https://www.youtube.com/watch?v=wLa11d3nFIE
Che dire di questo piccolo gioiello contemporaneo? Che per fortuna i protagonisti non vivono nel mondo degli agenti patogeni, tra distanziamenti e mascherine che nemmeno in Residen Evil obbligavano la popolazione a ste assurde limitazioni totalmente controproducenti sanitariamente parlando (ma ora che ci penso perfettamente sensate per trasformare la gente in Zombie 😆 quindi potrebbe anche essere un ottimo soggetto per un prossimo reboot).
Ma noi non siamo qui per parlare di Resident Evil e delle sue copie in franchise ma di un più profano "The Monster Calls", per la serie "pronto chi parla? Il mostro!" cinematograficamente cianciando.
Trattasi di un film diretto da un pimpante Juan Antonio Bayona, un 46enne regista spagnolo con soltando altri tre film, due prima di questo, al suo attivo. Se vi aspettate una pellicola horror ricca di suspance con mostri terribili, vi smorzo subito l'entusiasmo che qui ce n'è uno solo e pure con un brutto errore di CGI (nella scena della scuola) ma tanto chissene perché non è lui il protagonista. Lui è il pretesto. Per cosa? Un atomo di pazienza che ci arrivo.
Prima vi racconto una storia. No tre, anzi quattro. Che poi l'ultima è il dramma di quest'opera, ma non vi spoilero nulla. Non in questa riga almeno.
C'era una volta Siobhan Dowd... chi è costei? Beh, tecnicamente quella che ha inventato la storia. Ma non è l'unica storia che ha inventato. Lei è stata una scrittrice e attivista inglese, morta nel 2007 cioé nove anni prima dell'uscita di questo film. "Sette minuti dopo la mezzanotte" è l'ultimo suo romanzo che è rimasto incompiuto perché la morte è sopraggiunta prima che potesse finirlo. Eppure è stata l'unica storia tradotta poi in pellicola e in un certo senso ha quasi il sapore della preveggenza, non soltanto perché nel film appare la chiesa di St Margaret a Binsey, Oxford, dove Dowd è sepolta effettivamente, ma perché racconta la storia di una madre che è gravemente malata (oncologica, come la scrittrice) e che è protagonista di un incubo ricorrente del figlio che la vede inghiottita da una voragine che porta con se la chiesa.
Tutti i protagonisti dei romanzi della Siobhan sono ragazzi dalla vita disagiata perché se ne è occupata molto come attivista ed era un po' la sua passione. Ma questo romanzo ha una storia particolare perché il suo autore, quello che ne ha raccolto almeno il successo editoriale, non risulta essere la Dowd ma Patrick Ness un "quasi militare". Sopresi? Beh, lo sono stato anche io.
Se c'è un essere antitetico alla Down a cui potevano dare in mano il suo scritto perché fosse terminato, beh, questo è certamente Patrick Ness. Nato nella base militare di Fort Belvoir perché il padre era un sergente dell'esercito degli Stati Uniti d'America, fino all'età di sei anni ha trascorso l'infanzia alle Hawaii e per i successivi dieci ha vissuto nello stato di Washington, per poi trasferirsi a Los Angeles (non ho trovato stranamente alcun cenno circa la madre). Terminato il liceo, Ness si è iscritto alla University of Southern California, dove si è laureato in letteratura inglese. Ha pubblicato il suo primo racconto nel 1997 sulla rivista Genre e, prima di trasferirsi a Londra nel 1999, ha iniziato a lavorare al suo primo romanzo. Ness ha insegnato scrittura creativa all'Università di Oxford e ha scritto per svariate testate giornalistiche come il Daily Telegraph, il Times Literary Supplement, il Sunday Telegraph e The Guardian. Poi nel 2011 ha pubblicato "Sette minuti dopo la mezzanotte", ultimando l'opera della Dowd trasposto nel film in oggetto, di cui ha anche curato la sceneggiatura.
Non un rigo sul suo profilo di attivista sensibile alle tematiche dei ragazzi disagiati, ma (ci tengono a specificare i media) gay. Non so se essere gay è una qualifica per questo genere letterario, ma oggi, con un giro di valzer durato solo una frazione di decennio, è divenuto sensato lo sia.
Tra l'altro ho cercato ovunque cosa sarebbe attribuibile a lui, cioé quale parte dello scritto sarebbe farina del suo sacco e quale è riconducibile alla Dowd. Nulla. La cosa quindi mi ha lasciato perplesso. Ma anche questo è un segno dei tempi.
[...da qui in avanti c'è qualche spoiler...]
Veniamo invece al film. Lewis MacDougall è l'attore che intepreta il protagonista "Conor O'Malley" il ragazzino del racconto, ed è nato a Edimburgo nel 2002. Suo padre è un banchiere in pensione. Sua madre è morta nel dicembre 2013 di sclerosi multipla. Sembra uno macabro scherzo, ma nel 2016, solo tre anni dopo, verrà chiamato a interpretare la parte di uno che alla sua età "assiste" la madre mentre si spegne per un male simile. Io li avrei mandati a stendere, ma Lewis dev'essere un tipo tosto e non l'ha fatto.
Quindi che dire del drammone? Pochi dialoghi molto ben piazzati. Le immagini sono forti e risucchiano velocemente lo spettatore nelle vicende anche se quello che accade non è tanto importante per quanto risulta spettacolare, sono proprio invece i dialoghi ad assumere un aspetto primario, perché si occupano di narrazione, non solo orale ma anche visiva. Tutti gli attori sono molto bravi a recitare e anche se forse alcune scene sono un po' troppo melense e accorate, quel che colpisce è il bisogno di ripetere il gesto dell'abbraccio.
Film quindi non semplice, non solo perché ha diversi piani di lettura (anzi a ben vedere ne ha solo uno anche se profondo) ma perché fuori dal set permangono strane correlazioni che sarebbe bello approfondire. Il mio sospetto è che le aggiunte di Ness o non sono sostanziali (e questo getta un ombra sull'attribuzione dell'opera) o sono state così accorte da non alterare il senso del racconto originale che ne è uscita una malgama senza stonature e in questo caso gliene andrebbe dato merito. Assurdamente però ho come il sospetto che Ness si sia immedesimato in O'Malley in quanto oggetto di bullismo da parte dei suoi coetanei. Bullismo che era quasi voluto perché era il contraltare per non sparire socialmente e per contare almeno qualcosa per qualcuno, fosse anche solo uno che lo odiava (o temeva) anche se la scelta caduta su James Melville (come antagonista) secondo me non è stata molto felice (per semplici rapporti di proporzione fisica dato che alla fine viene mandato in ospedale a causa di O'Malley).
Meccanica emotiva strana ma esistente, quella della vittima che cerca il suo carnefice per poter essere almeno vittima, che mi è capitato di incontrare più volte nella mia ben più modesta pratica da educatore.
Se volete dargli un occhio, non credo ve ne pentirete, ma se siete teneri di cuore preparate i fazzoletti e teneteli a portata di mano. Ne avrete bisogno. 😉