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Contraffazione: la lotta ai falsi e l'attacco ai lavoratori


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Parliamoci chiaro: dietro alla giusta difesa del Made in Italy e dei prodotti ad origine garantita si cela anche l’ipocrisia di una classe imprenditoriale avida e senza scrupoli, pronta a mettere a repentaglio le competenze tradizionali del Paese e distruggere i diritti dei lavoratori di tutto il mondo solo per accrescere i propri utili.
Come ha confermato l’inchiesta di Report sulla contraffazione dei prodotti di lusso, trasmessa domenica sera su Rai3, infatti è così che agiscono molte grandi imprese italiane ed europee. Il mercato dei falsi, infatti, rappresenta nel vecchio Continente un giro d’affari enorme che coinvolge non solo i ben noti articoli manifatturieri come calzature, articoli in pelle e abbigliamento ma anche cibo, sigarette, cosmetici, giocattoli e medicine. Nel solo 2007, i sequestri di merci “taroccate” sono cresciuti nell’Ue del 17%, raggiungendo quota 43.000, contro i 37.000 del 2006, per un totale di 73 milioni di articoli sequestrati, il 60% del quale proveniente dalla Cina. Un fenomeno in continua crescita, come confermano anche gli incrementi record dei prodotti sequestrati.

Ma che succede se, come emerge dall’indagine giornalistica, a contribuire di più a questo meccanismo illecito sono le stesse imprese del lusso e i grandi marchi italiani ed europei? Accade che la legittima difesa di competenze uniche al mondo cede il passo all’ipocrisia: si tuona contro i falsi ma al contempo si incentiva il mercato con la scusa di dover tagliare i costi di produzione. Una riduzione inspiegabile se si tiene presente che si tratta di prodotti venduti a cifre da capogiro, spesso realizzati in Cina o all’estero e comunque non da operai italiani, assemblati nello Stivale solo per poter furbescamente e spesso illecitamente apporre l’etichetta made in Italy. Proprio le griffe famose, infatti, come conferma l’inchiesta, impongono alle imprese della filiera prezzi stracciati, tali da costringere le aziende italiane a subappaltare ai più economici operatori cinesi il lavoro. Questi, dal canto loro, lavorano per conto delle grandi marche italiane, francesi o inglesi, anche negli stessi distretti produttivi italiani, per lo più in nero e con manodopera clandestina, veri e propri “schiavi” relegati in sporchi magazzini e spremuti come limoni. Un meccanismo che distrugge a colpi di concorrenza sleale gli imprenditori nostrani, costretti a scegliere tra fallire e subappaltare ai cinesi.

Pur non avendo affatto bisogno di tali riduzioni di costo dato l’alto prezzo di vendita dei prodotti griffati, molti marchi famosi fingono con ipocrisia di non sapere che tali significative riduzioni di costo della manodopera comporta necessariamente il mancato pagamento delle tasse e dei contributi da parte delle imprese che hanno preso il lavoro in subappalto, con conseguenze gravi anche in materia di compiti dello Stato e di diritti dei lavoratori. Ignorando la presenza nella filiera di imprese operanti in nero, infatti, tali aziende avallano evasione fiscale e contributiva per milioni di euro l’anno, un mancato introito per Inps e Fisco che, invece di indurre gli organi competenti a stringere le maglie su questa evasione, finisce per offrire alla politica un alibi per riformare il sistema previdenziale e tagliare i servizi pubblici. A pagare, ovviamente, le generazioni presenti e future: Paesi come l’Italia, la cui ricchezza si fonda sulla qualità delle merci, con questo sistema cedono ad altri importanti competenze frutto di secoli di storia e indeboliscono sempre di più il potenziale produttivo nazionale. Basti pensare che, negli ultimi anni, la manodopera italiana è stata quasi totalmente sostituita da personale cinese o straniero e che imprese estere hanno preso il posto delle aziende tradizionali dello Stivale con danni irreparabili all’artigianato locale.
Approfittando dell’ambiguità della legislazione europea ed italiana, inoltre, i grandi gruppi riescono anche a spacciare per Made in Italy ciò che non lo è, ingannando i consumatori, certi di comprare un prodotto a provenienza certificata.

Per mettere fine a questa strategia suicida prima che sia troppo tardi sarebbe in teoria necessario un immediato rafforzamento della normativa a tutela del vero Made in Italy e, soprattutto, un impegno contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, a qualsiasi livello e in qualsiasi Paese. I recenti eventi, però, lasciano intendere che la strada intrapresa sia in realtà opposta. Se da una parte si tende a tutelare i marchi - compresi i falsi Made in - dall’altra non si cerca infatti minimamente di migliorare le tutele dei lavoratori. Accanto alle riforme precarizzanti attuate e previste a breve, i principali partiti italiani (ma anche europei) flirtano tranquillamente con la grande industria, come dimostra la forte presenza di Confindustria all’interno di maggioranza e opposizione. Anche la scelta di Luca Cordero di Montezemolo da parte di Berlusconi come ambasciatore del made in Italy non può non sollevare dubbi: proprio durante la sua presidenza si è aggravato da una parte il fenomeno del falso Made in Italy e dall’altra la precarizzazione del lavoro. Colui che dovrebbe “testimoniare nel mondo le tante eccellenze e cose positive dell’Italia” per dare “un contributo al Paese nell’interesse generale”, evidentemente, non ha fatto molto per spingere i partiti a rafforzare le norme, né per invogliare gli imprenditori a non cedere all’ingordigia dello sfruttamento della manodopera cinese o per tutelare gli interessi delle pmi messe fuori mercato dalla concorrenza sleale.

Difficile quindi attendersi dal presidente della Fiat una pressione in sede Ue per l’approvazione di una legge adeguata in materia: più probabile che la sua azione si concentri solo sulla tutela dei diritti delle grandi firme dalle imitazioni da parte di aziende terze, come nel caso dei Ferrero Rocher taroccati da una azienda cinese, e sull’ulteriore riduzione dei diritti dei lavoratori e dei costi di manodopera. Come ha sottolineato all’inizio di maggio il numero uno della Confederazione italiana agricoltori, Giuseppe Politi, infine, il candidato a questo ruolo dovrebbe “tener conto di tutti i settori” mentre il neoambasciatore ha caratterizzato il suo mandato in Confindustria per aver dato voce alla sola componente industriale.

Diana Pugliese
Fonte:www.rinascita.info
Link: http://www.rinascita.info/cc/RQ_Economia/EkEEkAkZuAJGBvzUwM.shtml
20.05.08


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