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La profezia di Fidel


cubainforma
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Post: 1957
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Ricardo Alarcón de Quesada * cubainformazione,it

"Sii fedele fino alla morte, e io ti darò la corona della vita"
    (Apocalisse 2, 10)

"Muore Fidel". Con dieci lettere coprivano le loro prime pagine i giornali batistiani al riferire l'assalto alla Caserma Moncada, il 26 luglio 1953. Il dato ovviamente falso, poneva a nudo, al tempo stesso, una chiara minaccia.
Quasi tutti gli assaltanti catturati, dopo la battaglia, erano stati assassinati a sangue freddo e a lui era riservato ugual destino solo impedito dalla condotta coraggiosa di un ufficiale d'onore che avvertì i suoi soldati: "Le idee non si uccidono".
"Muore Fidel". La frase occupò, nuovamente, i grandi titoli nel dicembre 1956. Solo che ora non l'occultava l'anonimato, ma era il frutto di una operazione mediatica di grande portata fabbricata dall'United Press International (UPI), allora uno dei principali strumenti della potente macchina di propaganda imperialista.
Per moltissimi, ovunque, che mai avevano sentito parlare di lui, si trattava di un giovane sconosciuto, scoperto proprio quando terminava la sua vita. La notizia inventata divenne verità dimostrata, ripetuta incessantemente dai media che in quei giorni non avevano alternativa ed erano padroni assoluti dell'informazione.
A Cuba, sessant'anni fa, l'angoscia e l'incertezza invasero le case. Quello fu un Natale triste e cupo. Si concluse l'anno, passò gennaio e trascorse gran parte del mese successivo. Poco a poco, faticosamente, si andava conoscendo la verità tra i combattenti clandestini.
Fidel e una manciata di sopravvissuti erano riusciti a penetrare nella Sierra Maestra resistendo a lunghi giorni di fame, freddo e piogge e la persecuzione di migliaia di soldati, fortemente armati, equipaggiati, addestrati e consigliati dallo stesso Impero che propalava, ovunque, la menzogna.
Finché nel febbraio 1957 Herbert Mathews, rara avis (rarità ndt) del giornalismo USA, lo intervistò per il New York Times e rivelò con foto e dettagli il sorgere del fuoco guerrigliero. Là in montagna il nucleo rivoluzionario cominciava a crescere con l'incorporazione di contadini e combattenti della pianura.

Avrebbero dovuto, inoltre, affrontare l'isolamento che voleva imporgli la dittatura e a cui si aggiunsero, quasi senza eccezione, i partiti e le organizzazioni di un'opposizione che criticò sia il Moncada che il Granma come avventure irresponsabili condannate al fallimento. Bastarono, però, poco più di due anni affinché l'Esercito Ribelle entrasse vittoriosamente all'Avana.
Aveva sconfitto coloro che vollero ucciderlo. Quelli che cercarono di annientarlo con bombe e mitraglia e agli altri che si affannarono a seppellirlo nell'incredulità e nell'oblio. Arrivava vincitore, imbattuto, di fronte alla morte, al dogma ed alla menzogna.
Ma sapeva, e così avvertì nel suo primo discorso nella capitale liberata, che d'ora in poi nulla sarebbe stato facile e avrebbe dovuto affrontare gli stessi demoni.
La storia, nuovamente, gli diede ragione. Per più di mezzo secolo la Rivoluzione, da lui guidata, ha dovuto affrontare un'ininterrotta aggressione in cui l'impero ha dato mano a quanto poté.

Consapevoli che Fidel ed il suo popolo erano uno e lo stesso impose ai cubani un genocidio che ancora perdura, mentre contro il leader della Rivoluzione concepirono e pianificarono centinaia di attentati. Fidel dovette arrischiare la sorte con più tentativi di assassinio di chiunque.
I suoi nemici, quelli che non furono mai in grado di ucciderlo, non si stancarono di annunciare la sua morte e i media la divulgarono, come un fatto, più e più volte. Tanto che lo stesso Fidel in alcune occasioni, sorridendo, disse che il giorno in cui egli fosse morto molti non l'avrebbero creduto.
Così è stato e sarà. La profezia si avvera. Ora con Martí, ci assicura:
    Il mio verso crescerà sotto l'erba
    Anch'io crescerò


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