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Il naufragio


Mari
 Mari
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Il naufragio

L'ultimo libro di Alessandro Leogrande, che racconta lo speronamento della nave Kader i Rades, nel 1997, da parte di un'unità della marina italiana che causò la morte di almeno 81 persone

Come spiegare la politica dei respingimenti a mio figlio. Potrebbe essere questo, parafrasando Ben Jelloun, l'altro titolo di Il naufragio, l'ultimo libro di Alessandro Leogrande, edito da Feltrinelli. La storia di una vergogna, la storia di una strage che, nella migliore tradizione italiana, si nutre di depistaggi e insabbiamenti, cavilli legali e biblici tempi giudiziari, dove come nella nebbia scompare sempre la giustizia.

Nei pressi di Brindisi, a Forte a Mare, per anni un relitto ammalato di oblio è rimasta l'unica testimonianza di una pagina nera della storia di questo Paese. Il relitto è quello della Kater i Rades, piccola e vecchia motovedetta albanese, naufragata al largo delle coste italiane alle 18.57 del 28 marzo 1997. Era stipata dei sogni di tante persone, partite da Valona, in Albania, per sfuggire a una sanguinosa guerra civile. Ne sono morti 57, altri 24 non sono mai più stati trovati. In 34 sono sopravvissuti.

Leogrande raccoglie un testimone, quello della scrittura con una coscienza. Civile, in primis, ma anche politica. Una scrittura che negli sguardi dei parenti delle vittime, dei dispersi e dei sopravvissuti legge la domanda più semplice e disperata: giustizia. Perché la Kater i Rades non è stata vittima di una sciagura naturale, non è affondata per il peso di un carico troppo pesante. E' stata speronata da una nave della Marina militare italiana. La corvetta Sibilla.

A scriverlo fa quasi paura. Un simbolo di uno Stato, un suo pezzo, come un braccio per un corpo, si è levato a spezzare le vite di innocenti. Il motivo? La politica, con ogni probabilità. Era l'alba della retorica cialtrona e aggressiva della Lega, quando l'ex presidente della Camera Irene Pivetti dichiarava in televisione, il giorno prima della tragedia, che per fronteggiare l'invasione degli albanesi era il caso di ributtarli in mare.

Quello che la Legge non è riuscito a dimostrare è che al di là delle responsabilità del capitano albanese della Kader i Rades e del capitano della Sibilla, per altro uscito quasi pulito dalla vicenda, non ci sono altri colpevoli. Come se il governo del primo ministro Romano Prodi, del ministro della Difesa Beniamino Andreatta, del ministro degli Esteri Lamberto Dini non fossero corresponsabili di una politica volta all'harassement, come lo chiamano, per mezzo di ''azioni cinematiche di disturbo e di interdizione''. Parole, vuote e cattive, per non dire respingimento.

Come se non fosse una colpa immaginare un inseguimento, di navi militari, contro una carretta del mare, stracarica di donne e bambini. Come se già non fosse una vergogna anche solo pensare che per un bieco calcolo elettorale bisognava inseguire, ''finanche quasi a toccare'', come ha denunciato un ufficiale della Marina che ha pagato la sua onestà, e magari ''filare il cavo'', quindi bloccare il motore delle barche dei disperati albanesi, senza chiedersi che diritto dà una frontiera. Di sicuro non quello di uccidere. Cambiano gli attori protagonisti, ma non il copione. Prodi, Andreatta e Dini diventano Berlusconi, Maroni e Bossi. Ancora respingimenti. E l'ipocrisia della politica.

''Sono cose indegne di noi e noi dobbiamo reagire a questo. Vorrei che tutti gli italiani avessero avuto l'incontro che ho avuto io con questa gente che ha perso tre figli, che ha perso la moglie, che sperava di venir qui a trovare un Paese libero, democratico in cui poter lavorare, in cui potersi affermare''. Non sono parole di padre Zanotelli o di un no global. Le ha pronunciate, a poche ore dalla tragedia, un Silvio Berlusconi commosso fino alle lacrime, a Brindisi, nella caserma Carafa, dove erano stati alloggiati i superstiti della nave speronata dalla Sibilla.

All'epoca capo dell'opposizione, si produce in una speculazione politica (con tanto di orologi regalati ai sopravvissuti e di posti promessi a casa sua) che si denuncia in tutta la sua meschinità negli occhi di tutti coloro che sono stati ricacciati verso altre guerre, altre disperazioni. I respingimenti verso la Libia, orgoglio del Tg1 delle venti, che non raccontavano le carceri di Gheddafi nelle quali sprofondavano - con i soldi dei contribuenti italiani - uomini, donne e bambini, protagonisti inconsapevoli di altre 'invasioni' inventate.

Della Kater i Rades non resterà nulla, perché è mancato l'accordo anche per un monumento. Ci sono solo delle tombe, al cimitero di Valona, molte delle quali vuote. Qualche risarcimento concesso, qualcuno negato. E resterà questo libro, che ha dato una voce a tutti coloro, sommersi e salvati, a cui nessuno ha mai spiegato che i meandri della politica sono, a volte, più profondi del mare.

Christian Elia
http://it.peacereporter.net/articolo/31733/Il+naufragio


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