Notifiche
Cancella tutti

Con Chavez o senza non cessa la dittatura borghese


Anticapitalista
Estimable Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 139
Topic starter  

Venezuela
Con Chavez o senza non cessa la dittatura borghese.

Era il 1999 quando scrivemmo che «l’elezione del demagogo Hugo Chávez a presidente del Venezuela è l’ennesima mossa della borghesia per cercare di contrastare gli smisurati effetti della crisi capitalista. Combinando abilmente il discorso antimperialista, come il suo compare Fidel Castro, con la logorroica demagogia, Chávez così riassume il suo timore: “o facciamo la rivoluzione democratica o la rivoluzione ci travolge”».

Oggi che l’ennesima “personalità” offerta al culto delle smarrite masse operaie viene a mancare, torniamo qui a collocare il “bolivarismo” all’interno della continuità borghese e capitalista della storia moderna del Venezuela.

Il dominio dell’oligarchia fondiaria

Successivamente all’indipendenza dalla corona spagnola, il movimento indipendentista condotto da Bolivar, alfiere della liberazione e integrazione dell’America latina, fu sconfitto dalle oligarchie dei proprietari terrieri, che presero il controllo politico della nuova repubblica venezuelana.

In quella nuova fase, nel 1829 divenne governatore il generale José Antonio Páez, un chiaro rappresentante dell’oligarchia fondiaria. Páez dal 1822 aveva esercitato la funzione di capo civile e militare del dipartimento del Venezuela, che comprendeva i territori di Caracas, Carabobo, Barquisimeto, Barinas e Apure, incarico che gli fu confermato dalla Municipalidad de Valencia il 30 dicembre 1826 e lo stesso anno ratificato da Simón Bolívar.

Ma contro questo presto Páez si sollevava, il 27 dicembre del 1829 instaurava un governo provvisorio indicendo le elezioni per la nomina dei deputati per un Congresso Costituente, che si riunì il 30 aprile del 1830 e ratificò il potere di Páez. Da questa data la rivoluzione nazionale rappresentata da Bolivar rallentò per il passaggio del potere ai proprietari terrieri.

Con il loro controllo politico dello Stato, lo sviluppo capitalista in Venezuela avanzò lentamente. L’abolizione della schiavitù avvenne solo nel 1854, aprendo così il mercato della forza lavoro. L’economia della nuova repubblica continuò a girare soprattutto attorno alla produzione e all’esportazione del cacao e del caffè, mantenendo l’impiego di manodopera schiava.

A questa si aggiunse una massa di soldati che, tornati dalla guerra nella condizione di uomini “liberi”, ma senza terra, si offrivano come lavoratori ai proprietari terrieri: la promessa di terra fatta ai soldati che avevano preso parte alla guerra d’indipendenza non fu infatti mantenuta.

Uno dei principali limiti allo sviluppo del mercato interno del Paese era la carenza di vie di comunicazione. Questo portava ad una vita chiusa all’interno dei fondi: era comune che molti proprietari emettessero una propria valuta, valida soltanto nelle loro terre, con la quale pagavano i lavoratori e i peones che, a loro volta, la spendevano nelle botteghe, di proprietà del latifondista. Inoltre la legislazione impediva che questi lavoratori si potessero spostare da una regione all’altra senza un lasciapassare firmato dal proprietario terriero.

Dopo l’abolizione della schiavitù, forma di produzione non più profittevole, si consolidò il sistema delle piantagioni sulla base del binomio “plantación-conuco”, che consisteva nel dare in uso ad alcuni lavoratori una piccola porzione di terreno, il che permetteva al proprietario terriero di mantenere una quantità minima di manodopera fissa.

In questo periodo in Venezuela i diversi gruppi di caudillos (per lo più latifondisti) si contendevano il controllo del governo. Si formarono i fronti politici dei liberali e dei conservatori e, nelle campagne, prese forza la lotta per la terra e per l’abolizione della schiavitù.

A partire dalla seconda decade del XX secolo un insieme di eventi internazionali vennero ad influenzare lo sviluppo del capitalismo in Venezuela.

La caduta del prezzo del cacao e del caffè portò alla crisi delle piantagioni; nel 1929 l’economia agraria, legata fondamentalmente all’esportazione del caffè, precipitò in una crisi dalla quale non riuscirà più a sollevarsi, col Venezuela che perse posizioni nel mercato mondiale a vantaggio dei concorrenti.

Lo sfruttamento del petrolio

Benché già nel 1878 si avesse una modesta produzione di petrolio, è a partire dal 1904, con l’introduzione della Legge sulle Miniere, con la quale si stabilì che lo Stato era proprietario del sottosuolo, che si darà impulso al settore con la concessione dello sfruttamento dei giacimenti ad aziende private. Il petrolio si comincia ad estrarre e commercializzare per soddisfare la domanda nel frattempo accresciuta per la Prima Guerra mondiale; la produzione cresce gradualmente e nella terza decade del XX secolo diventa la principale fonte di rendita per l’economia venezuelana. Questa rendita, fin dall’inizio, fu accentrata nelle casse dello Stato.

Nel 1899 prende il potere Cipriano Castro, detto “El Cabito”, caudillo dalla retorica nazionalista. Nel 1908 gli successe il vice presidente, suo luogotenente e compare, Juan Vicente Gomez, con il quale si instaurò una dittatura fino al 1935, anno della sua morte. Il periodo di governo di Gomez sarà fondamentale per il consolidamento dello Stato borghese, nei suoi aspetti repressivo e amministrativo, per soffocare i moti di ribellione dei piccoli caudillos e i conflitti sociali latenti. In questo periodo furono potenziate le vie di comunicazione, necessarie all’integrazione territoriale e allo sviluppo del mercato interno.

Alla fine degli anni Cinquanta, dopo vari governi dittatoriali (dichiarati o celati dietro elezioni), il Venezuela era un paese la cui economia si fondava sull’attività petrolifera. L’agricoltura decadeva nonostante la popolazione fosse in maggioranza rurale. Le aziende dedicate alla coltivazione del cacao e del caffè fecero posto a coltivazioni a ciclo breve, prevalentemente mais, sotto varie forme di conduzione, la mezzadria ma anche l’articolazione proprietario–capitalista-operaio agricolo. La produzione di bestiame resistette di più allo sviluppo capitalista, mantenendo metodi antichi di allevamento, come gli “hato llanero”, allevamenti di pianura.

Nella prima metà del secolo XX una notevole parte della terra si concentrava ancora nelle proprietà dello Stato, della Chiesa e dei latifondisti, molti dei quali discendenti dei combattenti della guerra di indipendenza.

La trasformazione verso una economia fondata sulla rendita petrolifera e la conseguente decrescita dell’agricoltura portò alcune zone alla perdita dell’autosufficienza, ad una riduzione del coltivato e all’aumento delle terre improduttive.

Pieno sviluppo capitalistico

Nella seconda metà del XX secolo il Venezuela non ha conosciuto aperte dittature ed ha consolidato, almeno fino ad oggi, un regime parlamentare con governo “eletto dal popolo”.

In Venezuela si dà impulso all’industria e all’agroindustriale, mentre lo Stato sviluppa il servizio sanitario, l’educazione, etc. ect.

Il governo in questo periodo proclama la riforma agraria e dichiara battaglia al latifondismo: infatti i proprietari terrieri non hanno più il controllo dello Stato, la cui politica è ora influenzata dai borghesi, dalle imprese petrolifere (transnazionali), dai banchieri, i commercianti e dal nascente settore industriale. La riforma agraria non ha eliminato il latifondo: lo Stato ha solo consentito ad alcuni proprietari terrieri di liberarsi delle terre improduttive. I “campesinos” (indipendenti o associati in cooperative) che avevano ricevuto la terra con la Riforma Agraria, finiranno per abbandonarla o rivenderla per migrare nelle città alla ricerca di un salario nell’industria petrolifera, nella crescente burocrazia stata
le o in altre attività economiche. Gli “Asientamentos Campesinos”, gli insediamenti contadini concepiti dalla Riforma Agraria nella decade degli anni Sessanta, si sono ridotti a normali centri abitati volti prevalentemente alla distribuzione, commercializzazione e consumo delle merci al dettaglio.

In questo periodo si consolida l’agricoltura secondo i dettami capitalistici. La produzione delle principali derrate agricole dipende sempre più dal credito bancario e si connette ed integra con l’agroindustria, impiegando sempre meno forza lavoro. Nella produzione di bestiame si è avuto un forte sviluppo capitalistico, in special modo nei settori avicoli e suini, mentre in quello bovino si è mantenuta una attardata produzione tradizionale.

Si dispone abbondantemente di energia idroelettrica che potrebbe incrementare la produzione di beni di largo consumo. Le grandi riserve di gas di cui dispone il Venezuela non vengono utilizzate per la trasformazione petrolchimica. L’industria è fondamentalmente di assemblaggio o dipendente dagli investimenti esteri e da tecnologia importata. Tuttavia esiste una rete di imprese di base nel settore metallurgico. Ma, in questo periodo, tutto ciò non ha avuto grande sviluppo e il Venezuela è rimasto principalmente un produttore di materie prime, petrolio e derivati, ma anche ferro, gas naturale, elettricità e oro. Il ferro è trasformato in acciaio.

Intanto la popolazione è diventata per lo più urbana e quella rurale una minoranza.

Negli anni Ottanta i governi borghesi hanno dato inizio ad una serie di privatizzazioni e di “aggiustamenti macroeconomici”, che hanno portato al “Caracazo” del 27 febbraio del 1989 (ne scrivemmo nel numero 173 di quell’anno), quando le masse scesero in strada e saccheggiarono i negozi a Caracas, La Guaira, Guatire, Guarenas, Los Teques e Valencia obbligando il governo alla repressione per mano dell’esercito causando più di 3.000 morti e imponendo il coprifuoco.

La borghesia non era riuscita a trovare forze politiche con “facce nuove” per irretire il malcontento popolare. I due principali partiti, Azione Democratica e Copei, cristiano sociali, erano del tutto screditati. Per continuare la politica anticrisi nel clima di “pace sociale” occorreva quindi una “nuova” forza politica al governo, che godesse del consenso popolare, o la via del colpo di Stato e del governo dittatoriale.

Il bolivarismo

Infatti dopo il “Caracazo” è venuto il colpo di Stato militare del 4 febbraio 1992, intentato da Hugo Chávez e il movimento militare bolivariano. Il golpe fallì, ma non interruppe il processo di decomposizione dei partiti borghesi tradizionali. Le successive elezioni portarono alla vittoria Rafael Caldera, un vecchio politico borghese che approfittò della crisi politica aperta il 4 febbraio per arrivare al governo con un fronte elettorale, chiamato “Convergenza”, che raggruppava tanto politicanti parlamentari di destra quanto di sinistra. Era la prima volta che andava al governo un partito diverso da AD e COPEI. In un certo modo è stato un governo di transizione al periodo seguente, quando irruppe, stavolta elettoralmente, il movimento bolivariano, che capitalizzò tutta l’insoddisfazione delle masse verso i partiti che avevano controllato il Parlamento negli ultimi quaranta anni.

I bolivariani arrivarono al governo nel 1999 con una vasta maggioranza elettorale e ben accetti dalla borghesia, che stabilì relazioni con il nuovo movimento attraverso un gruppo di personalità in vista. Solo un settore minoritario della borghesia ruppe con i bolivariani facendosi rappresentare dal Fronte dei partiti oppositori.

Il secolo XXI inizia con questo ricambio politico. Il movimento bolivariano diventa la forza politica dominante e tiene il governo dal 1999 fino ad oggi, controllando la presidenza, la maggioranza dei governi regionali e molti dei poteri pubblici. Dal punto di vista politico il movimento bolivariano è riuscito a risolvere ai borghesi alcuni dei loro problemi della fine degli anni Ottanta, ha garantito la pace sociale nello sviluppo capitalista, ha protetto gli interessi di banche, industria e commercio.

Ma ha potuto farlo solo per la favorevole congiuntura dovuta all’incremento del prezzo del petrolio. Le maggiori entrate statali hanno permesso al regime di attuare diverse misure populiste e di stringere alleanze in America Centrale e del Sud, con paesi africani e, non ultimo, con Russia e Cina.

I partiti politici che hanno dominato la scena politica negli ultimi quarant’anni del XX secolo ora formano un fronte di opposizione elettorale nel classico schema della democrazia borghese.

Il movimento bolivariano, o “chavista”, come è conosciuto per il suo vistoso rappresentante, Hugo Chávez, ha seguito una politica di pseudo-sinistra che ha chiamato “il socialismo del XXI secolo”, che altro non è che un modo opportunista per attuare il programma del capitalismo in forme democratico-populiste. E il confronto politico interno per il controllo del governo si è incentrato sulla lotta elettorale, parlamentare e mediatica, tra il partito al governo, con i suoi alleati, e il fronte delle opposizioni.

Tuttavia non sono mancati scontri violenti tra queste bande borghesi che tutte si arricchiscono tenendo inchiodate le masse dei lavoratori. Da ricordare lo scontro che si ebbe nell’aprile del 2002, quando vaste mobilitazioni di oppositori provocarono una serie di morti. Queste, attribuite dapprima alle forze governative, si dimostrarono poi orditi proprio dalle opposizioni, che contemporaneamente tentavano un colpo di Stato e catturavano lo stesso Chávez, sostituito al potere con uno dei loro. Ma i bolivariani tornarono al governo immediatamente, soprattutto per la divisione e le contraddizioni all’interno del fronte delle opposizioni.

Negli anni seguenti è continuato il “confronto” tipico di tutte le democrazie parlamentari, necessario alla borghesia per far credere alla classe operaia che esista sempre un’alternativa nella quale possa riporre le sue illusioni quando il governo del momento diventa troppo odioso.

Il governo bolivariano, basandosi sui proventi del petrolio, ha promosso un maggiore sviluppo capitalista. Nel settore agricolo ha dato impulso alla espropriazione e alla distribuzione della terra e allo sviluppo di imprese agroindustriali, sviluppo però raffrenato per il ritardo del settore dell’allevamento.

Il governo ha attuato una politica populista appoggiando alcune attività economiche, come la costruzione di alloggi e la commercializzazione di prodotti alimentari comprati da grandi imprese nazionali o internazionali. Inoltre ha stretto alcune alleanze internazionali, principalmente con la Cina, per il finanziamento di progetti riguardanti il petrolio e alcuni settori produttivi, come la tecnologia satellitare, l’informatica, l’auto e l’agroindustria. Inoltre il governo ha acquisito imprese fallite o in crisi e con problemi finanziari per salvarle e riattivarle. La demagogia del governo ha cercato di spacciare questi provvedimenti come “controllo operaio”, ma si è invece trattato di un processo di consolidamento di un capitalismo di Stato, fondato sulla rendita petrolifera e sul saldo favorevole della bilancia commerciale, che consente l’importazione di merci e tecnologia dall’estero.

Al di là delle fanfaronate tanto dei bolivariani quanto dei loro oppositori, prima di Chávez, con Chávez o dopo Chávez, il Venezuela era e resta un normale paese capitalista, come Cuba e la Cina, nel quale il proletariato deve lottare per le sue rivendicazioni e per il vero socialismo.

http://www.international-communist-party.org/ItalianPublications.htm


Citazione
vimana2
Famed Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 2528
 

Era il 1999 quando scrivemmo che «l’elezione del demagogo Hugo Chávez a presidente del Venezuela è l’ennesima mossa della borghesia per cercare di contrastare gli smisurati effetti della crisi capitalista

Ma per favore!


RispondiCitazione
Tashtego
Honorable Member
Registrato: 2 anni fa
Post: 675
 

Anticapitalista, coordini i tuoi interventi con Ercole? No perchè anche questa non stà nè in cielo nè in terra. Come si fa ad argomentare una risposta ad una panzana del genere?


RispondiCitazione
Condividi: