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Le riflessioni domenicali del Corriere


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di Gianni Caroli - Megachip

Con il suo eminente editorialista Bill Emmott, il Corriere della sera si è schierato contro la moratoria sulla pena di morte. Qualche nota sull'editorialista e sul giornale che lo ospita.

“… .in quasi tutte le democrazie in realtà, se si promuovesse un referendum sulla pena di morte, un'ampia maggioranza di cittadini si schiererebbe in suo favore. Si tratta di una pena popolare giacché nell' opinione pubblica la sete di vendetta e di castigo è un fattore determinante nella riflessione sulla criminalità. Generalmente gli oppositori della pena di morte fondano le loro rivendicazioni stesse sull' idea che uccidere un individuo, fosse anche un omicida o un terrorista, è un gesto barbaro e inumano. Purtroppo l' opinione pubblica stessa è barbara e inumana.”

Chi ha scritto questa frase così densa e micidiale? Ed in quale occasione? Forse è l' articolo di qualche opinionista della destra estrema di “Forza Celtia”, magari in occasione del barbaro assassinio a Roma di Giovanna Reggiani? O di qualche suo omologo del gruppo di “Occident”, ai suoi tempi famoso?

No. L' occasione di queste praticissime righe, che in modo surrettizio ci conducono dritti in bocca alla legge del taglione e al giurì di Barabba, è un grande successo della diplomazia italiana, nel più autentico “spirito” della nostra cultura: il voto, a stragrande maggioranza, da parte della terza commissione (Diritti) della Assemblea delle Nazioni Unite, della moratoria generale sulla pena di morte, proposta dalla nostra delegazione in quel consesso.

L' autore, che nega alla radice ogni valore di questa storica risoluzione universalmente riconosciuta come un grande successo giuridico e politico, non è un nostalgico di qualche ancien régime tipo Arabia Saudita, né un ariano cantore di “Teratologie”, o come altro si chiama, di stirpi nibelungiche.

E' Bill Emmott invece: già direttore del prestigioso Economist, e modernissimo apologeta delle virtù naturali e spontanee del mercato globale, meglio se unico e senza alcun ostacolo od impaccio in dogane, culture, giurisdizioni varie. Un anglosassone doc, quanto a cultura del pragmatismo economico, di impostazione liberale la più pura. Detto, per puro paradosso ed a causa di una accurata coiffure che lo rende davvero somigliante, il “piccolo Lenin” della grande era Blair.

E il giornale è Il Corriere della Sera, che pubblica l' articolo (“La moratoria, una utopia che non risolve i problemi”) come commento in prima di domenica 18 novembre. Quanto cioè di più istituzionale e ponderato nel mondo variopinto della stampa italiana. (Basti pensare – al suo essere istituzionale - alla somma davvero “parastatale” che percepisce dalle finanze pubbliche ogni anno: 25 milioni di euro, cioè 50 miliardi di vecchie lire. Roba da ente pubblico dei rimpianti anni ‘50: Federconsorzi o giù di lì).

E tuttavia, a smentire l'austero galantomismo che ne è cifra pubblica e immagine ufficiale, sta la sua stessa storia, nei momenti cruciali di quella patria.

A ricordarcelo, non bastasse l' ideologia teppistica che nasconde l' autorevole firma di Bill Emmott, è uscito quest' anno un “Diario Caprese” (Ed. La Conchiglia), cioè d' esilio, di Alberto Albertini, fratello minore del più noto Luigi, e con lui coeditore e successivamente direttore del “Corriere” per uno quarto di secolo: dal 1899, quando i due fratelli lo acquistarono dai precedenti titolari, fino al 1924, l' anno del delitto Matteotti che segnerà il rafforzamento del fascismo al potere, e la sua trasformazione in regime vero e proprio. Con l' estromissione dal quotidiano dei due fratelli, assai poco consoni alla nuova struttura del paese.

Ebbene dov' era, già nel 1915 il Corriere della Sera, ancora in mano ai mitici fratelli ? A finanziare lautamente D' Annunzio travolto dai debiti, perché facesse da portavoce, istrionico quanto efficace, al fronte irredentista anti-Imperi Centrali durante le “radiose giornate” di quel maggio famoso: a pro di entrata nell'“inutile strage”, per non uscirne più. Perché infatti ancor oggi, come nel '15 e poi nel '40, forze potenti ci trascinano in guerra per i capelli, ed il Corriere è il termometro più sensibile di questa febbre malsana che periodicamente aggredisce l' organismo dell' Occidente, libero, progressivo e sviluppato.

A ben vedere e a ben leggere il fondo di Bill Emmott, vi si ritrova intatto quel celebrato pragmatismo giuridico, inteso progressivo, ma che al suo fondo nasconde qualcosa d' altro: la common law, la cultura del “precedente”, il trionfo, cioè, del costume tribale, isolano in senso proprio, sul diritto uguale sulle stessa terra per tutti gli uomini, sulla Lex Romana che Giustiniano codificò nel Corpus Iuris, quello “certo”, fondato sopra un codice e dentro una “Constitutio”, che non per caso mancano all' Inghilterra, dove non contano “leggi scritte”, ma “intuìte”, basate sulla giurisprudenza antecedente dei “saggi”. Legislazioni iniziatiche vere e proprie, dietro uno schermo di empirismo bonario.

Bill Emmott coltiva accorto quello spirito britannico, ostile perfino a Montesquieu: il filosofo che scrisse il suo “Esprit des Lois” in accordo con Roma, traghettando l' essenza di quello “ius” dentro l' Illuminismo per combattere il personalismo giuridico feudale, le sentenze ad personam secondo “appartenenza”. E in fondo troviamo la Dichiarazione dei Diritti dell'89 che inutilmente oggi si dimentica, sempre e volentieri. C' è.

Le idee così potentemente regressive e barbariche, in senso proprio, le ritroviamo negli scritti più ponderosi e fondanti di Samuel Huntington, il fortunato teorico dello “scontro delle civiltà”: a ben vedere solo un epigono-imitatore, quanto più modesto, di Gobineau e di Spengler, teorici rispettivamente de “L' inégalitès des races humaine” e del “Tramonto dell' Occidente” a distanza di un secolo scarso l' uno dall' altro.

E' proprio il nucleo “personalistico” della concezione di Bill Emmott inerente la pena capitale, la propedeutica consona alla legge del taglione: prerogativa parentale e settaria, non statuale e giuridica. E, per estensione, lo stato e il diritto, neppure più tali, ma solo una società “ad personam” fondata, cioè divisa in caste. L' America dei ricchi e poverissimi di Gorge Bush II, dove l' Amministrazione non finanzia la pubblica assistenza, ma stanzia ingenti fondi per salvare banche e fondi speculativi only for billionaires , falliti dall' aver troppo vampirizzato clienti e economia.

La spigliatissima dinoccolatezza “blairiana”, totaliberista nella pratica finanziaria che riproduce infine “denaro a mezzo denaro” e non più “ a mezzo lavoro” come nella classica equazione di Marx, nasconde allora nella sua genetica il veleno letale dell' elitario “diritto di persona”: cioè “del sangue” come nel terzo Reich di Hitler e di Rosenberg. Insieme al “passamano” dei soldi e capitali, solo tra familiari ed affiliati.

E' dunque la natura del Corriere della Sera, ancor più nelle sue ultime evoluzioni societarie.

In un breve biennio tra il novembre 2000 e il gennaio 2003, l' Italia perde i due sovrani che ne ressero la “struttura sottostante” ogni superficiale fenomenologia come le tribune politiche e i reality-show: Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia.

Il primo, uso a dare apparenza di monarchia, come un re travicello di ascendenza sabauda, alla sua famiglia. Il secondo, sostanza invisibile, attraverso gli intrecci parentali tra finanze omologhe.

Il vuoto lasciato con la morte di Cuccia, ma ancor più con l' eliocentrismo di Mediobanca, non si è più riempito. Infatti non è un mistero che avesse già da trenta anni commissariato, a mezzo Cesare Romiti, la Sacra Famiglia trascorsa per tre regimi in tre generazioni, avocandone la gestione della Fi
at.

Nel 1997 avviene lo scambio: restituzione agli Agnelli o quanto resterà, della Fiat, mentre al Corriere va Cesare Romiti, da presidente, De Bortoli è il direttore. Ma il patto si interrompe dacché ascende al soglio di Palazzo Chigi, dietro il paravento-spaventapasseri di Silvio Berlusconi il superministro dell' Economia, Giulio Tremonti, uomo forte di Fondazione Agnelli a mezzo mistica dei “Reviglio-boys” (insieme a lui: Domenico Siniscalco, Alberto Meomartini, Franco Bernabé e altri “commis d' Etat” svezzati nella cuna sabauda del fu-Ministro delle Finanze Franco Reviglio).

La restaurazione è immediata: nel 2003 viene destituito da Mediobanca il delfino di Enrico Cuccia, Vincenzo Maranghi. Un intrigo tessuto al ministero e condotto in prima persona dall' “ostaggio” Cesare Geronzi, l' uomo che ha consegnato l'ultima banca romana in mani meneghine, da Giovanni Bazoli e Alessandro Profumo. Tutto questo avviene nell' esatto lasso di tempo della infausto blitz-krieg, “Mission accomplied”, di George Bush minor a Baghdad.

Seguiranno la sorte del “primus inter pares”, i suoi socii e alleati: Antonio D' Amato viene liquidato da Confindustria come Cesare Romiti dal Corriere della Sera.

Dalla direzione del quotidiano viene estromesso con mezzi bruschi il terzo della scuola dei “buorgeois gentilhommes” che lo diressero negli ultimi vent' anni: Stefano Folli, dopo Ferruccio De Bortoli e Piero Ostellino, di umori liberali e pure di sostanza.

Torna così l' uomo scelto da Gianni Agnelli nel '90 (portandolo prima alla Stampa poi al Corriere) per preparare la destituzione della classe politica della prima repubblica con mezzi consoni, nel '92-'93: Paolo Mieli. La sua neo-direzione sconvolge l' assetto di guida equilibrato delle due precedenti: stante la guerra internazionalista in atto, egli effettua una violenta torsione nel senso della mistica neocon che ne riempie ogni pagina e ne pervade ogni minimo interstizio (Glucksmann, Hitchens, Henry-Lévy, i profeti maggiori, insieme ad Emmott e agli italiani che si adeguano: non tutti), subito seguito dal codazzo dei giornali liberal-destrorsi a spese dello stato “fiscale” da essi biasimato, come “Libero”, “Il Giornale”, “Il Tempo”, e il “Foglio”, insieme caudatario e pesce-pilota. Un caso a parte sono i napoletani “Il Roma” e “L' Indipendente”, che nessuno mai legge, ma nondimeno...

Insieme, vecchi canali confidenziali riattivano il “mattinale” del '92-'94, che calamita ogni fascicolo giudiziario per farne cassa di risonanza mediatica per ogni dove.

Avviene così che nel 2005 le intercettazioni tra banchieri e politici (scoperte poi illegali almeno quanto le “scalate” azionarie, perché effettuate privatamente da agenti Telecom: il maggiore azionista del Corriere stesso), finiscano ad alimentare la campagna-stampa ben nota da parte del capocoro medesimo, e i suoi connessi.

Insomma al comando di una “catena” di porta-ordini invisibile ai più, che ha come interfaccia diretta il TG 1 del suo ex-vice Riotta, il “Corriere della Sera”, come già nel 1915, nel 1940 e nel 1943 a pro Repubblica di Salò, vuole portare il tricolore d' Italia sui campi di battaglia, “affianco” all'Union Jack, dall' Iraq all' Afghanistan, dall' Iran ai Balcani ed al Darfur che soffre, chissà un domani forse una nuova Armir: ed è paradossale che autore di una tale restaurazione a favore dei poteri più forti sia stato proprio il governo di Berlusconi che schiamazzava contro gli stessi e la persecuzione giudiziaria da questi promanante, quando era oppositore tra il '94 e il 2001 !

Che di poteri fortissimi, anzi inattaccabili, proprio si tratta: poteri bellico-finanziarii molto intrecciati coi servizi britannici. Quelli che guidano l' ingenua America dei christian-reborn/carne-da-cannone alla “cerca del Graal”, armi di distruzione di qua e di là per il mondo, nei quali Mieli trova le sue radici familiari, e per sua stessa dichiarazione.

In una esauriente intervista a “Il Giornale” del 27 luglio 2001 egli racconta l' epopea di suo padre Renato, che, esule proveniente da Alessandria d' Egitto, risalì l' Italia sbarcando a Salerno nei ranghi dell' Intelligence Service (Warfare Psychological Branch, con sede a Napoli in piazza della Borsa), giungendo proprio al momento in cui un professore napoletano, che era capo di una Commissione Internazionale creata dalla Croce Rossa per indagare sui fatti di Katyn, consegnava il suo rapporto su quei medesimi ai comandi alleati. Poi occultato per decenni, e riemerso tra le mani del sottoscritto che condusse un' inchiesta in tre puntate su quel mistero per un quotidiano napoletano. Era l' epoca in cui moriva il Premier del governo polacco in esilio a Londra, Wladislaw Sikorsky, in un aereo inglese abbattuto a Gibilterra: leggenda vuole, per ordine di Churchill, che intesseva con Stalin una nuova alleanza in funzione anti-Reich.

Renato Mieli fu uno dei più abili in quel ruolo alle dipendenze del Foreign Office, riuscendo a diventare da “comunista” un dirigente altissimo assai vicino all' ignaro Togliatti, e addirittura direttore de “l' Unità” dove mantenne un contegno esemplarmente staliniano, dati i tempi. Egli stesso lo conferma in un libretto di memorie pubblicato dal Mulino nel 1997, intitolato “Deserto Rosso”, alla vigilia della sua morte.

Ma i più gustosi aneddoti su questo personaggio davvero straordinario, sono custoditi nel libro di Guglielmo Peirce, un grande antifascista napoletano (“Condannati a morte”, Longanesi 1954). Tre anni di galera sotto il regime, Peirce fu una eminente figura di intellettuale che poi divenne caporedattore-cultura de “l' Unità” medesima. Dove ritrovò inopinatamente come “compagno” Mieli, quel “capitano Merrill”, direttore e occhiuto controllore della Network News Agency (con sede a Roma in via della Mercede), che presiedeva alla consegna ai giornali italiani, di notizie e di carta, gratuitamente. Va da sé, in maniera del tutto disinteressata.
Notizie queste che in tempo di pace non hanno alcun significato particolare, assumono diverso rilievo in tempo di guerre, presenti o prossime. Ed anzi andrebbero apposte in alto, sulla cimasa dei quotidiani inerenti, quale avvertenza “a tutela dei consumatori”. Come sopra i pacchetti delle Marlboro.

Gianni Caroli
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=5266
22.11.07


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