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Le cifre dell´accanimento terapeutico


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Accade spesso che un malato venga curato senza prospettiva alcuna di guarigione? Capita di frequente che venga prolungata medicalmente (artificialmente, con pratiche più o meno invasive, più o meno dolorose) la vita di chi, comunque, è destinato, irreversibilmente, a non farcela? Sono, questi e altri ancora, i difficili interrogativi che rendono il senso dell´istituto del Testamento Biologico (o Direttive anticipate): uno strumento giuridico (di cui si discute in Parlamento in queste settimane), finalizzato a tutelare il paziente nei confronti dell´accanimento terapeutico. «A Buon Diritto. Associazione per le libertà» ha promosso la prima ricerca in Italia sull´opinione della classe medica nei confronti del Testamento Biologico. Un´anticipazione dei dati emersi da questo studio, realizzato da Enzo Campelli e da Enza Lucia Vaccaro, dell´Università «La Sapienza» di Roma, evidenzia come, secondo un campione rappresentativo (266 intervistati in 19 ospedali distribuiti sul territorio nazionale), l´accanimento terapeutico sia una pratica notevolmente diffusa.

Il 57% dei medici intervistati (oncologi, anestesisti, rianimatori e appartenenti ad altre specializzazioni) riconosce che, nella prassi clinica, è «frequente» osservare situazioni di accanimento terapeutico; per il 36% si tratta di una eventualità «poco frequente» e solo per il 2% non si verificano «mai o quasi mai» simili situazioni. L´indagine, da cui traiamo questi dati, verrà presentata giovedì prossimo, 23 novembre, in un convegno al Senato dal titolo «Il dolore e la politica. Testamento biologico, accanimento terapeutico, libertà di cura» e vedrà intervenire, tra gli altri, il ministro della Salute, Livia Turco, e Ignazio Marino, presidente della commissione Sanità del Senato. E già questi dati, che rappresentano una parte esigua rispetto alla mole di informazioni raccolte, meriterebbero ampia discussione e attenta analisi. L´accanimento terapeutico emerge come una pratica ampiamente diffusa e come un nodo irrisolto, rispetto al quale si fa sempre più vistoso il vuoto normativo vigente.

Le questioni "di vita e di morte", dunque, si fanno sempre più centrali, e salienti, nel dibattito pubblico. E la politica, lentamente e faticosamente, sembra cominciare a farsi carico di quanto di più umano (e vivo) vi sia nell´esperienza di ognuno: il dolore, appunto. Che non rappresenta un "semplice" stato di sofferenza, ma è divenuto, piuttosto, fattore sintomatico e critico di molte vicende patologiche.

Il continuo progresso delle scienze mediche e delle biotecnologie rende spesso impalpabile il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico; e quel confine sfugge, in genere, alla capacità di conoscenza e di controllo del diretto interessato: il paziente. È in virtù di questo progresso e di questa "sottrazione di autonomia" che nascono casi quali quelli segnalati dall'Associazione Luca Coscioni. E sono emblematiche le parole che Piergiorgio Welby usa per descrivere lo stato in cui la malattia l´ha ridotto: «La distrofia muscolare progressiva è una delle patologie più crudeli; pur lasciando intatte le facoltà intellettive, costringe il malato a confrontarsi con tutti gli handicap conosciuti: da claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico, poi arriva l´insufficienza respiratoria e la tracheotomia. Il cuore, di solito, non viene colpito e l´esito infausto, come dicono i medici, si ha per i decubiti o una polmonite. Io ho raggiunto l´ultimo stadio: respiro con l´ausilio di un ventilatore polmonare, mi nutro di un alimento artificiale (Pulmocare), parlo con l´ausilio di un computer e di un software».

Per quanto atroce possa essere la condizione qui descritta, se ne possono determinare di ancor più mortificanti e degradanti. È vero, infatti, che oggi sappiamo che il cuore può continuare a battere anche quando è sopravvenuta la morte cerebrale; e che si può sopravvivere per dieci o vent´anni in stato vegetativo permanente: ma questo vuol dire che - grazie a macchine sofisticate - la persistenza della vita non corrisponde sempre all´esistenza di una persona, dotata di sensibilità e di volontà e capace di esperienza e relazione. Di fronte a casi di questo genere, non esiste un orientamento medico, o legislativo, univoco, capace di prevedere una prassi clinica per ogni tipologia patologica: e in grado di indicare una metodologia d´intervento e di "soluzione" rispetto alla complessità delle questioni in gioco. E se ciò appare ovvio e normale, non altrettanto pacifico ci appare il fatto che, parimenti, sia il malato stesso (il titolare di quell´esperienza e di quel corpo dolente) a non disporre di alcuno strumento di tutela del valore delle sue scelte. È oramai paradigmatico, in tal senso, il caso di Eluana Englaro: in stato vegetativo permanente dal 1992, questa giovane donna, che vive senza possibilità alcuna di tornare a uno stato di coscienza, continua ad essere alimentata e idratata artificialmente: continua, cioè, ad essere tenuta in vita. Suo padre ha più volte chiesto che fosse «lasciata morire», che le fossero interrotte alimentazione e idratazione, per porre fine alla sua agonia. La riposta della magistratura è stata negativa.

Forse il suo caso rientra tra i molti riconosciuti da quella maggioranza di medici, che vedono l'accanimento terapeutico ridotto a routine clinica; forse quella moltitudine di casi, quell´enorme "scialo di dolore", merita una soluzione (sia pure parziale e imperfetta): che consista semplicemente nel dare, a ciascuno di noi, la possibilità di decidere della propria vita e della propria morte, in coscienza e autonomia. Per quanto e fin quando è possibile.

Luigi Manconi - Andrea Boraschi
Fonte: www.unita.it
19.11.96

*Scrivere a: [email protected]


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