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CONTEMPLAZIONE: UN VIAGGIO NELLA MENTE II Parte


mystes
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C 'è in noi, come in tutte le cose, una vita «segreta», un tesoro da portare alla luce, affinché tutte le nostre potenze, tutte le nostre componenti siano attive, coscienti e in relazione reciproca. Solo così possiamo davvero «essere». (Plotino)

Nell’esperienza viva dell’anima, Plotino non si stanca di sottolineare un’equivalenza che si produce a ogni possibile stazione di questo moto. La psiche, pur dotata di un’inalterabile essenza, «diviene», di volta in volta, «ciò a cui si accosta», assumendone la configurazione corrispondente, quasi fosse un «danzatore» che conforma i propri passi al tema che gli viene, in ogni diversa circostanza, assegnato. Avvicinandosi al corpo, essa si fa corporea, vibrante di passioni e desideri, ebbra di piaceri e di paure, avvinta dal sortilegio e dalle necessità di quel «luogo» in cui è venuta a dimorare. Accostandosi al molteplice dell’universo materiale, essa si fa sensazione, opinione e ragione discorsiva nel tentativo di cogliere e governare le apparenze del mondo. Muovendosi nella dimensione della finitezza, essa diviene, a propria volta, entità finita e particolare, che cerca, con l’azione, di intervenire sulla realtà attorno a sé. Quando, per converso, si eleva al piano della mente, essa è intuizione immediata della verità, puro essere, vita incorruttibile, realizzazione piena e istantanea, potenza infinita della totalità.

L’«attività» dell’anima muta, dunque, a seconda del piano che la sua oscillazione tocca. Si trasforma in rapporto all’orizzonte verso cui essa inclina il proprio centro. Ogni anima - ripete Plotino come un prezioso monito - «è e diviene ciò che guarda», «è e diviene ciò che ricorda», così come ciascuno di noi si determina in base al livello in cui sceglie di «operare», attivando il «primo» o il «secondo» uomo che sono in lui. Ci nutriamo di immagini e di visioni, ma, appunto, la natura di quanto viene contemplato, di ciò su cui l’attenzione si ferma ha un preciso effetto. Ci identifichiamo, in modo adesivo, talora senza neppure accorgercene, con lo spettacolo su cui il nostro sguardo suole indugiare in maniera più insistita. Diventiamo la visione di cui ci nutriamo, coincidendo perfettamente con il piano a cui l’oggetto della visione stessa appartiene. E tale coincidenza comporta che, in noi, si attivino unicamente le facoltà congruenti con quello stesso piano, lasciando sopiti tutti gli altri tesori che stanno al fondo della nostra anima. Così «ci ricordiamo» solo di una parte, peraltro esigua, di noi stessi, relegando nel più completo oblio l’interezza che ci costituisce. Il contenuto della contemplazione, ciò che decidiamo di guardare, può limitare o espandere il nostro essere, così come può ottundere o potenziare meravigliosamente la memoria della nostra vera identità. Conoscere sé stessi è «ricordarsi» di sé nella completa appropriazione di tutte le facoltà e di tutti i livelli con cui possiamo esercitare la nostra energia, la nostra «attività» di anime. E scegliere di contemplare il «tutto», muovendo lo sguardo dall’alto al basso e dal basso all’alto, per diventare uno con il tutto. Ma «diventare» - come le affermazioni di Plotino rimarcano - equivale semplicemente a «essere». Non c’è un momento, infatti, in cui la nostra anima non sia già quell’unità con il tutto. Non c’è un momento, propriamente, in cui la psiche già non «sia» senza alcuna necessità di «diventare». È sufficiente che non si distragga, che non «si assenti» da sé stessa, perché il suo essere risplenda. «Noi siamo belli quando siamo conformi a noi stessi», ma questa bellezza, questa conformità con sé non è un processo che comporti un punto di arrivo a una meta distante ed esterna, non è una dinamica che implichi un effettivo andare altrove. E tutto già lì, presente nell’anima, ma occorre accorgersene.

Il medesimo paradosso si osserva a proposito della felicità a cui l’essere sé stessi di necessità si lega. Tutti gli uomini desiderano essere felici e tentano in vario modo di perseguire questo risultato con l’acquisizione di beni materiali, con l’impegno nell’azione, con la ricerca del successo o di altre gratificazioni. Si tende a pensare che la «felicità» sia qualcosa da conquistare: un oggetto che manca e deve essere raggiunto, una condizione o uno stato che solo un intreccio di circostanze e di iniziative possono produrre. E, invece, la felicità ci appartiene sempre e non lo sappiamo. La felicità è nostra come nostro è l’essere, senza alcuna necessità di andare altrove o di trapassare in altro da ciò che è il nostro sé.

Secondo Plotino, c’è una parte dell’anima che non perde mai il proprio contatto con la mente e con il regno delle idee. Non tutta la psiche è «discesa» nel corpo, non tutto di essa è immerso nella dimensione del divenire e della materia. La sua sommità - se si può usare tale immagine per comprendere - svetta, infatti, al di sopra del sensibile, al di sopra dello spazio e del tempo, permanendo in una perenne contemplazione dell’eterno e del divino. Il vertice della nostra anima gode sempre e ininterrottamente della felicità della «vita migliore». Siamo «noi» che non vediamo e non sappiamo quale sommo bene sia in nostro perenne possesso. Il che si spiega, di nuovo, con l’orientazione del nostro sguardo e la disposizione del nostro «centro». La parte mediana della psiche è come uno «specchio» a due facce, ove si riflettono tutti gli oggetti e le attività che ineriscono all’anima stessa: da un lato, i dati provenienti dai sensi e dalla realtà esterna, unitamente alle opinioni e ai ragionamenti che essi inducono; dall’altro, i contenuti della contemplazione, le rifrazioni del mondo ideale e il pensiero intuitivo che è proprio di tale livello. Noi percepiamo e diveniamo consapevoli di entrambe le dimensioni nella misura in cui un’immagine di esse si produca in questa superficie interiore, come «quando un oggetto si riflette in uno specchio che sia liscio, lucido e “immobile”: «Se c’è lo specchio, si produce un’immagine. Ma, se non c’è o non è fermo, non vuol dire che l’oggetto che vi si potrebbe riflettere non esista. Lo stesso vale per l’anima. Se la parte di noi ove si riflettono le immagini della ragione e della mente è calma, noi vediamo tali immagini e le percepiamo in modo quasi sensibile così come, insieme a esse, percepiamo l’attività della mente e dell’anima. Ma se lo specchio è infranto (o appannato) a causa di qualche turbamento presente nell’armonia del corpo, la ragione e la mente esercitano la loro attività senza riflettersi in esso». In tale caso, il frutto della contemplazione, il contatto pieno e realizzato con l’essere eterno e con la vita divina, l’attività del vertice dell’anima rimangono del tutto inavvertiti. Ma non per questo cessano di esistere o costituiscono una mera illusione. La felicità di cui pure disponiamo, che da tale attività superiore perennemente scaturisce, resta semplicemente inconscia. O forse sarebbe meglio dire sovra-cosciente, perché, se non la percepiamo, vuol dire che il piano della nostra coscienza è tutto assorbito da quanto avviene nel corpo e nei sensi: vuol dire che la coscienza si è tutta chiusa e identificata nei confini del nostro «secondo» uomo.

Non resta, perciò, che pulire bene tale «specchio», renderlo quieto ed immobile come quei laghi di montagna che riflettono tutto l’azzurro del cielo. Non resta che tenerlo saldamente rivolto verso l’alto perché riceva tutta la luce che da là discende. Adempiere al proprio dovere è ancora - con ulteriore sfaccettatura - questo lavoro teso a rendere la coscienza quanto più verticale ed estesa sia possibile. Allora la nostra felicità e la nostra bellezza non si sfuggiranno, trasformandosi in immagine di assoluta presenza.

Anche a Narciso, figlio di una ninfa dell’acqua, accadde un giorno di specchiarsi, ma il risultato fu alquanto differente dall’azione di quello specchio interiore su cui si fonda la felice realizzazione di sé. Giunto in una radura al centro del bosco, tra erbe alte e rigogliose, il giovane si accostò, per bere, a una fonte, trasparente e tersa come cristallo. Piegandosi sulla superficie dell’acqua, scorse un’immagine bellissima di cui si invaghì perdutamente. Che cos’era mai quella figura così seducente? La desiderava senza sapere di desiderarsi, bruciava di passione senza rendersi conto che egli stesso aveva acceso quella fiamma. Avrebbe voluto abbracciare quel che vedeva. Avrebbe voluto che quella forma incantevole uscisse dall’acqua, per poterla fare sua e coprirla di baci. Finché, a un certo punto, la verità gli divenne manifesta: «Ma quello sono io!». E con ciò la sua disperazione crebbe sino al delirio, per l’impotenza di raggiungersi e di possedersi: mai, infatti, avrebbe potuto staccarsi da sé stesso, per potersi amare come se fosse stato un altro. Non gli restò che struggersi, restando avvinto all’immagine, sino a esalare l’ultimo respiro. Non gli restò che precipitare nella fonte, nel folle tentativo di unirsi all’oggetto del suo amore. Così racconta la storia trasmessa dall’antica tradizione.

Ma, per Plotino, quel mito non concerne tanto il folle desiderio di sé o le torsioni dell’anima umana, quanto piuttosto l’errore di tutti coloro che, addormentati nel sonno del corpo, non colgono l’effettiva struttura della realtà. A tale pericolosa ignoranza la vicenda farebbe simbolica «allusione». Narciso è chi si volge ai beni esteriori, profondendo ogni sua energia per conquistarli. E chi persegue, come un ostinato cacciatore, le bellezze sensibili, perché gli paiono tanto desiderabili, perché gli mancano e vuole averle, riponendo nella conquista di esse la speranza della propria felicità: «Se uno si precipitasse volendo afferrare tali bellezze, come fossero vera realtà, incorrerebbe nel medesimo destino di colui che, volendo afferrare una bella parvenza - come un mito mi pare lasci allusivamente a intendere - s’inabissò giù nella corrente e scomparve. Allo stesso modo, chi è tutto preso dai bei corpi e non li abbandona, sprofonderà, non con il corpo, ma con l’anima, in abissi pieni di tenebra». I corpi e tutte le bellezze dell’universo sensibile non sono che riflesso e immagine del mondo superiore, delle forme eterne, così come «un disegno o un riflesso sull’acqua sono il fantasma di ciò che sembra collocato davanti all’acqua o a chi disegna». Ma quelle forme e quel mondo superiore sono, da sempre, un possesso dell’anima, una dimensione di cui la psiche non solo è partecipe, ma principio costitutivo. Il fatale fraintendimento è non vedere che tutte le cose inscritte nel sensibile, tutto il dominio della natura materiale e dei corpi, sono un prodotto della mente e dell’anima stessa: sono il risultato della contemplazione cui l’uno e l’altra attendono. L’origine della bellezza che accende la passione non appartiene, dunque, a ciò che sta «fuori», ma è nell’intima radice della psiche, perché è lei che ha dato vita ai corpi e li sostiene, è lei che ha generato il cosmo, guardando alle idee. In verità, «tutto è dentro» e il «fuori» ne è solo un’irradiazione. «Noi non siamo abituati - insiste Plotino - a osservare l’interno delle cose e lo ignoriamo e così inseguiamo ciò che è esteriore [...], come se qualcuno, vedendo la propria immagine, la inseguisse, non sapendo da dove proviene». Ma è appunto tale abitudine che deve essere corretta, per non precipitare nella tenebra di Narciso. Chi, rovesciando lo sguardo, conosce sé stesso impara che il mondo non è altro da sé e che non c’è nulla da conquistare, perché ogni cosa è già nella propria anima, ogni cosa è già nel proprio «sé».

Piuttosto che seguire l’esempio rovinoso di Narciso, occorrerebbe modellarsi sul profilo di Odisseo, sull’esempio dell’uomo dall’intelligenza astuta, capace di attraversare la navigazione del sensibile senza farsi catturare da esso, senza cadere negli incantesimi di Circe e Calipso, ma rimanendo ben desto e vigile, orientato verso una meta che gli consentirà di tornare a essere sé stesso. Una meta che coincide con la possibilità di uscire dai flutti e dall’oscurità della materia, con l’ascesa ai piani superiori della realtà: Odisseo è, nella tradizione neoplatonica, l’emblema per eccellenza di chi è riemerso dai flutti della materia e del divenire, di chi si è risvegliato, toccando il porto del mondo divino.

«Bisogna risalire», ammonisce Plotino. Bisogna salpare e «prendere il largo» affinché l’anima, allontanandosi dai corpi, s’innalzi al livello della mente. Per compiere questo viaggio, di cui Odisseo sarebbe simbolo, è necessario procedere al di là delle coordinate dello spazio e del tempo, al di là delle quattro dimensioni cui i nostri sensi e la nostra ragione sono avvezzi, al di là della materia che siamo abituati a toccare. Per suggerirne la natura e insieme per darne un’indicazione d’avvio, Plotino propone di esercitarsi in una sorta di meditazione guidata che è insieme assorta preghiera e propiziazione dell’esperienza: «Crea nella tua anima l’immagine luminosa di una sfera che contenga in sé tutte le cose, esseri in movimento e in quiete, e poi, conservando tale rappresentazione, immagina un’altra sfera, ma questa volta, priva della sua massa: elimina in essa anche lo spazio e la rappresentazione della materia, e stai attento a non farla diversa dalla prima, attribuendole solo una dimensione più piccola. E, a questo punto, invoca il dio che ha prodotto ciò che stai immaginando, e pregalo di venire. Ed egli giunga portando il suo universo e tutti gli dei che sono in esso, dal momento che egli è uno e tutti, e ognuno è tutti».

Il dio che viene invocato è il dominio della «mente», e gli dei che in esso risiedono sono le «idee» stesse. Un universo in cui ciascuna idea è sé stessa e insieme tutte le altre, senza che ciò comporti il venir meno di ciò che la contraddistingue. Un universo in cui la differenza non comporta separazione e alterità come accade nel sensibile: le idee divine sono come tanti «centri» che coincidono in un unico «centro». «Potremmo immaginarla - suggerisce ancora Plotino - come una sfera vivente di una vita molteplice, o ancora come una realtà composta di molti volti e splendente per la loro vitalità, o come una somma di anime pure che convergono in un unico essere». Unità molteplice dell’essere, in cui regna uno splendore infinito e nessuna opacità ostacola la visione, in cui nessuna esteriorità si oppone all’intima conoscenza e nessuna determinazione locale o temporale separa gli esseri: «Tutto è trasparente, nulla è oscuro o impenetrabile, ogni cosa è evidente a ogni altra nel proprio intimo [...], ogni cosa porta in sé tutto e in ogni altra vede tutto: ogni cosa è dappertutto [...] e il fulgore è senza fine», «tutto è simultaneo». La mente è un universo vivente che contiene, a un grado più alto, come archetipi immutabili, le forme di tutti gli esseri e di tutti gli elementi che popolano il nostro mondo: «C’è anche lassù una terra che non è più deserta, bensì più popolata della nostra: essa ha in sé tutti gli animali che quaggiù vengono chiamati terrestri, e ci sono tutte le piante [...], lassù c’è anche il mare e ogni acqua, la cui corrente fluisce di una vita immobile, e tutti gli animali acquatici, e l’aria e i viventi dell’aria». Archivio di ogni possibilità di vita e di manifestazione, pensiero di ogni possibile pensiero, la mente raccoglie in sé, in unità indivisa, tutte le qualità che, nell’universo materiale, si offrono ai sensi: «E come se un’unica qualità possedesse e conservasse tutte le altre: dolcezza mescolata a profumo, gusto del vino mescolato al sapore di ogni altro succo, visioni di colori e sensazioni tattili quante se ne possono conoscere, e pure suoni, tutti quelli che l’udito può cogliere, e ritmi e melodie di ogni genere ». Accedere alla mente equivale a conoscere non solo il proprio sé come forma divina - chi è attivo sul piano della mente è come un «dio» -, ma l’intera realtà in ogni sua articolazione e nell’intensità suprema che la vita raggiunge nella coincidenza con il pensiero. Tale conoscenza si dà come sintesi intuitiva, uguale allo stesso splendore trasparente della mente, senza alcuna suddivisione in parti o sequenze determinate da nessi, senza alcuna espressione in termini distinti. E una forma di sapienza e di visione unitaria che Plotino paragona alla natura dei geroglifici: «Gli Egizi, quando volevano esprimere qualche cosa in base alla sapienza, non impiegavano i segni delle lettere dell’alfabeto [...], ma disegnavano figure e incidevano nei loro templi una figura particolare per ciascuna cosa, mostrando la natura non discorsiva della mente; ogni singola immagine è, infatti, una forma di scienza e di sapienza, corrispondente al suo oggetto, qualcosa di unitario, diverso dal ragionamento e dalla deliberazione». La mente si esperisce e si coglie, senza parole e senza discorso, come un’«immagine sacra» che rifrange l’unità molteplice di altrettante «immagini». Ma, proprio per questo, tutto ciò che si può dire in merito al regno della mente, a proposito del suo contenuto, può avere solo carattere analogico. Plotino ricorre spesso alla parola «come», a segnare l’approssimazione e insieme la distanza di quel che viene affermato: la lettera del testo è un perenne movimento rispetto alla pulsazione dell’evento vissuto al di là della misura umana. Sfera, volto, luce, geroglifico sono unicamente termini simbolici per evocare l’aura di un indicibile.

Chi si fosse avvicinato al divino Glauco, creatura del mare, per ottenere un oracolo dalla sua bocca profetica, avrebbe assai faticato a indovinare il suo effettivo aspetto, a discernere la sua forma primitiva. Tale era stata, infatti, la trasformazione che il suo corpo aveva subito per effetto dei flutti e della perenne immersione nella salsedine: «Parte delle sue membra era stata frantumata dalle onde, parte era stata consumata o del tutto deformata dai flutti, e su di esse si erano aggiunte incrostazioni di conchiglie, di alghe e di pietre, al punto da farlo apparire un mostro invece di ciò che in origine era». Allo stesso modo - aveva spiegato Platone attraverso questo celebre paragone - la nostra anima, immersa nel mare somatico, annegata nel corpo e nella materia, appare come un’irriconoscibile mostruosità, deturpata da concrezioni «ruvide» e «petrose», irrigidita da asperità irregolari, appesantita da quella sostanza «terrosa» che è propria di quanto sta in basso. In tali condizioni non è possibile coglierne l’essenza né, tanto meno, è possibile che la psiche stessa riesca a conoscersi e vedersi. E la conseguenza forse più grave è proprio questo ottundimento, questa paralisi, che affligge le potenze superiori dell’anima, impedendo a esse ogni attività. Per vedere e conoscere, per risalire dalla materia all’anima e dall’anima alla mente, vi è la necessità di una radicale «catarsi», di una drastica purificazione che liberi il prezioso nucleo dell’anima da quell’involucro di impurità. Bisogna eliminare tutte le scorie determinate dalla complice e compiaciuta solidarietà con il sensibile. Bisogna sciogliere quella rigidità e quelle deformazioni che ne ostacolano l’originario movimento, rendendola simile a un «sasso» inerte. E’ necessario - spiega Plotino - procedere alla maniera di un artigiano che, con fatica e sudore, si applica a trarre una bella forma da un irregolare blocco di pietra: «Opera come opera uno scultore con una statua che deve diventare bella: da una parte egli elimina, dall’altra assottiglia, qui leviga, lì ripulisce, finché sulla statua non appare un bel volto; così anche tu elimina ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto, purifica e rendi luminoso ciò che è oscuro e non cessare di scolpire la tua statua, finché il divino fulgore della virtù non risplenderà in te e la temperanza non sarà collocata su un puro piedistallo». Il fulcro del lavoro si riassume nell’atto di «togliere» dall’anima il superfluo e, insieme, tutto ciò che dell’anima è «inclinazione» al somatico. Non perché il corpo o l’universo fisico siano un male, o il male in assoluto, come ritenevano gli gnostici cristiani combattuti da Plotino. Ma unicamente perché le facoltà superiori e lo specchio interiore non possono svolgere integralmente la loro funzione se non in condizioni di isolamento, di semplicità e di purezza. La psiche non deve essere «mischiata» ad altro né da altro turbata nella sua raccolta solitudine: deve trovarsi da sola, in sé e per sé, se il conoscere al grado più alto è qualcosa di «unitario», e tale unità si ottiene attraverso un movimento di ritorno a sé, un rivolgimento che sprofonda nell’interiorità più riposta. E un atto di denudamento, una spoliazione di quei «rivestimenti» di cui ci si era ammantati, consapevolmente o meno, nella «discesa» verso il corpo, in modo analogo a chi si appresti a entrare nella camera più segreta e sacra del tempio: «Egli deve compiere delle purificazioni, spogliarsi delle vesti che prima indossava e ascendere nudo».

L’«eliminare» rende all’anima la sua essenziale bellezza: lo splendore di una «statua», di un’«immagine divina». E così deve essere se essa vuole contemplare, e se intende conoscere il cosmo trasparente delle forme ideali. Perché - secondo l’antico adagio - solo il simile può conoscere il simile, così come l’occhio per fissare il sole deve acquisire, a propria volta, una virtù «solare». Purificata e restituita a sé stessa, la psiche, che si volge alle idee, è, anche lei, pura «idea» eterna e «forma» perfetta dell’essere, che non «declina» più, in alcun modo, dal proprio vertice. E allora diviene capace di ogni visione nella piena energia di quella facoltà che «tutti hanno, ma pochi usano». Diviene, con tutta sé stessa, un «occhio» immateriale che «vede tutto», un occhio «spalancato» sull’invisibile e l’incorporeo: un occhio che attende, all’alba, il sorgere del sole abbagliante dell’essere, per farsi inondare e nutrirsi di quella luce. Come coloro che salendo sulla vetta di una montagna irradiata dal sole assumono quello stesso colore biondo della terra su cui camminano.

Raggiunto tale livello, la «vista» dell’anima diviene ancor più penetrante e potente. Non vi è più, propriamente, un soggetto che si volga a una realtà posta dinanzi a sé, ma si produce un vedere che trasporta l’oggetto direttamente dentro l’occhio veggente, dentro l’anima contemplante, in un processo di compiuta identificazione: Ecco quel che chiamiamo contemplazione: «Non vi è più da un lato chi contempla e dall’altro la cosa contemplata, come due realtà l’una esterna all’altra, ma il veggente dalla vista acuta ha l’oggetto dentro di sé [...], occorre trasferire, infatti, nel proprio intimo ciò che si vede e vederlo come una cosa sola con sé stessi, vederlo come sé stessi, quasi che uno, posseduto da un dio, da Apollo o da una delle Muse, provocasse dentro di sé la contemplazione di quel dio, quand’avesse la forza di guardare, appunto, il dio nella propria interiorità». Ma, allora, l’anima, congiuntasi e identificatasi con il dominio della mente, è pronta a compiere l’ultima transizione, l’ultima tappa del proprio viaggio. È pronta a slanciarsi verso l’uno, a innalzarsi verso di esso. Tuttavia, perché ciò avvenga, è necessario portare il denudamento a un esito radicale.

«Elimina tutto», intima Plotino: l’uno non è pensiero, non è essere, non è forma, e l’anima che voglia accostarlo deve, allo stesso modo, spogliarsi di ogni forma e di ogni contenuto. Deve cessare di essere «idea» e «mente», se vuole raggiungere ciò che eccede l’una e l’altra, in quanto ne è causa e principio. Deve diventare «informe» come «informe» è l’uno: trasformarsi in «pura luce» così come l’uno è «luce» infinita, assolutamente priva di misura, che non può essere in alcun modo localizzata né circoscritta da alcuna figura, che non si sa da dove emani e da dove arrivi, che non fa vedere alcun oggetto, perché, là, non c’è propriamente nulla da vedere, se non il mezzo luminoso stesso che dona l’essere e la conoscenza. Questo è, in sintesi, il «fine» dell’anima: «Toccare quella luce e vederla per mezzo di quella luce stessa [...] la luce da cui l’anima è illuminata è infatti la luce stessa che deve vedere».

È un punto su cui Plotino ritorna insistentemente nel tentativo di evocare che cosa accada in quegli istanti. Chi è giunto sulla soglia di tale esperienza - spiega altrove - è «come sollevato da un flutto che si gonfia e allora vede improvvisamente e non vede come: la visione gli riempie gli occhi di luce, ma non fa vedere altro attraverso di essa; ciò che vede è la luce stessa [...] uno splendore che genera», lo splendore da cui promana ogni realtà.

Ma anche il «vedere», così spesso ripetuto, non è forse un termine adeguato o sufficiente per rendere il nucleo di quell’evento. Si tratterebbe piuttosto di un «contatto» ineffabile, di un «toccare», come di due centri che vengano a coincidere o di due amanti che si fondano nell’estasi d’amore. Contatto intimo e profondo nella solitudine di un incontro «da solo a solo», ove ogni pensiero viene meno, ogni distinta identità si dilegua e tutto si sospende nell’oltre di un’unità assoluta.

«Chiunque abbia visto sa ciò che dico», osserva Plotino. E non potrebbe essere altrimenti dato che quanto si afferma nelle pagine delle Enneadi rinvia incessantemente alla memoria vissuta e alla necessità di provare e compiere, soggettivamente, il medesimo percorso. Si comprende, se di comprensione è giusto parlare, solo facendo. Per questa stessa ragione, subito dopo aver tratteggiato il conseguimento dell’uno, Plotino ricorda la «famosa prescrizione dei misteri: non divulgare nulla ai profani». Non perché ci sia un segreto da custodire gelosamente, escludendo i non iniziati, o perché si voglia proibire qualsiasi discorso intorno al divino. Le Enneadi, d’altro canto, non parlano che di questo. La questione è un’altra: solo conoscendo sé stessi, solo «vedendo» e «toccando» da sé, è dato cogliere il valore e il fine del viaggio, è dato sperimentarne la verità. «La visione è difficile da esprimersi»: questo è l’unico indicibile segreto. (Si veda anche Giuliano Kremmerz, La Scienza dei Magi, Vol. II)

La sapienza è un «palazzo» di cui bisogna percorrere, ordinata-mente, le diverse stanze, osservando, con i propri occhi, che cosa ciascuna contenga e che risonanza abbia in noi, fino a che vi sia la possibilità di incontrare «quello» che della dimora è signore. L’incontro può essere fulmineo e sfuggente, a volte inatteso, a volte lungamente bramato, ma vi è sempre la possibilità di tornare in quella stanza più segreta, di tornare da «Lui». Basta ridestare la virtù interiore, già ampiamente sviluppata, e concentrarsi nuovamente sull’«ordine» del proprio «sé», per ritrovare la «leggerezza» necessaria al volo dell’anima: «Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: distacco dalle cose estranee di quaggiù, vita che non si compiace di quanto è terreno, fuga da solo a solo».

L’opera di Plotino, così come ora la conosciamo, è frutto del lavoro editoriale del suo allievo Porfirio, che decise di mettere ordine nelle pagine del maestro, disponendole in una sorta di sequenza ideale di temi e di questioni, dai trattati concernenti l’uomo e la virtù a quelli che vertono sull’ipostasi dell’uno. Plotino, in verità, non si curava molto dei suoi scritti. Non aveva l’abitudine di rileggerli né di correggerne la forma o l’ortografia. Scriveva con entusiasmo, in cui l’espressione del pathos, prendeva spesso il sopravvento su ogni sistematicità espositiva. Quelle righe erano il semplice materializzarsi su un piano inferiore di quel pensiero vivente che lo possedeva. E solo di questo gli importava veramente. Quando ne parlava, durante le lezioni, una luce gli brillava sul viso e una sorprendente grazia sembrava attraversare il suo sembiante. Un giorno, Amelio, un altro suo discepolo, fu preso dall’idea di compiere un gesto analogo a quello che, tanti secoli prima, aveva condotto Cherefonte a Delfi, per interrogare l’oracolo sul conto di Socrate. È storia nota: la Pizia aveva risposto che Socrate era il più sapiente degli uomini, dando l’avvio a quella missione di risvegliare gli Ateniesi, che egli non avrebbe deposto se non con la morte. Nel caso di Plotino, Amelio aveva una più specifica curiosità da rivolgere al dio: voleva sapere «in quale luogo fosse la sua anima», ovvero a quale rango essa appartenesse dopo che questi aveva abbandonato le proprie spoglie mortali. Apollo non si fece troppo pregare e, nell’ampio responso, affermò senza reticenze che Plotino era ormai un daimon, un essere divino partecipe della sorte degli dei, del tutto sciolto dai vincoli della necessità che altrimenti gravano sui mortali: «Mai il dolce sonno chiuse del tutto le tue palpebre. Tu le hai tenute aperte, squarciando l’oscura cortina di nebbia, e, portato nel vortice, hai scorto molte bellezze che difficilmente sarebbero visibili ad altri cercatori della sapienza [...], ora sei giunto ormai alla schiera dei demoni [...], là dove dimorano il santo Platone e il bel Pitagora e quanti compongono il coro dell’immortale Amore». Il viaggio si era concluso con successo. Lasciando la condizione umana, Plotino era divenuto ciò che era. Aveva realizzato il proprio sé divino, contemplando lo specchio dell’anima e della mente, come Socrate aveva, un tempo, raccomandato a Alcibiade.

Fine

Fonte: Davide Susanetti, La sapienza degli dei, Misteri antichi, sapienza e percorsi di Iniziazione, Carrocci, 2017

Davide Susanetti è professore di Letteratura greca presso il dipartimento di Studi linguistici e letterari dell'Università di Padova. Si occupa prevalentemente di tragedia greca, Platone, letteratura tardo antica, pensiero esoterico e simbolico.


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