una giungla popolata da comunità etniche che vivono una accanto all’altra senza avere rapporti tra loro, “tutti odiano tutti” dice Wolfe, rinchiusi in tribù primordiali che se ne fregano della scalata sociale. Non c’è possibilità di integrazione e non si intravedono orizzonti di convivenza pacifica. Il multiculturalismo americano è in realtà uno spietato multirazzismo dove domina il richiamo del sangue. Ma l’appartenenza all’etnia si fa solo ghetto, dove il miraggio di una simpatica Babilonia oscilla tra l’anelito di dorate supremazie e cavernicoli slum in cui sfogare la rabbia del presente. Non c’è spazio per il sogno, ci si insozza della propria merda e si abbandona la speranza. Siamo in un girone dantesco che non prevede purgatori, si passa dall’inferno al paradiso consapevoli che li divide una sottile linea rosso sangue: nel ghetto tutto fa schifo ma è l’unico spazio dove si può contare qualcosa.

Il tratteggiato underground metropolitano è dunque per Wolfe un sottosuolo di identità senza memorie, un districarsi tra le gesta poco eroiche di poliziotti cubani, improbabili professori haitiani che pensano di essere francesi, spacciatori neri in lotta contro i poliziotti cubani, psichiatri inglesi specializzati in disturbi sessuali, ex newyorkesi annoiati in pensione e magnati russi collezionisti di opere d’arte che si lanciano in dissertazioni ridicole sull’arte contemporanea. Di fronte a questa varietà umana, spesso avvilente, si distinguono per arrendevolezza i bianchi angloamericani, in preda ad un tramonto psicofisico che campa di una rendita ormai lacera. Gli unici che non hanno neppure un ghetto dove rifugiarsi e che non sanno più tornare al sangue.

Eugenio Palazzini

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