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Usa, i reduci dell'Iraq si raccontano su Hbo


Tao
 Tao
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«Alive day memories: home from Iraq»: sull'emittente via cavo americana dieci militari ricordano il giorno che gli ha cambiato la vita: quello in cui sono sopravvissuti alla guerra. Intervistati dalla star dei «Sopranos» James Gandolfini, anche produttore della serie in programma fino al 2 dicembre, mostrano gli «effetti collaterali» del conflitto con poche lacrime e molta lucidità

Il sergente Eddie Ryan ha due pallottole in testa. Non parla molto, ma l'inno dei marines se lo ricorda ancora: «Dai saloni di Montezuma alle spiagge di Tripoli...». La sua storia la racconta la madre, che spiega come sia stato ferito a Ramadi, in Iraq. Come, dopo sei settimane tra la vita e la morte, abbia impiegato mesi per ricordarsi il suo nome. E come adesso non abbia più la funzionalità degli arti.
Gli altri, invece, la propria storia la raccontano da soli.
L'ex caporale Jonathan Bartlett, 21 anni, che in Iraq ci ha lasciato le gambe e che non vuole la pietà di nessuno: «Sono un soldato. Sono andato in guerra e sono stato ferito: capita». Il sergente Michael Jernigan, 28 anni, che laggiù ci ha lasciato gli occhi e che ora vuol farsi impiantare, al posto della cornea, una protesi con dentro il diamante della sua fede nuziale. Perché in guerra, oltre alla vista, si è giocato pure il matrimonio.
In uno studio televisivo dalle pareti nere, davanti a una telecamera accesa e a James Gandolfini tornato in tv dopo la fine dei Sopranos, dieci reduci della guerra in Iraq ricordano il giorno che gli ha cambiato la vita: quello in cui sono sopravvissuti.
Alive day memories: home from Iraq, prodotto da Gandolfini per Hbo e in programmazione fino al prossimo 2 dicembre sulla tv via cavo americana, è il racconto di dieci destini cambiati in un paio di minuti. Da una mina, da un colpo di mortaio. Da quel metro in più o in meno che ha fatto la differenza tra il vivere e il morire.

Qualcuno lo chiama «miracolo». Qualcuno è grato per aver avuto «un'altra chance». Qualcun altro dice che celebrare l'alive day non ha senso: «è stato il giorno peggiore della mia vita». Gli effetti collaterali della guerra, questi reduci li portano addosso: hanno perso braccia, gambe, occhi. C'è chi ha riportato danni cerebrali permanenti e chi, da quando è tornato, non ha mai più chiuso occhio perché affetto da sindrome da stress post traumatico. Si siedono così, con la fatica delle loro protesi, delle loro sedie a rotelle e del loro dolore, davanti a un Gandolfini rassicurante e discreto, che occupa il video quel tanto che basta a fare poche e essenziali domande.
Il resto è il racconto di una guerra affrontata per scelta o per mancanza di alternative («mi sono arruolata perché era l'unico modo che avevo di guadagnare qualcosa e di star fuori dai guai», dice Crystal Davis, 23 anni), di una medaglia conquistata per essere tornati a casa senza una gamba, e del tentativo faticoso di rientrare nella propria vita. Scorrono home-movies di giorni felici, di prove orgogliose dell'uniforme nuova, di partenze cariche d'ansia e di paura. E poi immagini concitate, con la telecamera che sussulta per inseguire una barella, cade e viene raccolta per filmare un'alta esplosione. Infine c'è il presente, fatto di farmaci, riabilitazione e quotidiana ricerca della normalità perduta.
Poche lacrime, molta lucidità e soprattutto nessuna presa di posizione politica.
«Non voglio che questi soldati si sentano strumentalizzati politicamente - ha dichiarato Gandolfini - voglio solo che la gente si sieda davanti alla tv ad ascoltare quello che hanno da dire».

«Questi ragazzi - dice il regista Jon Alpert - erano i nostri vicini di casa, quelli che abbiamo visto crescere nella nostra strada: solo che oggi hanno perso un braccio o una gamba. All'inizio ti senti in imbarazzo a chiedere loro dei loro arti amputati, ma poi ti accorgi che sono loro a volerne parlare. Vogliono che la gente capisca cosa gli è successo, quali sono i costi della guerra». E i costi, oltre ai circa 100mila civili iracheni morti dall'inizio del conflitto e ai 3.828 soldati americani uccisi, sono 27.000 feriti - la metà dei quali soffre di sindrome da stress post traumatico - e il più alto tasso di amputati dalla Guerra civile. E mentre reduci come quelli di Alive day marciscono nei letti del Walter Reed, il principale ospedale militare della East Coast, ricoverati (come emerso da un'inchiesta del Washington Post) tra pareti ammuffite e scarafaggi o lasciati per anni nel limbo di una convalescenza infinita in attesa che ne venga deciso il congedo o il ritorno nei ranghi, su di loro comincia a sedimentarsi una letteratura nuova: film come In the valley of Elah di Paul Haggis, Redacted di Brian De Palma, documentari come Iraq in Fragments di James Longley, No End in Sight di Charles Ferguson, Taxi to the Dark Side di Alex Gibney, Body of War di Phil Donahue, ma anche nuove serie tv, da Over There di Steve Bocho fino a Baghdad ER girata (ancora da Jon Alpert) nel pronto soccorso militare della Green zone di Baghdad.
E qui, tra amputazioni in catena di montaggio e corpi portati via in sacchi di plastica nera, un soldato si rigira tra le mani le piastrine di un commilitone e si aggrappa all'ultima speranza: «Spero davvero che siamo qui a costruire un futuro migliore. Altrimenti è pura follia».

Irene Alison
Fonte: www.ilmanifesto.it
27.10.07


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