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La cedola fa ricche le Coop dove vanno i dividendi


dana74
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21 MAR 2014 11:55
LA CEDOLA FA RICCHE LE COOP – DEI 550 MILIONI DI DIVIDENDI DI UNIPOL-SAI 335 MILIONI VANNO A UNIPOL E 53 ALLE COOP. ECCO RIPAGATO LO SFORZO ECONOMICO FATTO PER AIUTARE MEDIOBANCA E UNICREDIT E CACCIARE I LIGRESTOS DA FONSAI
Dei 550 milioni che Unipolsai si appresta a distribuire come dividendo, poco più di 335 milioni finiranno nelle tasche del gruppo bolognese guidato da Cimbri. E dei 120 milioni di cedola del gruppo Unipol, 53 milioni andranno alle coop. Che si erano svenate con gli aumenti di capitale per comprare Fonsai...

1.CON I DIVIDENDI A UNIPOL UN ‘TESORETTO' DA 335 MLN E ALLE COOP 53 MLN
Carlotta Scozzari per Dagospia

Se si sfogliano i giornali questa mattina, alle pagine economico-finanziarie, il verdetto è unanime: dopo i brillanti risultati del 2013, Unipolsai, quest'anno, ricompenserà i propri azionisti con un dividendo stellare.
Occorre perciò domandarsi chi siano i grandi azionisti del gruppo assicurativo nato l'anno scorso dalla fusione tra la Fondiaria-Sai, la Premafin e la Milano Assicurazioni della famiglia Ligresti e il braccio assicurativo del gruppo Unipol. La risposta è semplice: la stragrande maggioranza delle azioni Unipolsai è saldamente in mano al gruppo Unipol, che è quindi il soggetto che più beneficerà dello stacco della succulenta cedola. E che a sua volta è controllato dal mondo delle cooperative.

Il gruppo bolognese guidato da Carlo Cimbri ha, infatti, in portafoglio il 63% del capitale ordinario di Unipolsai, corrispondente a circa 1.417 milioni di singole azioni. Ora, se si considera che per ogni titolo ordinario il gruppo assicurativo ha appena annunciato un dividendo di 0,19559 euro, questo significa che nelle tasche della capogruppo Unipol stanno per entrare 277,25 milioni di euro freschi freschi.
Ma non è tutto, perché il gruppo di via Stalingrado è anche di gran lunga il primo detentore di titoli risparmio di tipo "B" di Unipol: ne possiede il 68% del totale, che equivale a circa 256 milioni di azioni sui 377 milioni totali. E siccome le risparmio di tipo B staccheranno pure loro una bella cedola da 0,22497 euro per azione, al gruppo Unipol andranno altri 58 milioni di euro.

In altri termini, dei 550 milioni che Unipolsai si appresta complessivamente a distribuire in forma di dividendo, poco più di 335 milioni finiranno nelle tasche del gruppo bolognese. Che viene così ricompensato della faticaccia fatta nel 2012, con la battaglia senza esclusioni di colpi ingaggiata contro la Sator di Matteo Arpe e la Palladio di Roberto Meneguzzo e Giorgio Drago, per assicurarsi la ex Fonsai e la Milano assicurazioni.
A combattere al fianco di Cimbri erano state niente meno che la Mediobanca di Nego Nagel e l'Unicredit di Federico Ghizzoni, entrambe creditrici dei Ligrestos. Tra l'altro, proprio alla Sator di Arpe, cui è rimasto in pancia un 3% circa del capitale ordinario di Unipol un po' come fosse una medaglia di guerra, andrà un premio di consolazione in forma di dividendo pari a poco più di 13 milioni.

Riassumendo, quindi, su un utile netto consolidato che nel 2013 si è attestato a 694 milioni (si sale a 996 milioni considerando il contributo singolo di Fonsai, Premafin, Unipol assicurazioni e Milano assicurazioni), Unipolsai ha deciso di distribuirne ai soci 550, 335 dei quali alla capogruppo Unipol. Una bella fetta, non c'è che dire.
Ma ieri, oltre alla controllata assicurativa, anche lo stesso gruppo Unipol ha annunciato lo stacco di un dividendo ai propri azionisti. In questo caso, su un utile netto consolidato di 188 milioni di euro, ben 120 milioni, oltre l'80% dei profitti, finirà nelle tasche degli azionisti.
E quindi in prima battuta del mondo delle cooperative, che blinda il 50,75% del capitale ordinario del gruppo bolognese attraverso la Finsoe guidata da Adriano Turrini e Milo Pacchioni, il cui azionariato, a sua volta, come si legge da sito web, "è composto in massima parte da imprese del movimento cooperativo aderenti a Legacoop" (l'associazione fino al mese scorso presieduta dall'attuale ministro del Lavoro, Giuliano Poletti). C'è poi un ulteriore 3,6% del capitale ordinario di Unipol che fa capo a Coop Adriatica.

In altri termini, il mondo delle coop ha in mano 241,3 milioni di azioni ordinarie del gruppo Unipol. E se si considera che i titoli in questione staccheranno un dividendo da 0,1615 euro l'uno, si arriva a calcolare per Finsoe e Coop Adriatica un bel gruzzoletto da quasi 39 milioni di euro. Ma anche questa volta non è tutto, perché le coop guidano pure le fila dell'azionariato privilegiato di Unipol, con in mano il 28,8% del totale distribuito tra Coop Adriatica, Coop Estense e Nova Coop.
E dal momento che i titoli privilegiati Unipol si apprestano a staccare un dividendo di 0,1815 euro l'uno e le coop ne hanno in portafoglio circa 79 milioni di pezzi, ciò si traduce in una cedola da 14 milioni. Dunque le coop socie di via Stalingrado a breve riceveranno dividendi per un totale di 53 milioni sui 120 complessivamente distribuiti da Unipol. Del resto, con gli aumenti di capitale serviti all'ad Cimbri per comprare Fonsai si sono svenate. In qualche modo andranno pure ricompensate.

2.UNIPOLSAI, AI SOCI CEDOLA DA 550 MILIONI. IL GRUPPO VARA L'AUMENTO PER LA BANCA
Vittoria Puledda per ‘la Repubblica'

Ritorna il dividendo per gli ex soci Fonsai, dopo quattro anni: UnipolSai, al suo primo anno di attività pienamente integrata ha infatti chiuso il bilancio con un utile netto consolidato di 694 milioni di euro e un risultato ante imposte di 1.172 milioni di euro: il doppio di quanto era stato previsto nel piano industriale, ha sottolineato l'ad Carlo Cimbri. «Abbiamo mantenuto gli impegni», ha detto, lasciando comunque invariati gli obiettivi del piano al 2015.
Verranno distribuiti ai soci utili per 550 milioni, in parte anche con la distribuzione della riserva avanzo di fusione. Nel dettaglio, la raccolta assicurativa diretta è stata pari a 15,4 miliardi di euro, con la raccolta danni a 9,3 miliardi (-8,1%) e quella vita a 6,1 miliardi (+9,1%). Il combined ratio danni è pari al 93,3% (101,9% nel 2012) mentre il margine di solvibilità è pari a 1,5 volte i requisiti regolamentari.
Diverso il discorso per Unipol Gruppo Finanziario, che ha chiuso il 2013 con un utile di 188 milioni di euro rispetto ai 426 milioni del 2012 (esercizio considerato tuttavia dal gruppo non confrontabile, in cui la parte Fonsai era consolidata solo per il secondo semestre) e che a sua volta distribuirà il dividendo. Sui risultati della holding hanno avuto impatto divergente il buon andamento della parte assicurativa evidenziato da UnipolSai - e le difficoltà della banca, non a caso Cimbri ha confermato di sentirsi «sereno sull'assicurazionee vigile sulla banca».

Il comparto bancario ha chiuso con una perdita netta di 296 milioni di euro (21 milioni l'anno prima), dopo accantonamenti su crediti per 306 milioni; l'azzeramento di avviamenti e la svalutazione di altri attivi finanziari hanno pesato per 176 milioni. Ugf ha fatto a sua volta accantonamenti per 200 milioni a fronte di un impegno di indennizzo nei confronti di Unipol Banca sui crediti non performing; poi ci sono statii costi di integrazione per 206 milioni.
Commentando i dati con gli analisti, Cimbri ha annunciato che entro il 2014 verrà fatto un aumento di capitale da 100 milioni sulla banca, che a fine 2013 aveva un core tier 1 ratio del 7,7%; la ripartizione del costo dell'aumento (se solo Ugf o anche proquota UnipolSai), fanno sapere dal gruppo, «sarà oggetto di valutazione» . Per quanto riguarda la gestione del portafoglio strutturati,a fine 2013 Unipol aveva ceduto 1,15 miliardi di euro di titoli con una plusvalenza di circa 40 milioni e altri 300 milioni di strutturati sono stati ceduti nelle ultime settimane.
http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/la-cedola-fa-ricche-le-coop-dei-550-milioni-di-dividendi-di-unipol-sai-74045.htm


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dana74
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la metto qui per non allungare lista del forum

2014, FUGA DALLE IMPRESE

Tutte le bugie delle banche sulla qualità dei crediti
Gli investitori non si fidano degli attivi e i grandi istituti quotano meno degli omologhi spagnoli
Antonio Vanuzzo

19/03/2014
Telecom Italia, Rcs, Tassara, Sorgenia. Non sono soltanto i creditori troppo grandi per fallire a deprezzare i titoli delle banche di sistema. Oltre al rischio Paese – elemento al di fuori del controllo degli istituti di credito – è il business tradizionale ciò che non convince gli investitori istituzionali. In altri termini, il valore degli attivi dichiarato in bilancio. La doppietta del colosso ameriano Blackrock – divenuto primo azionista di Unicredit al 5,24% dopo essere salito a fine febbraio al 5% di Intesa Sanpaolo – va letta in un’ottica da fondo di private equity, ovvero con un investimento cospicuo ma limitato nel tempo per scommettere sul rialzo dei corsi azionari che seguirà alla ripresa timidamente affacciatasi nel quarto trimestre del 2013.
Due sono gli indicatori per capire quanta polvere è stata nascosta sotto il tappeto sperando nel miglioramento del ciclo economico: l’avviamento e i crediti dubbi (non performing loans, Npl). Due macigni che influiscono sulla capacità di dare soddisfazioni agli azionisti ripagandoli della fiducia con il dividendo, argomento delicato da quando Banca d’Italia ha imposto l’aumento del tasso di copertura sugli Npl. Le regole di Basilea e gli accantonamenti assorbono capitale, e se il business non gira l’unica leva possibile è diminuire questi ultimi per non far arrabbiare i propri soci, che in tanti casi sono le medesime Fondazioni che poi erogano finanziamenti e prebende.

LEGGI ANCHE “Non si presta più denaro”. Firmato: le banche italiane Antonio Vanuzzo

L’emblema è Unicredit, a cui la pulizia di bilancio è costata 15 miliardi di perdite nel 2013 dopo i 10,6 miliardi di svalutazioni lorde del 2011. Nella presentazione del piano al 2017 c’è una slide (vedi sopra), riportata dal blog Linkerbiz, in cui Piazza Gae Aulenti evidenzia come il livello di accantonamenti abbia raggiunto nel 2013 la media europea. Non solo. Gli accantonamenti sui crediti performing sono saliti dallo 0,6% all’1,1 per cento: ciò significa che persino le esposizioni in bonis presentano un certo grado d’incertezza. Meglio dunque preparare il paracadute in vista del comprehensive assessment della Bce, appena cominiciato con l’asset quality review prodromica agli stress test. Stesso discorso per Intesa Sanpaolo: allo scorso settembre, ha alzato a 79 punti base – rispetto ai 77 di settembre 2012 – il tasso di copertura sui crediti in bonis, aumentando la riserva di 25 milioni nel terzo trimestre dell’anno scorso, a quota 2,4 miliardi.

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Basterà? Non c’è da stare tranquilli: i dati diffusi ieri dall’Abi, l’associazione bancaria italiana, evidenziano una crescita delle sofferenze a 160,5 miliardi, con un’incidenza sugli impieghi dell’8,4%, livello più alto da aprile 1999 e un vertiginoso aumento di 34,3 miliardi su gennaio 2013 (+27%), e di 60,2 miliardi su gennaio 2012. Sebbene le pulizie di primavera abbiano «migliorato la salute del sistema creditizio in un momento in cui il contesto operativo si sta stabilizzando», ha scritto l’agenzia di rating Fitch in una nota, «resta da vedere se saranno necessari altri sforzi». Gentilezze diplomatiche a parte, il repulisti potrebbe durare a lungo. A suggerirlo una spia che dovrebbe lampeggiare insistentemente nella sala macchine degli istituti: il 13% del flusso di nuove sofferenze (dati 2012) deriva da posizioni precedentemente classificate in bonis. Delle due l’una: o i banchieri hanno bisogno di un paio d’occhiali nuovi o hanno preferito non guardare fino a quando hanno potuto.

Il risultato, come dimostra l’infografica qui sopra, è che un istituto iberico di medie dimensioni come Bankinter sul mercato viene scambiato a 1,5 volte il suo valore di libro, mentre i giganti Intesa e Unicredit solo a 0,7 volte. Dunque il mercato considera che la storia raccontata dagli istituti al mercato sulla qualità degli attivi sia per così dire romanzata. Proprio per questo, gli istituti costano poco e i fondi americani sarebbero pronti a entrare nel loro azionariato alla prima occasione buona. A cominciare da Pioneer e Fineco, papabili spin off di Unicredit in odor di quotazione.

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Il tema vero però rimane la bad bank, impensabile senza una garanzia pubblica sulle sofferenze, magari tramite la Cassa depositi e prestiti. Come ripetono sottovoce da mesi advisor e banchieri d’investimento, che la cessione di crediti non performing si realizzi trasformandoli in equity o meno, tutto si gioca sul prezzo. Per questo l’interessamento del fondo KKR sui crediti dubbi di Intesa e Unicredit si è scontrato, a quanto si sussurra, con la ritrosia delle banche ad accettare scostamenti significativi dal valore nominale delle esposizioni, per non essere costrette ad aumentare gli accantonamenti che bruciano capitale prezioso da conteggiare ai fini di Basilea. «Se gli istituti dovessero iscrivere a bilancio le esposizioni asset based, come l’immobiliare, al valore di mercato il loro patrimonio netto diventerebbe immediatamente negativo», dice a Linkiesta un advisor specializzato in ristrutturazioni. La soluzione, per ora, è stata “fare come in Giappone”, ovvero aspettare che passi la buriana – mantenendo chiusi i rubinetti del credito – sperando che l’aumento dell’inflazione alleggerisca il peso dei debiti. Una scorciatoia possibile anche grazie alla mole di prestiti concessi a revoca, senza cioè covenant waiver (obiettivi per l’azienda in termini di performance, ndr) rinegoziabili trimestralmente – che fanno emergere le difficoltà – ma con la sola clausola di restituzione immediata. Crediti che saranno esaminati dagli ispettori della Bce – 26 per Intesa, 25 per Unicredit, 16 per Mps e Banco Popolare, 14 per Ubi e Mediobanca, 13 per Carige, 12 per la Popolare di Milano – sbarcati in Italia da qualche settimana.

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Dal canto loro, le società di consulenza che fino a una decina d’anni fa suggerivano di sfruttare la leva del commerciale ora consigliano il repricing dei crediti esistenti e lo sviluppo all’estero, leva evidente nel piano industriale di Mediobanca e, con ogni probabilità in quello di Intesa Sanpaolo, che sarà presentato tra una settimana. Il cambiamento del paradigma, evidenziato nel Financial Outlook 2012-2015 dell’Abi, prevede che «Nel medio periodo la crescita degli impieghi dovrà essere inferiore alla raccolta dei residenti». Si potrebbe titolare: 2014, fuga dalle imprese. Non a caso il governo ha proposto lo sblocco totale dei 68 miliardi di crediti delle imprese nei confronti della Pa entro giugno. Se i minibond sono ancora poco battuti tanto per il loro costo in termini di rendimento da garantire agli investitori quanto per la poca voglia degli imprenditori di certificare i loro libri contabili, l’unica via possibile rimane attingere alle tasche del solito Pantaolone.
http://www.linkiesta.it/banche-italiane-bugie?utm_medium=referral&utm_source=pulsenews


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