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(ancora) Saviano e Sab­be­tai Zevi


Pellegrino
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Isaac Bashevis Singer

di Roberto Saviano

Sem­bra ancora di ved­erlo rinchiuso nel suo sgabuzzino let­ter­ario a vidi­mare pagine di rac­conti e demoni, di geome­trie razion­ali stra­volte dal det­taglio impreved­i­bile della più innocua forma di vita. Isaac Bashe­vis Singer avrebbe com­pi­uto cent’anni nel luglio 2004 assomigliando così ad un vetusto per­son­ag­gio dell’Antico Tes­ta­mento, uno dei suoi ado­rati, inca­paci nonos­tante sec­oli di vita di com­pren­dere il senso del vivere e di appa­garsi di una pur parziale o min­ima ver­ità ultima. Singer però piut­tosto che ad un pro­feta sem­pre più sem­brò negli ultimi anni di vita trasfor­marsi fisi­ca­mente in uno dei suoi pic­coli demoni benevoli e ter­ri­bili. Orec­chie a punta, sor­riso mefistofe­lico, testa glabra, occhi­etti vispi e tondi.

Una sua col­lab­o­ra­trice arrivò in un’intervista persino a dichiarare che non aveva mai visto l’ombra dello scrit­tore e che era certa si trat­tasse di un demone let­ter­ario. Nonos­tante la deli­rante affer­mazione per Singer non vi fu mai com­pli­mento migliore che quello dato dalla sua col­lab­o­ra­trice. Isaac B. Singer nella sua vita ha costru­ito un’opera nar­ra­tiva ocean­ica scritta con una lin­gua scom­parsa, o meglio ster­mi­nata, l’yiddish. Una sin­tassi impas­tata di ebraico, polacco, tedesco, capace di accedere a sonorità com­p­lesse a sig­ni­fi­cati ibridi, la lin­gua dell’esilio com­posta dai fonemi della dias­pora. Theodor Herzl fonda­tore del pen­siero sion­ista immag­i­nava una terra d’Israele dove tutte le lingue potessero esser par­late poiché tutte appartenevano al pat­ri­mo­nio ebraico fuorché l’yiddish che Herzl riteneva essere la lin­gua del ghetto, dell’emarginazione, la lin­gua cre­ata per far comu­ni­care gli esclusi in breve una gram­mat­ica della ver­gogna. Per Singer e per migli­aia di ebrei in esilio invece non fu così. Dopo la fuga negli Stati Uniti nel 1935 per sfug­gire alla per­se­cuzione anti­semita nazista, Singer non assunse nella sua penna la lin­gua inglese, decise di scri­vere in yid­dish prescegliendo la lin­gua degli shtetl, i vil­laggi di ebrei nell’est Europa.

Il suo non è un amore verso il pas­sato, non sceglie l’yiddish per­ché l’ha suc­chi­ato insieme al latte materno né mantiene un legame con la terra polacca che anzi non vorrà rivedere più per tutta la vita. A Singer inter­essa usare questo codice sed­i­men­tato di una civiltà in perenne esilio, una lin­gua in grado di tradurre nella forma del quo­tid­i­ano l’intero bagaglio del Tal­mud e dei testi sacri. La lin­gua dei ple­bei coltissimi che inter­pella­vano Dio ovvero i rab­bini dei paesini polac­chi, romeni, ungheresi. Attra­verso la lin­gua yid­dish Singer accede alla iron­ica mitolo­gia delle comu­nità chas­sidim e ne fonda lui stesso una nuova. Le pagine di Singer così diven­gono un flo­ri­le­gio di immag­ini e sto­rie mutu­ate dalla tradizione ebraica, ma la Torà e il Zohar non sono sem­plice­mente i testi sacri, i rifer­i­menti reli­giosi ma diven­gono i labir­inti sim­bol­ici in cui tradurre la dif­fi­coltà della prassi del vivere quo­tid­i­ano. Singer crea una teolo­gia anar­chica dove il rap­porto con Dio e con la Legge è definito dall’infrazione, dall’errore, dall’eresia, da una con­tinua rif­les­sione che possa portare a trovare un impos­si­bile ban­dolo, una inesistente chi­ave di svolta, un sep­pur min­ima ver­ità impossibile.

L’ebraismo piut­tosto che una fede è come l’autore stesso ha dichiarato “un com­pro­messo tra Dio e i demoni”, e di questo com­pro­messo ne è un esem­pio unico il cap­ola­voro Satana a Goray (TEA, 2004, Euro 8.00).

Il romanzo rac­conta un episo­dio storico accaduto nella Polo­nia del dici­as­settes­imo sec­olo quando la comu­nità ebraica tutta fu scon­volta dalle parole di fuoco di Sab­be­tai Zevi pro­feta che inau­gu­rava l’avvento dell’era mes­sian­ica. Dopo le per­se­cuzioni, dopo l’esilio, la mis­e­ria, la tor­tura, i pogrom, Sab­be­tai Zevi final­mente procla­mava al popolo ebraico l’arrivo del bene asso­luto, del Mes­sia riso­lu­tore: “tutti si preparano senza ris­erve a seguire il loro Mes­sia, abban­do­nando le dimore dell’esilio per l’utopia della Terra d’Israele.” Singer rac­conta dal pic­colo e rig­oroso paesino di Goray della più grande e fas­ci­nosa delle ere­sie pos­si­bili che coin­volse mil­ioni di ebrei dell’Europa dell’Est e del vicino ori­ente. Bisog­nava sec­ondo Sab­be­tai Zevi dare fondo al peg­gio dell’essere uomo, trasgredire, sputare sui testi sacri, rigettare i pre­cetti tal­mu­dici, rifi­utare ogni autorità, sciogliere le famiglie, ripu­di­are i figli, giun­gere sino al grave ripu­dio della fede ebraica, spingersi nel fondo più ler­cio dell’abiezione per poter las­ciare emerg­ere dall’abisso un mondo nuovo, ric­on­cil­iato, puro. Dall’abominio del mondo sarebbe nato la per­fezione asso­luta. Sab­be­tai Zevi gen­era il tempo dell’errore per accel­er­are il tempo della gius­tizia e della felic­ità totale. Ben presto però si sco­prirà che Sab­be­tai Zevi è un falso mes­sia, non porterà con se l’era mes­sian­ica né gli ebrei alla lib­er­azione. Tradirà se stesso e il suo deli­rante sogno di reden­zione. Singer è affas­ci­nato da questo falso mes­sia, pur essendo un dis­suaso intel­let­tuale aller­gico ai sovver­ti­menti è ben cosciente che la forza mag­gior­mente utile e pos­i­tiva che la Legge può gener­are è pro­prio l’infrazione. Esiste codice affinché possa esserci un a negazione ad esso e attra­verso questa dialet­tica gener­are una perenne pos­si­bil­ità di svis­cer­are mondi. Satana a Goray venne scritto quando Singer viveva ancora in Polo­nia e sem­bra essere un capi­tolo emendato della Bib­bia nascosto dall’ultimo cus­tode di una ver­ità incon­fess­abile. Nonos­tante Sab­be­tai Zevi non sia stato un vero mes­sia col­oro che l’anno seguito con­tin­uer­anno a inseguire il sogno di reden­zione poiché più forte del cre­atore v’è la creazione.

Come Singer scrive nel libro Ombre sull’Hudson (TEA 2002, Euro 8,50) “Dio ha bisogno che l’essere umano lo aiuti a portare il dramma cos­mico ad un finale benefico.” La let­ter­atura così diviene una stru­men­tazione div­ina capace di almanac­care mondi all’interno dell’unico mondo pos­si­bile, che senza dover pas­sare per Leib­niz facil­mente riconos­ci­amo come quello che siamo costretti a vivere. Gim­pel, leggen­dario per­son­ag­gio (Gim­pel l’idiota, TEA 1997, Euro 8.00) riconosce che “questo mondo è del tutto immag­i­nario d’accordo, ma è par­ente stretto di quello vero” e pro­prio per questa par­entela non rimane da fare altro che con­sid­er­are la forza della fan­ta­sia come un ele­mento fon­dante del reale. La vicenda di Gim­pel è assai sem­plice. Fin da bam­bino viene ingan­nato da tutti, com­pagni di scuola, com­pae­sani, grandi e pic­coli per la sua credulità e per questo gli resta attac­cato, tra i vari sopran­nomi, quello di idiota. Gim­pel si fa infinoc­chiare non per­ché sia stu­pido, ma per­ché è con­vinto che “tutto è pos­si­bile, come sta scritto nella Saggezza dei Padri”. L’inganno cui è sot­to­posto con­tinua anche nella sua vita adulta: viene con­vinto a sposare la donna più dis­on­esta del paese, la quale gli farà credere di amarlo, poi gli si rifi­uterà e nel frat­tempo met­terà al mondo ben sei figli da altri uomini invece che dal mar­ito. Ma Gim­pel non cova nel suo cuore la vendetta, ama la moglie, i figli non suoi, i vicini, aiuta persino chi lo tradisce. Il rab­bino, infatti, una volta gli aveva dato un con­siglio: “È scritto, meglio essere stu­pidi per tutta la
vita che mal­vagi per un’ora soltanto”.

La ten­tazione però si insinua anche nel suo cuore buono. Gim­pel, che faceva il panet­tiere, avrebbe potuto ingannare tutti, rifacen­dosi delle beffe che aveva subito per tutta la vita, impa­s­tando la farina, anziché con l’acqua, con il suo pis­cio rac­colto in un sec­chio durante il giorno. Si las­cia con­vin­cere dallo Spir­ito del Male che lo inganna assi­cu­ran­dogli che “nel mondo di là non c’è Dio, c’è solo un pro­fondo pan­tano”. È un momento solo di debolezza ma subito dopo Gim­pel ci ripensa, sot­terra il pane già cotto, las­cia tutto e volendo riparare a quel ced­i­mento diventa men­di­cante e gira per i paesi rac­con­tando sto­rie. Si prepara così alla morte. “Senza alcun dub­bio, il mondo è com­ple­ta­mente immag­i­nario, ma una sola volta viene rimosso dal mondo reale… Quando il momento verrà, me ne andrò con gioia.” Gim­pel dice di si alla vita. Attra­verso Gim­pel l’idiota Isaac B. Singer sem­bra rispon­dere al Bartleby di Melville o a Michael K. di Coet­zee i sig­nori del no ven­gono affrontati e scon­fitti dall’idiota sig­nore del si. Lo shlemiel (sciocco in yid­dish) è colui che rigetta l’astuzia del vivere, il mer­can­teggiare del pen­siero e vive essendo soltanto ciò che è. E di questa pace, pagata con il prezzo dell’insulto, Gim­pel ne diviene il pal­adino. Il no invece sem­bra essere nella somma delle rif­les­sioni sin­ge­ri­ane come un legame troppo silen­zioso con il mondo reale. Ed il silen­zio è il peg­gior modo per essere uomo, una pri­gione inca­pace di cogliere le ver­sa­til­ità sub­limi ed immonde dell’essere al mondo. Singer non segue la mas­sima di Adorno: “dopo Auschwitz non c’è più posto alla poe­sia” né il tuffo sui­cida di Paul Celan nella Senna e neanche crede come Primo Levi che: “c’è Auschwitz non può esserci dio”. Pur avendo perso il fratello più pic­colo e la madre, inghiot­titi dalla depor­tazione, Singer coltiva ancora la voce come una resistenza con­tro l’odio che spin­oziana­mente crede non poter gener­are anche nella giustezza del suo motivo, nulla di buono. Nei romanzi di Singer così con­tinua a vivere il mondo yid­dish can­cel­lato nella lunga notte della shoah. Per tutta la vita avrà dif­fi­coltà enorme nel far rifer­i­mento alla sua trage­dia famil­iare che cov­erà nel fondo di se come ulcera aperta senza sper­are di poterla rimarginare.

Il rac­conto Mano­scritto mostra bene ciò che la let­ter­atura può sig­nifi­care nella dis­per­azione. Alcuni ebrei sopravvis­suti in città can­cel­late da bom­bar­da­menti in attesa della depor­tazione chiedono a Menashe una con­ferenza su argo­menti let­ter­ari, così che “la gente un attimo prima della morte ha ancora i desideri di chi vive”. La let­ter­atura in Singer è indub­bio somiglia sem­pre più ad un urlo di vita. La depor­tazione e lo ster­minio non gli mostrano una parte oscura dell’uomo, Singer sa bene cos’è la belva umana ed è toc­cante come rap­p­re­senta la cosa attra­verso i due demoni Shiddà e Kuz­iba che pregano con tutta la loro forza per difend­ersi da quel mostro che è l’uomo. Pro­prio i demoni sono le crea­ture let­ter­arie a cui ci si affeziona di più leggendo le pagine di Singer, come scrive Giuseppe Pon­tig­gia: “è innega­bile che noi non cre­di­amo ai fol­letti ma cre­di­amo a quelli di Singer. Non cre­di­amo ai demoni…ma cre­di­amo ai dyb­buk di Singer.”

Fol­letti e demoni sono il plus­val­ore della fan­ta­sia che il reale pro­duce poiché nulla è come sem­bra. I demoni non sono ribelli razion­ali né cul­tori dell’abominio. Sono diversi, tutti prove­ni­enti dalla cul­tura yid­dish e sem­pre con­siglieri malevoli inter­es­sati a far bat­tere sen­tieri opposti a quelli della Legge. A volte com­met­tono tragiche burle come nel rac­conto Nozze nere dove una incolpev­ole figlia di rab­bino par­torisce il figlio di un demone. Non v’è stata colpa, non v’è motivo a tale nascita. Non v’è preghiera che può sal­vare o gesto che può gius­ti­fi­care e quindi tentare un con­forto. Ma anche in questo caso la fan­ta­siosa pos­si­bil­ità umana di amare nonos­tante tutto, per­me­tte al caso di trovarsi un senso ed alla trage­dia di mutarsi in una dolce forzatura dell’esistere. Attra­verso i demoni v’è anche un rifer­i­mento costante ai bam­bini: “è nec­es­sario ricor­dar loro di tanto in tanto, che al mondo ci sno ancora forze mis­te­riose all’opera (Alla corte di mio padre, TEA 1999, Euro 8,26). I demoni sono l’emblema di un mondo che non è pos­si­bile ori­entare, che non ha poli né possiede diritto e rovescio. E’ nel suo caos che bisogna vivere, dove ogni legge è nec­es­saria e giusta poiché allo stesso tempo è arbi­traria e super­flua. La cir­co­lar­ità caot­ica è impressa nello spec­chio che riflette solo appar­ente­mente ciò che si pone innanzi e che rap­p­re­senta lo stru­mento priv­i­le­giato dai demoni per ren­dersi vis­i­bili: “tutto ciò che è nascosto va riv­e­lato, tutti i seg­reti anelano a essere scop­erti, tutti gli amori bra­mano essere tra­diti, tutto ciò che è sacro dev’essere profanato”.

Nonos­tante Singer si ritenga un appas­sion­ato cre­dente cede spesso dinanzi al fas­cino della ribel­lione verso la pre­scrizione, del resto il com­pito di un vero rab­bino, car­ri­era cui Singer da ragazz­ino era stato ind­i­riz­zato, è quello di porre dub­bio su ogni Legge affinché essa sia real­mente senza dub­bio alcuno osser­vata. Nel rac­conto Il macel­la­tore (Rac­conti, Monda­tori I Merid­i­ani 1998, Euro 48) Yoine Meir è posto dalla comu­nità a macel­lare sec­ondo rito le bestie che poi ver­ranno man­giate. Il povero Meir è osses­sion­ato dalle vis­cere degli ani­mali, dagli sguardi dei vitelli, dalle piume degli uccelli, ed anche se la mas­sima toraica dice che “non si può essere più mis­eri­cor­diosi di Dio” lui vuole esserlo, anzi pre­tende di esserlo. Non vuole più essere fedele ad un Dio che fa sof­frire gli ani­mali. Se v’è pos­si­bil­ità d’amore v’è anche pos­si­bil­ità d’eresia e di pec­cato. I per­son­aggi di Singer sono parte essen­ziale del tutto. Hanno grado iden­tico alla sostanza cre­atrice e quindi quando non sono preda della paura e della sot­tomis­sione reli­giosa pos­sono ele­varsi a inter­locu­tori di Dio in un dial­ogo che non conosce titubanze.

Singer è un dili­gente allievo di Baruch Spin­oza e della sua Etica, il vec­chio scrit­tore ama par­ti­co­lar­mente il filosofo olan­dese per la capac­ità di aver con­cesso alle sue pagine lo zefiro della vita e la pos­si­bil­ità di errore. L’Etica sec­ondo Singer è un con­tinuo invito alla vita come avven­tura da affrontare con le forze della ragione e del senso. Ne è l’emblema il sub­lime rac­conto, Spinoza di via del Mer­cato (Rac­conti, Monda­tori I Merid­i­ani 1998, Euro 48) dove l’Etica di Spin­oza diviene l’assoluta prassi di vita nel per­corso del dot­tor Fis­chel­son che: “trovava con­forto nel pen­sare che lui pur essendo soltanto un pic­colo uomo da nulla, un modo mutev­ole della Sostanza asso­lu­ta­mente infinita era tut­tavia parte del cosmo fatta della stessa mate­ria dei corpi celesti e poiché era parte della Divinità sapeva che non poteva perire del tutto.” Fis­chel­son che stu­dia da una vita l’Etica, con­sideran­dola una sorta di far­maco per la per­fezione sobria e razionale, in una notte calda perde ogni con­trollo a causa della bella Dobbe la Nera e la pas­sione sos­ti­tu­isce com­ple­ta­mente la razion­al­ità austera colti­vata per una vita. “Per­don­ami, divino Spin­oza sono diven­tato uno sciocco” è ciò che tris­te­mente il dot­tor Fis­chel­son si dice. La ses­su­al­ità è una costante quasi osses­siva nei rac
­conti di Singer. E’ la forza dirompente capace di ren­dere nullo ogni propos­ito e di porre in crisi ogni piano razionale.

Il sesso è la brama che mette in crisi col­oro che nel pro­prio per­corso con­sid­er­ano la ragione morale capace di gov­ernare ogni sus­sulto, di ghi­an­dola e di stom­aco, ogni azione diurna o not­turna. Così lo stu­dente Yentl, stu­dente di yeshivà la scuola supe­ri­ore di studi tal­mu­dici, che d’improvviso tutto ciò che guarda ed ascolta lo rimanda all’ambiguità ses­suale ed in lui cresce una voglia incred­i­bile di riv­ol­gersi all’unica cosa che la sua ragione non aveva com­preso, la pas­sione dei corpi. Sono scon­fitti come Yentl tutti gli uomini e le donne di Singer che ten­tano di frenare la pro­pria suscettibil­ità alla magia dell’attrazione amorosa cui nes­suna forza è in grado di opporsi. Clau­dio Magris in tal senso ha scritto: “con l’imparzialità del poeta epico Singer rap­p­re­senta tutta la gamma dell’esperienza amorosa, dall’idillio coni­u­gale alla pigrizia nau­se­ata.” Ma il sesso e la pas­sione car­nale diven­gono anche forze ingovern­abili che riescono ad eternare la vita con­tro la boria razionale e com­punta della vita offesa. Come nel rac­conto ne L’uomo che scriveva le let­tere, Her­man il pro­tag­o­nista dice: “l’idea di tirar su figli gli sem­brava un’assurdità: per­ché pro­l­un­gare la trage­dia umana?” Isaac B. Singer con­corda con il suo Her­man e con Schopen­hauer, l’altro filosofo insieme a Spin­oza che guiderà la sua vita di scrit­tore e forse di uomo.

Lo scrit­tore però sa che la ragione della non vita non può nulla con­tro la folle diav­o­le­ria della car­nal­ità. Non dare più vita, non per­me­t­tere più a nes­suno di vivere l’inferno della terra, il dolore, l’angoscia e la mis­e­ria, certo, ma la pas­sione e l’amore non hanno piani e i rac­conti di Singer mostrano che la ses­su­al­ità non vuol’altro che com­piersi senza badare a ciò che sarà ed a quanto è stato. Come scrive Charles Baude­laire: “la voluttà unica e suprema dell’amore con­siste nella certezza di fare il male. E l’uomo e la donna sanno dalla nascita che nel male si trova ogni voluttà.” L’idea di esistere e di essere, la voglia di bere ancora alla pozza della vita nella ricerca spas­mod­ica di un senso inesistente e di una orig­ine obli­ata è la carat­ter­is­tica dell’uomo in esilio. Singer riesce a fare della dias­pora l’elemento di grandezza della vicenda let­ter­aria ed umana ebraica. Solo dalla dan­nazione del mar­gine si può entrare nel cuore della con­dizione del vivere. E’ l’irrealizzata pos­si­bil­ità di una terra, l’impossibilità ad avere una cos­ti­tuzione ed un patri­ot­tismo, è nell’assenza del diritto che nasce la domanda sul pro­prio esserci. Questa ten­sione dialo­gata con Dio rende il per­corso preferi­bile alla meta, poiché la meta rap­p­re­senta il ter­mine della pro­pria uni­ver­sal­ità e la fine del pro­prio pen­siero come un Giobbe senza più pene. Come un sogno che quando si real­izza non è null’altro che l’ombra di se stesso. In questo senso i romanzi ed i rac­conti di Isaac Bashe­vis Singer trac­ciano il solco della dias­pora umana che vaga in cerca di una ric­on­cil­i­azione ultima, di un utopia di felic­ità che il solo cer­carla ed immag­i­narla la real­izza nello spazio infinito e con­creto del pen­siero. Tenen­dosi le ghi­ande e las­ciando le perle ai porci.

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Pub­bli­cato su PULP n° 52 Novembre-Dicembre
Pubblicato il: 14 gennaio 2005 da: redazione
http://www.robertosaviano.it/articoli/isaac-bashevis-singer-2/

vedi anche "Il Lato Oscuro Di Roberto Saviano"

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