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il manifesto di Ventosoffia


SanPap
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Roma, 11 ottobre 2018

La Biston Betularia, una falena dalle ali chiare, punteggiate da minuscole macchie più scure, svolazzava indisturbata, nei primi dell’Ottocento, fra la selvaggia chiarità delle campagne inglesi. Si posava, con flemma britannica, sulle betulle indigene, ricche di licheni bianchi: lì, immobile, poteva mimetizzarsi perfettamente; e riposare. Si trovava, infatti, nel proprio elemento, con cui aveva ingaggiato un progressivo rapporto simbiotico: millenni di lotte, fughe, inganni e crudeltà venivano racchiusi in un insettino solo apparentemente insignificante. In esso, però, vivevano milioni di ascendenti e, soprattutto, ancor più, i nemici sconfitti. Si poteva ben dire che il complesso e ingannevole vestimento le era stato donato dalla lotta coi predatori più accaniti. Ora prosperava naturalmente, fra gli alti e i bassi di un’esistenza fugace, aleatoria e libera. Le guerre non mancavano; il gelo poteva uccidere; la farfallina era, tuttavia, perfetta: strutturata per la vasta eternità.
Poi venne la Rivoluzione Industriale. Gli aggregati metropolitani cominciarono a produrre tonnellate di fuliggine da carbone. Le betulle annerirono, assieme ai licheni della superficie. La bianca falena, ora, risaltava con evidenza accecante sui tronchi: i predatori procedettero lentamente allo sterminio. Una variante scura della betularia, una popolazione fin lì assolutamente minoritaria, vide lentamente e irresistibilmente crescere le probabilità di salvezza. Le proporzioni si invertirono: da 99% a 1%; da 1% contro 99%.
Le Carbonarie, sui tronchi anneriti dal progresso, si mimetizzavano con facilità; le altre non avevano, invece, alcuno scampo.
Intanto l'immaginario Oliver Twist, ignaro della strage, popola l'Inghilterra, terra di confusione, nelle pagine di uno scrittore di Portsmouth.
Come accennai nell’esame del romanzo di James. G. Ballard, Deserto d‘acqua: non occorre indottrinare miliardi di persone; basta mutare, impercettibilmente, i fondali spirituali dell’esistenza.
Nel 1980 usciva un film con Lino Banfi, Fracchia la belva umana: la gag centrale consisteva in un grossolano stornello: Benvenuti a ‘sti frocioni. Oggi, a nemmeno quarant’anni, la trovata comica sarebbe impossibile da trasporsi in video. Cos’è accaduto in pochi decenni? Quasi tutto. Ciò che dava senso alla vita quotidiana si è ribaltato. Anche qui possiamo ricorrere con profitto alla metafora dell’anello di Möbius: nel 1980 ci siamo incamminati; l’itinerario sembrava normale, lo stesso di sempre; cosa c’era di diverso? Nulla! Oggi, nel 2018, siamo arrivati: cos'è cambiato fra noi, ditemi: quasi nulla: si lavora, ci si innamora, si muore, si nasce ... eppure siamo a testa all’ingiù! Upside down! Si dice: la rivoluzione digitale … ma la rivoluzione digitale è un mezzo, potentissimo, di qualcosa d’altro … ovvero della trasvalutazione di tutti i valori … introiettata come la pillola di Mary Poppins … con un poco di zucchero … adulterato, ovviamente.

La fiaba della farfalla di Manchester ebbe un lieto fine che coincise con l’avvento del metano. Via il carbone ecco il metano, addio polvere negra! I tronchi vengon dilavati con maggior frequenza dalle piogge autunnali, si rischiarano di nuovo … ora è la falena scura ad avere la peggio … si ha un riequilibrio … un fifty-fifty, diciamo … che non è la proporzione pristina, ma sempre meglio dell’estinzione.
L’1% della Bistularia chiara ha resistito, nel ghetto, per due secoli, sull’orlo della sparizione; i fondali, poi, sono mutati; con essi, assai velocemente, è tornata la Gente Antica.

Gli uomini non son farfalle o falene. Essi recano fardelli più devastanti. E poi: non debbono temere l’estinzione fisica, bensì quella culturale. La scintilla dell’umanità deve preservarsi. E la custodia di questo tizzone ardente è nelle mani di chi ha una più alta responsabilità: l’Italia. L’Italia, gli Italiani. Al solo udire tali parole (custodia, responsabilità) la schiacciante maggioranza scoppierebbe a ridere. O si limiterebbe a un sogghigno cinico. Ciò accade perché ognuno di noi è stato reso tale. Scettico sul proprio ruolo, e di uno scetticismo che non prelude al fatalismo stoico, ma alla sterilità ridanciana. Ma va bene così. A chi ha una responsabilità da coribante o vestale conviene l’esser in pochi. I felici pochi. A costituirsi quale gruppo elitario, addirittura prossimo all’entità minima. Per questo io ho sempre accennato ai Diecimila rifacendomi all’Anabasi di Senofonte. Diecimila italiani affini per tradizione e sangue … difficile, ora, trovarne più di venti, ma non dispero. Essere italiani, in tempi di fuliggine culturale, artatamente dispersa nei cieli di un mondo che si avvia a raggrumarsi in un’entità amorale unica, la Monarchia, equivale davvero a passare per la porta stretta. Il canapo nella cruna dell’ago. Essere italiani, italiani forti, intendo, significa provare brividi in luoghi precisi della Patria in cui il genius loci ci assale improvviso sino a rivelarsi nella sua squassante interezza. E tale rivelazione non è per tutti. Ci si deve preparare. La preparazione consiste in una liturgia lustrale che, a volte, in assenza di maestri, occupa l’intera esistenza. Riconosciamolo: si può morire senza essere mai stati Italiani. Comprendo: la parola Italia è pervertita da mille usi. Non so trovarne altre, però. Italia. L’Italia. Ho già accennato alla mistica italiana: una cura, una cerimonia; in vista della guarigione. L’Italia risiede nei libri, nei volti, nelle pietre, nei paesaggi; soprattutto in una trama invisibile agli occhi profani che diviene chiarissima a chi si è lavato ogni fuliggine dal corpo. La fonte del Sorga di Petrarca? Egli sapeva. Gli studi notturni di Machiavelli. Le acque rosse degli Etruschi. Il tempio della Fortuna di Palestrina. Rocce erratiche. Iscrizioni rupestri. Alberi. Ogni affioramento parla. Così come parla un rifiuto. Una sconfitta. O vivere una doppia vita che sorride di giorno e disprezza nell’intimo: tecniche di sopravvivenza in tempi di Rivoluzione Amorale. Dire un no che è un no: non per commentare un post: per vivere quel no. La fuliggine dell’Usura e dell’Amoralità ha ricoperto i nostri rifugi naturali. Ciascuno di noi rifulge su di essi come una falena indifesa. Vi siete mai chiesti perché il potere non affonda il coltello sino all’impugnatura? Perché ci tengono in vita? Perché, tutto sommato, serviamo. Servire è il nostro destino. Servire, contenti della nostra condizione, mutato il gene da bianchi a carbonarii. L’alternativa è quella di resistere, come ha resistito la falena bianca, in attesa di una nuova mutazione epocale. Per quasi due secoli.

Charles Darwin dedica varie pagine ai piccioni. Egli stesso ne fu allevatore accanito. Era affascinato dagli incroci per ottenere nuove razze. In una nidiata venivano selezionati, a esempio, gli esemplari col gozzo più pronunziato e questi, poi, isolati in cattività; la caratteristica si propagava, in tal modo, ai discendenti con sempre maggiore evidenza: ed ecco, allora, i piccioni gozzuti: desiderati, progettati, voluti, anelati; e ottenuti, infine, con poco sforzo e crudeltà da domatore zootecnico. Selezione artificiale. Gli altri esemplari, quelli inutili ai fini del manipolatore, finivano direttamente nelle cucine onde unire l’utile al dilettevole delle patate arrosto.

La selezione, da artificiale, può degenerare in negativa. Selezione artificiale negativa. Da Wikipedia. “La selezione negativa riguardo alla selezione artificiale avviene quando vengono scelti i tratti negativi di una specie piuttosto che quelli positivi”. A volte la selezione negativa si crea per colpa di errori di valutazione: i regolamenti di caccia e pesca (o sanitari) che impongono di salvaguardare gli esemplari più piccoli (spesso più deboli) creano una fauna sempre più piccola; e debole. A volte, invece, la selezione negativa è dolosa. Questo il nostro caso. Il potere seleziona, stavolta, gli esseri umani dai tratti più anonimi, indifferenziati, piatti, senza storia; d’alto livello tecnico, ovvero di crassa stupidità. Gli europarlamentari del Nord Europa, azzimati, seriali, e fanatici nel perseguire il cupio dissolvi delle nazioni, gli apolidi ebrei alla Moscovici e Attali, le piccionaie merdose del progressismo configurano un esercito da selezione negativa. Tali pennuti da laboratorio, senza palpebre, impartiscono direttive per selezionare ulteriormente il peggio, a cascata: abbiamo, quindi, i sub-sub-dominanti: i Monti, i Cottarelli, i Boeri, le Boldrini; tutti antitaliani, ovviamente, poiché homunculi da provetta ecumenica. La loro aridità è raggelante. L’incomprensione dell’Italia altrettale. Di solito questi esemplari non possiedono vita propria. Cosa facciano nel tempo libero: questa una curiosità che mi piacerebbe soddisfare. Mai vista passione nei loro occhi. Hollow men, nel cui regno non vi sono occhi. Il genius loci, infatti, non opera in loro. A tali visitors pare sia stato reciso, sul tavolo di un’autopsia aliena, il contatto fra il paleoncefalo e un cervello postmoderno, ricreato all’uopo, e che consta di pochi kilobyte. Un tocco di carne buono a cantilenare le identiche sciocchezze ad infinitum, con tenacia asociale, schizoide, disancorata da qualsiasi realtà vissuta. I sessantottini al potere, rivoluzionari un tempo, reazionari oggi, sono la perfetta esemplificazione dell’idiozia distillata negli alambicchi zootecnici. Come i tecnocrati, i libertari, i buoni a oltranza. Si riconoscono subito questi piccioni gozzuti: non parlano mai dell’Italia; non la conoscono; non gli dice nulla. Essi obbediscono a qualcosa d’altro, a pseudoricordi, a leggi inserite nei loro stanchi gangli cancerosi: e tanto biascicano. Le Gelmini, le Brambilla, le Carfagna, i Gasparri non sono da meno, purtroppo. Casapound, Forza Nuova, Salvini … lasciamo stare, per carità.

Il governo zootecnico (neologismo ideato da Marco Della Luna):
fuliggine epocale per invertire alla radice i sentimenti e le tendenze delle culture residue: Italia, Mesopotamia;
selezione artificiale negativa di elementi o dannosi o innocui in vista della creazione d’una razza (fisica e spirituale) senza speranza di redenzione.
Non è cominciato oggi il tentativo di governo zootecnico. Solo oggi, tuttavia, si hanno i mezzi per attuarlo.

Il racconto perturbante par excellence: Der Sandmann di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Il protagonista usa occhiali e binocoli del sinistro Coppelius, l’uomo di sabbia. Scambia, perciò, reale e irreale, nel passato e nel presente: si innamora perdutamente di una bambola, Olimpia, e cerca di uccidere Clara, la fidanzata, credendola, proprio lei, premurosa e vitale, un malefico automa. Il suo è un mondo al contrario che lo reca nell’infelicità estrema. La morte per suicidio sarà un esito inevitabile. Occorre gettare via occhiali e binocoli donati dai saltimbanchi del potere, tornare a noi, a ciò che si è stati, da sempre, rinnegare, finalmente, la falsità della tecnica che non è mai scienza. Guardare faccia a faccia. Gli automi appariranno, allora, per ciò che sono: esseri senza vita, morti, disarticolati, con orride occhiaie cave: “Nataniele … aveva veduto anche troppo chiaramente che il viso di cera mortalmente pallido di Olimpia non aveva occhi, e che al posto di questi c’erano delle nere orbite: era una bambola senza vita … vide allora per terra due occhi sozzi di sangue che lo fissavano … le sue parole smorirono in un ruglio orribile, animalesco …”.

Il filmino di John Carpenter, Essi vivono!: la versione au contraire, ottimistica e facilona, coi suoi wrestler e i Ray-Ban rivelatori, de L’uomo di sabbia.

Una nuova speranza: i congiurati rientrano nelle catacombe. Si dedicano anima e corpo alla causa. La dedizione totale, inscalfibile, a ciò che si è stati riattiva predisposizioni antiche: i Diecimila si adattano all’ambiente culturale estremo, ostile, alla fuliggine della mediocrità come le falene inglesi; mutano, paradossalmente divenendo ancor più sé stessi: Konrad Lorenz: “Quando … alle altitudini più elevate, dove la pressione è bassa e l’aria … povera di ossigeno, il sangue dell’uomo diventa più ricco di emoglobina e di globuli rossi … queste modificazioni adattative non derivano affatto dal solo cambiamento delle condizioni ambientali. Esse sono dovute anche all’influsso esercitato da un programma genetico che si è elaborato col metodo per tentativi e successi del genoma e che ora è a disposizione, come adattamento già preformato, di questi casi specifici”.
In altre parole: cosa è sepolto in noi? Resistere, come Italiani, predispone all’insorgenza di nuove forze occulte? A patto di rimanere noi stessi? Come si è potuto dilapidare tanto in pochi decenni, questa la disperazione. E se non fosse così? Odio la speranza poiché relega nella letargia. Eppure, chiediamoci: possibile che Canne, Odoacre, Zama, Campaldino, Alberti, Torricelli, Lepanto, i Campi Raudii, tutto questo sangue, oppure il Cristo di Marcellino e Pietro, Pia de’ Tolomei, Giuseppe in Egitto, Enea Piccolomini, Cola di Rienzo, la fede, le astuzie, la follia omicida, la protervia di tremila anni siano svaporati? Non aspettano, forse, tutte queste realtà, annidate nelle circonvoluzioni del cuore? In attesa di originare uomini differenti? Uomini in grado di resistere, sempre gli stessi, ma con nuove capacità di superare ciò che ci appare ineluttabile?

Quello che oggi viene deriso, dalla religione alla liturgia spirituale all’ansia di una giusta gerarchia, racchiude in sé armi potenti. Per tale motivo impazzano i critici della ragion idiota abili a gettare acido negli ingranaggi vitali più delicati. Fosse per loro la vita d’un uomo consisterebbe in pillole liofilizzate, in un lavoricchio e in pochi talleri buoni per il vizio pervertito. Perché si deride la preghiera come appannaggio di bigotti? Semplice, perché si vuole sottrarre anche tale riquadro meditativo al tenero esserino; privare l’ominicchio del futuro di una risorsa ulteriore. Gli Odifreddi e compagnia radicale hanno un bel dire: sei bigotto. La preghiera non si è certo evoluta per creare dei bigotti: essa serviva una causa più profonda. La preghiera si è formata per permettere all’Italia di essere ciò che è stata. Lo dico da miscredente: abbandonare acquesantiere e inginocchiatoi per whatsapp non ci ha resi liberi o migliori, ma dispersivi, fatui, disattenti, coglioni. Una tradizione distillata nei millenni vanta una complessità talmente alta che il suo fenotipo ultimo (la supplica a un Dio crocifisso) rappresenta solo la vetta ingannevole d’una montagna ciclopica: id est: raccoglimento, liturgia, pathos della distanza, umiltà, accettazione del sacrificio, capacità di adattarsi a una trama più alta, anelito al silenzio per donare valore e senso alle parole chiave.

Giampaolo Dossena, storico eretico della letteratura italiana, una volta disse, all’incirca: per comprendere Dante occorre comprendere non la teologia tomista, ma certi boschetti medioevali dell’Italia centrale. Giusto. E certi colori, aggiungo io. E alcune folli predilezioni simboliche. I colori: lapislazzuli, nero di vite, malachite, calce spenta. E anche quel surrealismo, per noi urtante, che ci sconcerta, assieme a Borges, nella sfilata purgatoriale al canto XXIX; lì i quattro animali hanno sei ali punteggiate da occhi (temibili come quelli d’Argo) e le tre donne sono rispettivamente rosso fuoco, verde smeraldo e color della neve. Ma tali processioni, d’apparente cattivo gusto, celano insistite metafore della conoscenza, tutte italiane. In esse si condensano il Medioevo, la Cristianità e il mondo classico. Avere scienza immediata, dopo lungo studio, di tale incongruo espressionismo consente di ritenere in sé stessi almeno tre universi culturali sterminati.
Ma anche alcuni luoghi oggi scomparsi - torri, ponti, ruscelli, castelli, chiese - congiurano a una composizione dell’Italia come Anima. Quando Dante fa piangere Manfredi di Svevia sui propri resti dissepolti e sconsacrati:

L’ossa del corpo mio sarieno ancora
in cò del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia della grave mora.

Or le bagna la pioggia e move 'l vento
di fuor del regno, quasi lungo 'l Verde,
dov’ei [il vescovo di Clemente IV] le trasmutò a lume spento.

si avverte, nonostante i riferimenti a minime entità geografiche che poco dicono ai non Italiani, l’incombere di una terra grandiosa e inesauribile.
L’Italia fu questo e, incredibile a dirsi, è ancora questo; il Verde, Benevento, Manfredi e Clemente IV sobbollono in noi, misconosciuti, a creare salvezze nuove, inaspettate vie di fuga.

Non c’è bisogno di comandanti o di nuovi duci o salvatori che non arriveranno mai. Li abbiamo già in noi. Una nuova maieutica si impone. Per raffinarla occorre riandare per vecchi sentieri nel bosco. Basta liberarli, scacciare rampicanti ed erbe infestanti. La trama, operata dall’uomo per tanto tempo, la si avverte subito. Riaprire, disboscare. Riconoscere. Mimetizzarsi. Resistere. Attendere l’insorgenza di nuove linfe. Il sangue si vivifica. Il corpo pensa in nostra vece, inaspettati talenti tornano alla luce. Ci si accorge che saperi dimenticati poiché recati al dileggio tecnocratico nascondono una storia profonda. Leggere, studiare, esercitarsi. Dire no. Un nuovo giro sul nastro di Möbius e si tornerà a rivedere le giuste costellazioni.

Alceste


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Tibidabo
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Leggendo mi chiedevo ma chi sarà questo signore che non scrive male ma è cosí tanto compiaciuto di sé...e dove diavolo vuole arrivare con questa storia della falena nera e bianca...
Proseguendo affiora l'insofferenza...la tira tanto per le lunghe...si pavoneggia senza nemmeno dissimularlo...mi viene un dubbio...vado a vedere in fondo di chi è la firma...Alceste...smetto di leggere...


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SanPap
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e perché hai smesso di leggere ?
cosa ti ha infastidito, stile a parte ?
mi sembra che dica cose sensate: preservare la cultura occidentale in attesa di tempi migliori; in un certo senso quello che hanno fatto i monaci benedettini nel medioevo.


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Tibidabo
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SanPap;239746 wrote: e perché hai smesso di leggere ?
cosa ti ha infastidito, stile a parte ?
mi sembra che dica cose sensate: preservare la cultura occidentale in attesa di tempi migliori; in un certo senso quello che hanno fatto i monaci benedettini nel medioevo.

Ma no, era per fare il rompino.
Non sono un fan di Alceste, mi sembrano un po' luoghi comuni abbelliti da citazioni messe qua e là, magari mi sbaglio.


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SanPap
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il problema è che non credo, non credo più, in soluzioni veloci: ho visto sparire la DC, il PSI, il PCI, il PD, FI; ho vissuto il boom economico, gli anni di piombo, la guerra finanziaria; ho visto nascere e sparire una serie infinta di personaggi, tutti a dire e ridire le stesse cose; tutti a fare e rifare le stesse misere cose; sono sempre più convinto che il sistema non cambierà fino a quando non lo avremo portato a crollarci sulla testa; o sotto i piedi; solo allora i sopravvissuti, forse, svilupperanno nuove forme di civiltà. Forse. Mi piace pensare che tramandare la cultura dell'occidente possa servire, ma sento Rodolfo il Glabro che ride.


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PietroGE
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Se il punto centrale del 'manifesto' è la difesa e la conservazione della civiltà occidentale manca un abbozzo di implementazione di questa visione, perché visione resta, non sviluppa niente se non ricordi.
La civiltà occidentale nasce con gli occidentali e morirà se scompaiono gli occidentali. Tutto qui.


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SanPap
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@PietroGE
per il momento mi pare di capire che l'implementazione di questa visione sia quello di creare un comune sentire, una comune lingua: sulla destra del sito di Alceste ci sono elencati una serie di suggerimenti; mi ricordano la proposta che nei primi anni del 2000 fece FdF (allora editore di Blondet); le due proposte sono analoghe e complementari, laica quella di Alceste, cristiana quella di FdF e Blondet.


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