Notifiche
Cancella tutti

«Abbandonati qui a marcire nel Delta»


Tao
 Tao
Illustrious Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 33516
Topic starter  

La lunga attesa a Port Harcourt, un viaggio in barca nella notte a velocità pazzesca sull Delta del Niger, infine l'incontro. L'inviato del «manifesto» è riuscito a parlare con Francesco Arena, Cosma Russo e Imad Saliba, i tre tecnici dell'Agip da due mesi nelle mani dei guerriglieri del Mend. I tre sono stanchi, delusi, scoraggiati. Accusano il governo italiano «che non fa niente» e l'Agip «che ci lascia in questa giungla». La rabbia dei tre tecnici rapiti in Nigeria, dopo sessanta giorni di prigionia nella giungla. Senza sapere niente della trattativa per liberarli, ma con una certezza: i negoziati sono a un punto morto. Il libanese Saliba: "Non so nemmeno se il mio governo sappia che c'è un cittadino in ostaggio"

«Siamo delusi. Delusi dal governo italiano, che non sta facendo nulla per tirarci fuori da qui. Delusi dalla nostra compagnia, che ci ha lasciati marcire in questa giungla. Delusi da questa situazione, in cui ci troviamo incartati». Quello di Francesco Arena, il tecnico dell'Agip rapito il 7 dicembre scorso dai ribelli del Movimento per l'emancipazione del delta del Niger (Mend), è un grido di dolore. E di sdegno: «Il nostro governo e l'Agip si sono messi nelle mani del governo nigeriano, che non potrà mai cedere alle domande dei sequestratori». Intorno, in uno dei mille rivoli del fiume Niger, a un'ora di barca da Port Harcourt - la capitale del Rivers State e il principale centro abitato del Delta del Niger - un gruppo di miliziani armati sorveglia a vista Arena e gli altri due ostaggi, seduti su una panchetta al centro di una speedboat.

Il manifesto ha potuto incontrare i tre tecnici dell'Agip-Eni - i due italiani Francesco Arena, Cosma «Mimmo» Russo e il libanese Imad Saliba - ancora nelle mani dei ribelli del Mend. Fisicamente in buone condizioni, i tre appaiono provati dalla loro vita in cattività. Chiedono notizie su eventuali trattative. Sono stanchi e, soprattutto, non vedono vie d'uscita. L'incontro è avvenuto nel cuore della notte nel bel mezzo del fiume Niger, in un affluente secondario coperto dalle mangrovie.
Tutto è cominciato da una telefonata. In una stanza d'albergo di Port Harcourt, la chiamata attesa da due giorni arriva alle otto di sera di domenica. «Sono l'autista incaricato di portarti al fiume. Tieniti pronto». Pochi minuti dopo, una macchina con i vetri scuri si presenta sotto all'hotel. Due uomini all'interno: uno è ben vestito, ha un cappello e una giacca. L'altro è più casual: maglietta nera, muscoli in risalto. Non un saluto. Solo un ordine: «Entra». Per tutto il tragitto, neanche una parola. I due si scambiano apprezzamenti del tutto incomprensibili. Bisbigliano tra loro. A tratti ridacchiano. Finché l'uomo robusto allunga un cellulare: «Prendi la chiamata». Dall'altra parte dell'etere, una voce profonda si presenta con un frase rassicurante: «Welcome to Nigeria». E' Jomo Gbomo, il capo del Mend. Questo leader senza volto usa con grande perizia le nuove tecnologie, trasformando la lotta della sua organizzazione in una battaglia globale. Fin dall'inizio del sequestro avevamo chiesto a Jomo di poter venire nel Delta, per vedere le condizioni di vita della gente e incontrare gli ostaggi. Dopo una lunga attesa è arrivato il via libera: «Da oggi in poi, puoi venire quando vuoi. Siamo felici di accoglierti qui nella nostra regione», aveva scritto alla fine di gennaio.

Sentire la sua voce fa un effetto strano. Da quando è nato il Mend, intorno al dicembre 2005, nessuno ha mai incontrato Jomo. Lui comunica, per sua stessa ammissione, solo per posta elettronica. Ma questa è un'occasione particolare: Jomo ci tiene a dare le sue rassicurazioni all'ospite straniero. E a ribadire chiaramente le sue condizioni: «Potrai vedere i tre per circa mezz'ora. Fare loro tutte le domande che vorrai. Riprenderli con la telecamera e fare foto. Potrai parlare con i miei uomini. Ma non voglio che li filmi o li fotografi a volto scoperto». Dà poi alcune indicazioni logistiche. «Ti verranno a prendere con una speedboat. Ti porteranno da loro e, quando avrai finito, ti riporteranno al tuo albergo. La tua sicurezza è garantita. Sei in ottime mani. Good luck».
Dopo alcuni minuti la macchina si ferma ai bordi di un dirupo. L'uomo robusto scende e apre la porta posteriore. Fa segno di seguirlo. Ci inoltriamo in un sentiero in terra battuta. La guida fa strada con la torcia: attraversiamo una grande bidonville, tra la gente incuriosita dalla presenza dell'oibo («il bianco»). Le case sono affastellate le une sulle altre, i tetti di lamiera. Alcune persone dormono a terra, sul selciato. A tratti, nei vicoli più stretti, dobbiamo stare attenti a non calpestarle. Un lezzo mostruoso ricopre l'aria circostante: l'immondizia è tutt'uno con le case e le persone. I tetti in lamiera sprigionano calore, anche se è sera. L'umidità è ancora più insopportabile che nella «città normale». L'aria sembra attaccartisi addosso, come un adesivo.

Sui bordi dei vicoli, qualcuno abbozza un saluto. Ma nessuno osa avvicinarsi: la guida sembra suscitare un rispetto reverenziale. Dopo una breve peregrinazione tra la baraccopoli, arriviamo infine all'embarcadero. «Togliti le scarpe e i calzini», intima l'uomo. Ci immergiamo nell'acqua fino ai polpacci. Intorno, una grande discarica. Il fondo melmoso indica che stiamo camminando su un letto di rifiuti. Nel buio, i piedi sgusciano sopra sacchi di plastica ripieni di chissà che. «Attento alle buche», dice l'uomo. «Segui attentamente i miei passi». La guida non fornisce spiegazioni, ma è chiaro che tutto questo giro serve a non mostrare l'ospite bianco a occhi indiscreti, a non risvegliare i sospetti della polizia o dell'esercito. Jomo l'aveva detto prima della partenza: «L'incontro avverrà di notte». Al di là della melma e di una camminata di una cinquantina di metri che sembra interminabile, ci aspetta una speedboat, con tanto di guidatore. I due si scambiano un saluto. Poi fanno un semplice cenno. Si sale e si parte.
Intorno, la luna quasi piena colora di una luce irreale le rive dell'imponente fiume Niger. L'acqua è quieta, si sentono solo gracidare animali non meglio identificati. Nel buio, il guidatore accende il motore e comincia a cavalcare le onde. La barca si impenna per la velocità. A tratti trema. Sinistri scricchiolii ogni tanto si alzano dallo scafo. Ma il guidatore sa il fatto suo: sembra conoscere le anse e i fondali del fiume come le sue tasche. Ogni volta che incrociamo qualche battello, allarga il giro. Probabilmente per nascondere il passeggero oibo. Varie volte cambia direzione. Si inoltra in rivoli secondari. Ne riesce e poi riparte. Manovre diversive per far perdere l'orientamento allo straniero, giri necessari per evitare le secche? Niente domande. Sulle rive e in mezzo al fiume, enormi fuochi si ergono maestosi. Sono la conseguenza dello sfruttamento del petrolio e del gas: le fiamme sono altissime, bruciano la foresta di mangrovie. Il letto d'acqua del fiume si confonde con le lingue di fuoco. Interpellata, la guida risponde laconica: «E' il petrolio». E non aggiunge una parola. Il paesaggio intorno è paradiso e inferno allo stesso tempo: la bellezza quasi fiabesca della mangrovie che si allungano nell'acqua e il minaccioso avanzare del fuoco. Sono colonne rosse incandescenti che tagliano in due il cielo scuro. Fanno paura e attraggono allo stesso tempo. Incrociamo alcuni battelli da trasporto. Superiamo una serie di installazioni petrolifere. Scorgiamo da lontano alcuni villaggi.

Tutto tace: nel Delta non c'è elettricità, nonostante l'abbondanza di oro nero. Le comunità vivono in condizioni miserabili. Costrette a osservare nell'impotenza il loro ambiente degradarsi per lo sfruttamento indiscriminato del greggio. Costituita in maggioranza dagli ijaw, la popolazione di questa regione ricchissima - da cui proviene la stragrande maggioranza del petrolio nigeriano - è stata sempre tenuta in disparte. Le ras
sicurazioni del presidente Olusegun Obasanjo, che ha promesso sviluppo e lavoro per placare le ire dei giovani, non hanno convinto i combattenti. Che proseguono con le loro azioni di guerriglia e con i rapimenti. Le stesse elezioni di aprile, in cui si voteranno il presidente e i governatori dei 36 stati che compongono la federazione nigeriana, sono accolte con scarso entusiasmo. «Si tratta di una selezione, non un'elezione», sostiene un adagio che circola con insistenza a Port Harcourt, secondo cui è lo stesso Obasanjo e la cricca al potere a decidere chi sarà eletto e dove.

La barca procede spedita. Poi, a un tratto, il conducente urla qualcosa. Si avvicina a una riva. E' esattamente un'ora che viaggiamo sul fiume. La guida fa un segnale con la torcia. Rispondono altri segnali dalla riva. I due parlottano tra loro. Il timoniere gira la barca, fa rollare il motore e torna indietro. Due minuti dopo, si infila in un affluente, avanza altri duecento metri e spegne tutto. Rimaniamo dieci minuti fermi, in mezzo all'acqua, in preda a zanzare fameliche. Il silenzio ha un che di irreale: si sentono in lontananza versi di uccelli, qualche bestia che si muove tra le mangrovie. La luna si riflette sull'acqua. Finché non si sente il rombo di un motore. Una barca si avvicina. Nuovo scambio di segnali luminosi. A torcia risponde torcia. Ci siamo: due barche vengono verso di noi, si scorgono alcune sagome. Nella notte, si distinguono uomini incappucciati armati di tutto punto. E, al centro, tre persone dalla carnagione chiara. Sono gli ostaggi, che si guardano tra loro e scrutano sulla nostra speedboat, interdetti dalla presenza dell'altro oibo. La barca accosta. I ribelli fanno salire chi scrive nella loro imbarcazione. Saluti e spiegazioni. «Buonasera, come va?». Francesco Arena, Cosma Russo e Imad Saliba sono visibilmente sorpresi. «Non ci avevano detto che avremmo incontrato un giornalista. Ci hanno solo intimato di salire sulla barca». Anche loro hanno fatto un lungo tragitto. Hanno viaggiato per circa un'ora sul fiume, probabilmente in direzione opposta alla nostra. Hanno la barba lunga. Lo sguardo affaticato, ma vivido. Il morale molto basso. Chiedono in coro: «Ma l'Italia che fa?».

I ribelli si fanno da parte. Permettono di parlare in italiano. Di filmare. Di fare fotografie. Persino di usare il microfono. Arena è il primo a dire la sua. Esterna tutta la sua ansia e la sua rabbia: «Non ne possiamo più. Siamo stanchi di questa situazione. Ma il governo italiano e l'Agip cosa fanno? Ci hanno abbandonato. Sono due mesi che stiamo così, bloccati nella giungla. Vogliamo tornare a casa». L'uomo è esperto del luogo, sa cosa vogliono i ribelli. E teme che il governo nigeriano non accontenterà mai le loro richieste. «Siamo in una trappola», dice. «I militanti ci trattano bene ma non è facile stare nella giungla. Non c'è acqua, se non quando la portano da fuori. L'ultimo bagno l'ho fatto venti giorni fa». Arena lamenta la mancanza di notizie, il fatto di rimanere così sospeso: «Non sappiamo niente. Ogni tanto sentiamo la radio. Ma le notizie sono confuse, contraddittorie. Una volta dicono una cosa, un'altra il contrario. Non sappiamo cosa pensare. Una sola cosa è sicura: ci hanno abbandonati a noi stessi». La liberazione di Roberto Dieghi, avvenuta il 18 gennaio scorso, non ha infuso ottimismo nel gruppo. Anzi. «Di Dieghi si sono liberati perché era un peso. Soffriva di ipertensione e rappresentava un problema. Per questo l'hanno rilasciato. Noi, invece, sembriamo destinati a rimanere qui ad eternum».

Cosma «Mimmo» Russo non è più ottimista. «Sono sessanta giorni che stiamo qui. Cosa dobbiamo pensare? Nessuno presta attenzione alla nostra situazione. Ma in Italia che si dice?». Anche Russo ha parole di sdegno per quella che evidentemente considera l'inazione del governo italiano e dell'Eni. «Devono fare pressioni sul governo nigeriano, affinché accolga le richieste dei militanti. Devono fare in modo che il presidente venga loro incontro. Altrimenti noi restiamo a marcire tra le mangrovie». Gli fa eco Arena: «Questa gente vuole una più equa distribuzione dei proventi del petrolio, che viene sfruttato da anni sulla loro terra senza alcuna contropartita. Bisogna accontentarli».

Il libanese Imad Saliba manda prima di tutto un saluto alla famiglia. «Non so nemmeno se il governo libanese sia al corrente che c'è un cittadino in ostaggio in Nigeria. Probabilmente hanno altre priorità», afferma con un sorriso un po' tirato. Anche lui, dipendente di una ditta di catering che operava all'interno del terminale di Brass al momento dell'attacco del Mend, si appella all'Eni. «La compagnia deve fare pressioni su Abuja. Il governo nigeriano, l'Agip fanno tutti affermazioni rassicuranti. Ma in realtà la trattativa è in stallo completo». Saliba, Arena e Russo dicono di avere informazioni frammentarie, di cogliere solo le poche parole che ogni tanto gli dicono i sequestratori. Ma di una cosa sono tutti e tre convinti: «Il negoziato è a un punto morto. La liberazione è lontana».

Sono passati circa tre quarti d'ora da quando ci siamo fermati. «E' ora di andare», dice l'uomo robusto. Il conducente accende il motore. Riparte a tutta velocità. Più veloce ancora dell'andata. Schizzi d'acqua entrano nello scafo. Ma nessuno si preoccupa. La guida addirittura comincia a lavarsi i piedi nell'acqua. Il timoniere si comporta come prima: vira, procede, cambia direzione. A tratti spegne il motore e lo riaccende. Finché in lontananza non si vedono gli alti edifici del centro di Port Harcourt. Accostiamo in un posto diverso da quello della partenza, accanto a un enorme scafo arrugginito. Saliamo sulla terraferma, senza dover passare per le sabbie mobili di rifiuti. Siamo ai margini della bidonville. La guida chiama un numero con il cellulare. Dopo cinque minuti, arriva un uomo armato di torcia. Una guida della guida, che si inoltra per i vicoli tortuosi della baraccopoli. All'interno della case in lamiera tutto tace: è l'una e mezza di notte e qui le giornate cominciano presto. Superiamo varie stradine, sempre attenti a non calpestare uomini addormentati per terra. Poi una scala ci riporta in superficie, allo stesso sentiero di terra battuta dell'andata. La macchina ci aspetta nel punto in cui aveva lasciati. Questa volta, il guidatore si mostra molto più amichevole: «E' andato tutto bene?», chiede, porgendo una bottiglia d'acqua. Poi dice di lavorare per il governo di Bayelsa e di essere coinvolto nelle trattative per la liberazione dei tre tecnici. «Saranno rilasciati?». «Sì, presto. Siamo vicini alla soluzione», afferma. Ma non sembra crederci neanche lui. Subito dopo, i due cominciano a parlare tra loro. E si ripete la scena di quattro ore prima. L'uomo robusto porge il cellulare. E' Jomo. Sui negoziati e sull'eventuale rilascio, non vuole dilungarsi. «Al momento opportuno, manderò una comunicazione. Ad ogni modo, rimarremo in contatto». Altri dieci minuti e arriviamo all'albergo. La macchina parcheggia all'interno. L'uomo robusto abbozza un sorriso. Guarda fisso negli occhi l'oibo che ha trascinato in giro per ore nella notte. E esclama: «Ora siamo amici. Se torni da queste parti, fatti vivo».

Stefano Liberti
Fonte: www.ilmanifesto.it
6.02.07


Citazione
Condividi: