E pensare che col consumismo gli Stati Uniti hanno costruito il loro impero in tutto il pianeta. Lo scriveva qualche anno fa la storica Victoria De Grazia in un libro che si intitolava L'impero irresistibile. La società dei consumi americani alla conquista del mondo (uscito per Einaudi). Il modello americano è stato molto più di una potente miscela di forza militare e dominio economico. La sua egemonia (di cui tutto sommato si parla molto poco) ha funzionato molto di più quando non si è limitata a esportare il proprio sistema politico negli altri paesi con le armi. L'America più potente è quella che ha conquistato l'immaginario - oltre che i mercati - che ha dosato il napalm e i colpi di stato con il fascino seducente di cui era dotata la propria way of life . Uno stile di vita, per l'appunto, una filosofia esistenziale, un approccio al tempo che era la completa negazione dell'ascetismo e del sacrificio, la rivalutazione del consumare ora e qui - e così via per sempre - al posto dell'etica del risparmio. L'America ha vinto perché - direbbe il filosofo Slavoj Zizek - ha imposto al mondo l'imperativo «devi godere» (è appena uscita per Bollati Boringhieri la summa del suo pensiero, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo ).
Ma oggi il meccanismo si è inceppato. Il consumismo come l'abbiamo conosciuto fino a oggi, inizia a perdere colpi nella stessa patria che l'ha generato e poi esportato nel mondo. Sono lontanissimi i tempi in cui Gramsci scriveva Americanismo e fordismo . Allora la società americana si basava sullo scambio tra una disciplina totale pretesa dagli operai al regime di fabbrica e un sistema di alti salari che poi si traducevano in domanda e consumi. Ma sembra lontano anni luce anche il meccanismo in base al quale, fino a pochissimo tempo fa, l'indebitamento privato della società americana e la corsa oltremisura al consumismo pareva trainare il mondo intero verso una prosperità economica senza fine. La spirale perversa dei ceti popolari che si indebitavano molto più di quanto non consentissero i salari bassi si è spezzata. Case in vendita, proprietari insolventi che non riescono a pagare la rata del mutuo, file di Suv che nessuno può comprare, annunci di vendesi ovunque. E' la fine di un sogno o forse di un'economia drogata, in ogni caso la fine del circolo vizioso indebitamento-consumismo. Non poteva dirlo più chiaramente il presidente Obama - la notizia era sui giornali di ieri - che in tasca ha già il pacchetto di proposte per il G-20 (al via da domani). «Non possiamo tornare a un'epoca in cui la Cina e la Germania cu vendevano tutto, noi c'indebitavamo coi mutui e le carte di credito, e non riuscivamo a esportare verso quei paesi».
Cosa è accaduto? Per capirne di più bisognerebbe dare uno sguardo agli scaffali delle librerie. Il nuovo numero di Quale Stato - la rivista trimestrale della funzione pubblica Cgil - si intitola Antologia della crisi globale (pp. 416, euro 18,10) e raccoglie scritti di economisti di vario orientamento (Brancaccio, Leon, Spilimbergo, Stieglitz, Galbraith, per citarne alcuni), tutti apparsi fra il 2008 e il 2009, nel pieno del manifestarsi della catastrofe finanziaria. «Questa crisi è americana» nonostante abbia colpito in tutto il mondo, «perché solo gli Stati Uniti - scrive Massimo Florio - erano nella posizione di finanziare l'indebitamento, grazie al fatto che il dollaro, prima e dopo la creazione dell'euro, e persino durante la crisi stessa, è rimasto la valuta di riserva del mondo». Ma per capirla fino in fondo bisogna andare al di là delle apparenze. Tanto per cominciare i titoli tossici non c'entrano niente con la crisi che è stata provocata piuttosto dall'insufficienza della domanda effettiva. «La domanda negli Usa da tempo non era più trainata da investimenti fissi, esportazioni e spesa pubblica, ma esclusivamente dai consumi "a debito", cioè da consumi privati sostenuti da prestiti alle famiglie». E non poteva essere altrimenti, «il ricorso al debito era necessario perché il reddito corrente risulta compresso da decenni di politiche che hanno indebolito la base salariale dei redditi».
Non basta essere contemporanei di una crisi per capirla. A volte, semplicemente, si può scambiare la periferia di un problema col suo centro oppure invertire l'effetto con la causa. Vale soprattutto per le tante spiegazioni a carattere "psicologico" che tirano in ballo la cosiddetta «crisi di fiducia sui mercati» o i già citati «titoli tossici» che nascosti chissà dove nella contabilità delle banche, avrebbero alimentato «l'incertezza sulla solvibilità dei vari operatori economici». Le cause vanno cercate a un livello più profondo - è il leit motiv dei saggi raccolti nel volume - in processi che sono durati anni. In questo tempo le aziende hanno smantellato il modello della grande fabbrica unificata. Si sono esternalizzate e trasferite in paesi a manodopera a più basso costo. Il lavoro si è frammentato, «soggetti aventi le stesse qualifiche e le medesime mansioni - scrivono Emiliano Brancaccio, Stefano Fassina e Paolo Leon - possono ormai operare fianco a fianco sotto condizioni contrattuali e datori di lavoro completamente diversi tra loro». E poi privatizzazioni, tagli a pensioni, sanità e scuola, flessibilità, crisi di rappresentanza dei sindacati sono andati a pesare su lavoratori divisi, isolati, invisibili. «Oggi diventa evidente ciò che sappiamo da sempre: un mondo di bassi salari risulta strutturalmente instabile. Le ridotte retribuzioni dirette e indirette hanno determinato o elevata domanda interna a debito (Stati Uniti) o bassi livelli di domanda interna (Europa, Giappone, economie emergenti) e ricerca di uno sbocco esterno per le proprie merci». Gli Stati Uniti hanno funzionato come una spugna in grado di assorbire le eccedenze produttive degli altri paesi. Ma perché il sistema andasse avanti bisognava spingere i consumi al parossismo (dalle case alle automobili ai prodotti tecnologici) mentre i salari restavano bassi e i redditi da capitale salivano (su questo il saggio di Giuseppe Travaglini). L'unico modo era alimentare un debito privato gigantesco capace di finanziare una spesa per i consumi oltremodo superiore ai redditi. Si poteva andare avanti finché si mantenevano aperti i rubinetti del credito. Ma quando la politica monetaria è entrata in restrizione i proprietari di case con mutuo sono diventati insolventi. Stieglitz calcola che negli Usa i consumi potrebbero calare del 5-6 per cento rispetto al Pil e che milioni di persone perderanno la casa perché non più in grado di pagare i mutui.
Sulle terapie solo qualche cenno. Ci sono autori come Schooner e Yukins che puntano sul rilancio dello Stato e della domanda pubblica di beni di investimento e servizi, soprattutto in infrastrutture. Ma anche chi, come Boltho e Carlin, mette il dito sulla piaga. Da troppo tempo ormai la politica ha spazzato via la questione salariale dal dibattito pubblico. Sarebbe ora di farcela ritornare.
Tonino Bucci
Fonte: www.liberazione.it
23.09.2009
"i titoli tossici non c'entrano niente con la crisi", e questo è il vero motivo per cui le varie banche centrali continuano a versare soldi a palate per tentare di appianare quei buchi.
Altra perla: "Non basta essere contemporanei di una crisi per capirla".
Non occorre essere giornalisti per scrivere puttanate, ma aiuta molto.
Non mi ero reso conto che Liberazione fosse diventato un covo di tossici (titoli). Complimenti per il nuovo taglio editoriale...