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Tony Manero balle e uccide nel Cile militare di Pinochet


Tao
 Tao
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La dittatura di Pinochet vista con gli occhi dell'uomo qualunque. Raùl Peralta è un maschio senza qualità e con un unico mito, Tony Manero. Un corpo sciatto, vestiti sporchi, pochissime parole e una faccia priva di espressioni, quando qualcuno domanda a Raùl cosa fa nella vita, risponde sempre «questo». Che poi sarebbe l'imitatore di Manero nella sua performance da Febbre del sabato sera . E basta. Raùl se ne frega di tutto ciò che lo circonda, scopa le donne che gli capitano a tiro, campa in una periferia polverosa di Santiago alle spalle di una barista in età nel cui retrobottega prova interminabilmente i passi del suo eroe. Della dittatura Raùl se ne sbatte, quando può ne sfrutta i risvolti positivi, come quelli di spogliare dei propri averi i cadaveri delle vittime della polizia. La vita polverosa di questo sciacallo si illumina solo per un istante quando un programma televisivo annuncia una gara a premi per imitatori di Tony Manero. Raùl si fa avanti a colpi bassi, arriva in pole position e poi, sconfitto, se ne va, incazzato e indifferente al mondo come e più di prima.

Il giovane regista cileno Pablo Larraìn (alla sua opera seconda, dopo Fuga del 2006) sceglie di raccontare l'orrore di una dittatura piazzandosi in un angolo oscuro di periferia umana. Una scelta radicale, per vedere cosa serve a una dittatura per radicarsi ai più bassi livelli. Basta un anestetico mediatico come La febbre del sabato sera (lo stesso, del resto, che dalle parti nostre segnò l'inizio su schermo della fine dei Settanta e il primo barlume degli Ottanta) e un eroe come Tony Manero, figo, acchiappone e sufficientemente buzzurro da essere alla portata di qualsiasi imitatore.

Alfredo Castro (magnifico interprete di Raùl, con una faccia assai più alpaciniana che travoltina) ripropone magistralmente il ritratto di quest'uomo fuori da ogni classe, né proletario, né dissidente, né pinochettista. Rappresentante piuttosto di una sottospecie priva di riferimenti sociali, pronta a combattere solo per la sopravvivenza. Nel destino bieco di Raùl quello dell'intero continente latinoamericano che per un ventennio ha respirato sottosviluppo e abbandono, inzeppandosi il cervello di ideali surrogati.

Con un 16mm un po' sgranato dal riversamento in 35 e un uso della cinepresa alla Dardenne, il cinema di Larrain non narra, ma si fa carne stessa del racconto, si dimentica di sé per servire interamente il tempo e lo spazio della realtà. Non osserva, ma vive, trasuda sporcizia, sputa sul selciato il sangue dei torturati, e mima un riscatto nel sogno importato di un balletto di periferia. Con il vestito bianco e la camicia nera.
Bravo Lorraìn che in un'opera piccola ha inferto un altro colpo mortale al passato più oscuro del suo paese.

Roberta Ronconi
Fonte: www.liberazione.it
16/01/2009


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