Siria. In 4 anni e mezzo di conflitto 150 vittime al giorno in una guerra che non è civile ma globale. A distruggere il paese i tanti attori globali a cui non interessa la libertà del popolo siriano ma spezzettare il paese
Oltre 200mila morti dal 2011: un numero che molti giornali stranieri infilano da qualche tempo in fondo ad ogni articolo dalla o sulla Siria. Un numero che oscilla dai 230mila calcolati dall’Onu ai 240mila dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, citato ieri dalla stampa. Di questi 72mila sono civili (12mila bambini); 88mila soldati dell’esercito, membri di Hezbollah e miliziani sciiti stranieri; 42mila miliziani delle opposizioni, jihadisti e combattenti kurdi; 34mila miliziani stranieri.
Viene ricordato nell’ultimo paragrafo di ogni articolo, una statistica, un’informazione che completa il quadro di una guerra brutale che mai è stata solo civile, ma fin da subito globale. Chissà in quanti – giornalisti e lettori – si fermano a pensare all’oscenità di quel numero. Alla sua intrinseca violenza, alla sua concreta distruttività.
240mila morti in 4 anni e mezzo sono 55mila morti l’anno, 4.500 al mese, 150 al giorno. Una strage quotidiana, martellante, che si unisce all’altro enorme e spesso dimenticato dramma dei profughi. Per tentare di non morire nel macello siriano si scappa: 4 milioni di persone sono fuggite in Turchia, Libano, Giordania, Egitto, Iraq. E chi non trova sicurezza nel resto del Medio Oriente (con un Libano instabile che tenta di frenare il flusso di rifugiati chiudendo le frontiere o stracciando i visti di soggiorno, o con la Turchia che annuncia che non rilascerà più permessi di lavoro ai rifugiati siriani), chi non riesce a sopravvivere prende la via del mare e spera che il Mediterraneo non lo inghiotta.
I siriani prima della guerra civile non fuggivano dal loro paese, che non garantiva libertà di parola ma scuola e sanità gratuita, un’economia abbastanza solida, servizi, libertà di religione. Non certo un governo democratico, quello di Assad, contro le cui forme di repressione politica e sociale i siriani sono scesi in piazza sull’onda emozionante delle cosiddette primavere arabe. Chiedevano libertà di organizzazione e espressione, riforme costituzionali, la fine dell’ufficioso sistema del partito unico.
In cambio hanno avuto una guerra civile, guidata dall’esterno attraverso opposizioni in esilio che si sono fatte fagocitare dall’ampio fronte regionale e globale anti-Damasco (e anti-Teheran). Chi ricorda gli Amici della Siria, che hanno occupato per mesi le pagine dei giornali, considerati dalle opinioni pubbliche mondiali il piede di porco per scardinare la resistenza di Damasco? Chi ricorda la Coalizione Nazionale, per l’Occidente unico rappresentante del popolo siriano, incapace di mantenere il suo Esercito Libero sul campo di battaglia e ormai assente dal discorso diplomatico a causa di una controproducente ostinazione a non negoziare?
Scalzati da nomi ben più potenti, i qaedisti di al-Nusra e i jihadisti del “califfo” al-Baghdadi. Che dalla loro hanno appoggi altrettanto validi di quelli occidentali: petromonarchie del Golfo e Turchia. Su tutti loro pesano quei 240mila morti e la distruzione di un paese che è il cuore politico e simbolico del Medio Oriente.
I jihadisti hanno distrutto Palmira e Nimrud; gli altri Aleppo e Damasco. Nonostante ciò il grande nemico, il “macellaio” Assad è ancora al suo posto, a guidare il terzo di Siria che gli resta. Le riforme costituzionali pensate dal governo dopo le manifestazioni di piazza della primavera 2011 non sono mai state messe in pratica. Oggi tornano sul tavolo del negoziato riproposto dall’Iran.
Per ora nessuno risponde, se non l’Arabia saudita che – dicono fonti interne – avrebbe girato ad Assad la propria personale soluzione alla crisi: stop al supporto alle opposizioni a Damasco in cambio del ritiro di forze iraniane e miliziani di Hezbollah dal paese. Solo così, dice Riyadh, si potrà andare a elezioni nazionali sotto la supervisione internazionale. Ma senza Assad: da Roma dove ha incontrato il ministro degli Esteri Gentiloni, quello saudita Adel al-Jubeir ha tracciato l’identikit della transizione politica: governo di unità nazionale che guidi il paese alle elezioni e modifichi la costituzione, ma senza la partecipazione dell’attuale presidente.
Le proposte saudite e occidentali non tengono conto della realtà sul terreno. Perché l’obiettivo è altro: non riconoscere ai siriani diritto di autodeterminazione e libertà, ma distruggere la Siria per distruggere l’asse sciita, ridisegnare i confini mediorientali, disintegrare i grandi paesi per renderli più facilmente controllabili. Ecco perché 240mila morti non fanno più notizia.
Chiara Cruciati
Fonte: www.ilmanifesto.info
8.08.2015