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Salari da Terzo Mondo


alekxandros
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23/10/2007

Titolo di Le Monde per la Francia: «Salari e potere d’acquisto: l’esplosione delle ineguaglianze» (1).

Lancio della Associated Press, per gli Stati Uniti: «Sempre più difficile sopravvivere da una busta-paga all’altra» (2).

E in Italia?

Tanti italiani finiscono la paga alla terza settimana, ci ha spiegato ripetutamente Fassino quando al governo c’era il Polo.
Oggi non lo dice più, ma non ci sono segni che il governo Prodi-Mastella-Visco abbia aumentato il potere d’acquisto se non quello della Casta.
In realtà, il calo dei redditi da lavoro è un fenomeno che coinvolge tutto il cosiddetto Occidente e i cosiddetti paesi sviluppati.
E’ una conseguenza della globalizzazione, prevedibile e ampiamente prevista (anche dal modesti sottoscritto, in «Schiavi delle banche»), ma i politici e cosiddetti governanti, che ormai non governano niente essendo essi stessi governati da caste sovrannazionali da nessuno elette, hanno fatto finta di niente.
Fino a quando, come oggi, il fenomeno è troppo avanzato per rovesciarlo.
Era prevedibile che con la globalizzazione, ossia con l’abolizione di tutti i dazi, gli alti salari occidentali avrebbero teso a lungo termine a scendere verso i salari cinesi e indiani.
In un mondo senza frontiere per «uomini, merci a capitali», è inevitabile che trovi applicazione la «legge ferrea dei salari di Ricardo»: già secondo questo economista (1772-1823), in un sistema di totale liberalizzazione del mercato, i salari sarebbero scesi fino al livello minimo di sussistenza (il necessario per mantenere in vita il lavoratore), essendo la manodopera la sola entità davvero abbondante, intercambiabile e rimpiazzabile a piacere.
Si sapeva da secoli.
E’ esattamente ciò che sta avvenendo.
In Francia, scrive Le Monde.

Là il potere d’acquisto è cresciuto vivacemente dal 1959 al primo choc petrolifero del 1975 (5,7% l’anno), e da allora sempre meno: da 3,4% fra il 1998 e il 2002, e solo l’1,9 per cento dal 2003 ad oggi.
Ma questa crescita statistica inganna.
Ad aumentare sono solo gli alti redditi.
Le 3500 famiglie francesi che dichiarano un reddito di 1,8 milioni di euro l’anno hanno visto crescere il loro reddito del 42 per cento negli ultimi otto anni.
Tutti gli altri 35 milioni di francesi fiscalmente attivi, più del 90%, in quegli stessi otto anni hanno avuto una crescita del potere d’acquisto del 4,6%.
Meno dello 0,60 per cento annuo.
E da ultimo, c’è stato una specie di tracollo, tutto a danno dei salari più modesti.
La Francia ha un «salario minimo di primo impiego» (sic) obbligatorio per legge, residuo di un sistema sociale più umano.
Ebbene: sempre più francesi guadagnano questo esile salario minimo, che oggi ammonta (lordo) a 1280 euro mensili.
Nel 1991 erano solo l’8,6 per cento, oggi sono il 15,1.
E ben il 27% dei lavoratori a tempo pieno, del settore privato e semi-pubblico e a posto fisso, oggi hanno uno stipendio pari al massimo a 1,3 salari minimi di legge (1600 euro mensili).
E questi sono i privilegiati, con impiego stabile.
Ci si aggiungano i precari, quelli a tempo parziale, i CDD (i nostri CoCoCo), e i francesi che lavorano a salario da fame sono quasi il 40 per cento.
E nei mesi recenti, con estrema rapidità (rincari generalizzati), i salari hanno toccato un punto di non ritorno.
I salari più bassi sono divorati dalle grosse spese fisse e obbligatorie: l’affitto o il mutuo, le spese condominiali, le assicurazioni auto assorbono il 75% del reddito disponibile.
Ancora nel 2006, queste spese «grosse» e improcrastinabili assorbivano il 45% del potere d’acquisto dei poveri.
Nel 1960, soltanto il 22%: era più facile essere poveri mezzo secolo fa, dopotutto restava in tasca alle famiglie il 78 per cento della modesta busta-paga.
E’ un fenomeno ben noto anche a noi italiani.

Le massaie cercano la verdura al prezzo minimo, vanno a fare la spesa al discount, e risparmiano otto o dieci euro; poi arrivano le mazzate, il rateo del mutuo a tasso variabile da 500 euro mensili, l’assicurazione-auto, le bollette più care d’Europa per telefono, luce e gas.
Basta che arrivi una ingiunzione imprevista (tasse arretrate) o una multa per divieto di sosta e si va’ sotto.
La multa media milanese, 72 euro, risucchia il 5% di un salario mensile medio, già insufficiente nella città più cara d’Europa.
Perché è questo il punto.
Il comune, la regione, lo Stato, le Telecom e l’Enel continuano ad esigere da un popolo avviato al Terzo Mondo salariale tariffe, tasse e multe da primo mondo.
Un primo mondo che non esiste più, se non per lorsignori.
La Casta vuole i suoi emolumenti senza sconti e ribassi, mentre i sette milioni di pensionati a 700 euro al mese cominciano a frugare nei bidoni della spazzatura e nei rifiuti dei mercati rionali, come nella Russia di Eltsin.
Oggi, invece, la Russia di Putin è il solo paese abitato da uomini bianchi che abbia successo economico e veda un aumento del tenore di vita.
Perché Putin non obbedisce alla caste sovrannazionali, e persegue l’interesse nazionale.
Per noi va male, malissimo.
Colpa dell’euro che ha dimezzato il potere d’acquisto, dice la gente, ed ha molte ragioni.
Ma anche negli Stati Uniti la Associated Press nota lo stesso fenomeno: sempre meno gente che lavora e ha lo stipendio non arriva alla quarta settimana.
Enti caritativi che distribuiscono cibo, come la Regional Food Bank of Northeastern New York che serve 23 contee (province) newyorkesi, ha calcolato che la fila per il pane gratis e i «buoni-pasto» è aumentata del 30 per cento negli ultimi otto mesi.
Lo stesso allarme lancia la Red Cross di Boston, la città più chic degli States.
E nella fila, aumentano le persone che possono dire di avere «un buon salario» (35 mila dollari l’anno).
In USA le spese fisse e grosse non inferiori alle italiane, ma per mancanza di reti sociali, le mazzate sono più impreviste e crudeli.

Dellria Sales, donna delle pulizie, riusciva a campare convivendo con la figlia parrucchiera e due nipotini fino a qualche mese fa, in un appartamento con una camera da letto da 750 dollari al mese. A gennaio s’è infortunata a un ginocchio, e ha dovuto lasciare il lavoro.
Il reddito dei quattro esseri umani s’è ridotto a quello della figlia, 1200 dollari mensili, che è divorato dall’affitto.
Di spese mediche per curarsi, nemmeno parlarne.
Ora i quattro, con i 450 dollari mensili che restano loro, l’ultima settimana comprano solo pasta e burro d’arachidi.
Le due adulte saltano la prima colazione (il pasto principale, in USA) per non farlo mancare ai nipotini.
I prezzi stanno aumentando.
Il professor John Vogel, docente al Dartmouth College, teme che la situazione porti a forme di denutrizione occulta e riduzione delle cure e della vita dei bambini in una crescente parte della popolazione.
Ma anche lui sorvola sull’effetto più fatale a lungo termine: la discesa dell’Occidente verso attitudini vitali e culturali da Terzo Mondo.
Con il salario minimo da 1300 euro, il 40 per cento dei francesi dovrà rinunciare, ad esempio, ad ambizioni di istruzione superiore per i figli, e perfino a cure dentarie all’altezza dei tempi; forse dovrà mandare a lavorare i più giovani presto, dopo poche e sommarie scuole d’obbligo.
Le prossime generazioni europee saranno sempre meno coltivate ed educate, sempre più sdentate e infagottate in abiti di risulta, come le folle africane.
Si perdono competenze tecnologiche e intellettuali, scientifiche e sociali (il funzionamento dello Stato e dei suoi organi tecnici di servizio peggiora).
Del resto, studiare e conseguire eccellenze in aree dove i posti di lavoro sono emigrati in Cina, non ha più alcun senso.
Stiamo ridiventando i
ncivilizzati o come in Italia, incivili.
Questo i nostri politici lo sanno.
Ma fanno i pesci in barile.
E hanno una sola cura: tenersi i loro privilegi e costosi emolumenti.
In Italia, abbiamo un problema in più.

I super-ricchi in Francia e in USA sono per lo più imprenditori, esportatori d’eccellenza e d’alta tecnologia e finanzieri di successo, in ogni caso lanciati nel privato, esposti alla competizione e alla concorrenza globale.
I super ricchi italiani sono Mastella e D’Alema, Draghi, i governatori di Regione a 300-500 mila euro annui, i senatori a vita, i «consulenti» e gli alti imboscati dei settori pubblici stratificati: gente che non ha da temere alcuna concorrenza estera, gente che s’è messa al sicuro dalla competizione globale.
Gli stipendi non glieli assegna il «mercato» o il consiglio d’amministrazione: se li danno, e se li aumentano, da soli.
A quegli emolumenti inverosimili per un salariato a 1400 euro, i privilegiati non hanno alcun obbligo di corrispondere dando un qualsiasi risultato tangibile per l’economia, per la comunità.
Si aggiungano i loro compari cosiddetti «imprenditori»: in Italia gente che s’è accaparrata monopoli pubblici (come autostrade e telefoni), privatizzandoli a proprio beneficio esclusivo.
Non imprendono, si limitano ad esazioni di tariffe e pedaggi.
Anzi la globalizzazione ha avuto questo effetto collaterale anche nei paesi dove l’identità nazionale è storicamente solida e coltivata: di de-responsabilizzare i ricchi.
Essi non si sentono parte di una comunità nazionale, ma in USA e a Londra parte del jet set globale, e in Italia, della Casta inadempiente.
L’unità di destino col popolo, la solidarietà sociale-spirituale, e perfino la coscienza di essere sulla stessa barca, è venuta meno.
Il «liberismo assoluto» esalta l’egoismo come fatto positivo, e l’esibizione del lusso come un segno di euforico successo.
I banchieri (vedi Profumo) non provano nemmeno più a dare fidi ad imprese sane; si limitano a saccheggiarle, a dissanguare i piccoli imprenditori rifilando loro «prodotti derivati» il cui solo scopo è risucchiare reddito a chi lavora.
Politicamente, è stata cancellata la «coscienza di classe» proprio nel momento in cui la lotta di classe è diventata più dura, e l’hanno scatenata i ricchissimi contro i poveri.
E l’hanno anche già vinta.
In teoria, questa situazione dovrebbe portare alla rivoluzione, come è periodicamente accaduto in Occidente

Come scrisse John M. Keynes: «I ricchi sono tollerabili solo finchè i loro guadagni hanno una almeno vaga relazione con il contributo che danno alla società, diciamo quando rappresentano un successo economico proporzionato e giustificato. Ciò può essere tollerato dai poveri e dalla classe media se questi credono che il sistema è ‘leale’ e ripaga adeguatamente chi lavora sodo o è più capace. Ma emolumenti economici osceni irritano il popolo. Quando la maggior parte della ricchezza è accaparrata dai pochi della classe superiore, è solo questione di tempo, e un giorno la popolazione risentita e irritata nelle classi basse deciderà che il troppo è troppo, e si rivolterà. Forse con la violenza, se il sistema politico resta controllato dalla classe privilegiata».
Ma può succedere ancora, in Occidente?
I dubbi sono molti, e per diversi buoni motivi.

Anzitutto, le rivoluzioni storiche sono nate perché le classi in rivolta erano economicamente in crescita, non in declino (come la borghesia nella Francia del 1789).
Per paradossale che sembri, gente che s’impoverisce e fatica ad arrivare alla terza settimana è meno disposta a spendere energie e rischiare il pane per rovesciare il potere illegittimo.
E’ troppo occupata a fare tre lavori (come in USA) o, come in Africa, troppo disorganizzata e passiva, e senza «riserve» economiche con cui sopravvivere nel disordine.
La mancanza di autonomia economica provoca la mancanza di autonomia politica: e difatti i partiti, in USA come in Italia, si sono datti assetti tipicamente non-democratici, sempre più indifferenti all’opinione pubblica, trattata sempre più come un problema di polizia (in USA, chi protesta è trattato al taser elettrico) o di evasione fiscale: gli sfruttati sono «evasori», sotto la spada di Damocle punitiva della «legalità».
In Italia, per di più, la situazione è più torbida e opaca.
Anzitutto perché l’etichetta di «sinistra», la parte storicamente dedita alla rivoluzione sociale e ai suoi simboli e miti, se l’è accaparrata la Casta al potere.
La sinistra dei proprietari di yacht, di Bertinotti che salta da una festa romana all’altra, di Mastella che dorme sul panfilo di Della Valle.
La sinistra di Napolitano.
Perfino Dini è di centro-sinistra.
E quel che è peggio, è che metà della popolazione italiana – benchè sfruttata e spogliata – sta con questa sinistra dei miliardari, continua a votarla e a sostenerla, sentendo un destino comune con quella.
Questo popolo di sinistra è anche il più incline a scendere in piazza (in ricordo delle rivoluzioni rosse), e quello che più acriticamente beve la più vieta propaganda che viene dai privilegiati: «Sempre meglio Prodi che Berlusconi», oppure: «I problemi del paese nascono dagli evasori».
La presenza attiva di questa massa militante è quella che più oscura la limpida essenza della lotta di classe presente – sfruttati contro sfruttatori, produttori contro parassiti – e rischia di trasformarla nella patologia della rivoluzione, la guerra civile tra sfruttati.
La questione fiscale (e della presunta evasione) ha poi un effetto di speciale corruzione nella società.
Secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate, ossia di Vincenzo Visco, essa è mediamente pari al 27% dell’imponibile dichiarato.

Ma ecco il rapporto tra base imponibile evasa e quella dichiarata per regione:
Lombardia 13,04 per cento.
Emilia Romagna, 22,26%.
Veneto, 26, 05%.
Lazio 26,95%.
Friuli Venezia Giulia 28,22%.
Valle d’Aosta 28,29%.
Piemonte 30,53%.
Abruzzo 33,11%.
Toscana 33,67%.
Marche 33,95%.
Umbria 44,51%.
Basilicata 49,75%.
Liguria 50,29%.
Molise 54,61%.
Sardegna 54,71%.
Campania 60,55%.
Puglia 60,65%.
Sicilia 65,89%
Calabria 93,89%.

Come si vede, ad evadere meno sono la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Veneto, le aree dove secondo il mito della sinistra si annidano i più ricchi evasori, e dove Visco concentra la persecuzione sulle imprese.
Lombardia ed Emilia sono addirittura più virtuose della media europea, che è attorno al 23 per cento (Belgio 23,2), dunque regioni di contribuenti modello, che reggono il peso della torchia fiscale (3).
Le regioni della grande evasione sono nel Meridione: Campania, Puglia, Sicilia sono oltre il 60% di evaso, con la punta incredibile della Calabria, dove l’imponibile evaso si valuta al 94 per cento del dichiarato.
Non a caso, sono le regioni in mano alla malavita, camorra, n’drangheta, ’ndrine, sacre corone unite.
Non è affatto un caso; la presa della malavita è conseguenza diretta della politica tributaria.
In quelle regioni, in quanto «povere» per definizione catto-comunista, le feroci leggi tributarie non vengono imposte con l’accanimento usato per i veneti e i lombardi.
Lì, si usa la manica larga.
Si chiude un occhio.
Lì, la Finanza non s’accanisce in continue irruzioni e spietate revisioni contabili nelle aziende.
Com’è evidente, proprio questo ha consentito l’accumulo di capitali occultati e illeciti, e ha fatto contrarre l’abitudine alla illegalità, al «nero», all’abusivismo, allo sfruttamento del lavoro.
Perché un solidarismo caritativo più limpido sarebbe stato, per il meridione, decretare agevolazioni ed esenzioni fiscali aperte e
legali, anziché estendere a quel territorio leggi tributarie occhiute, e spietate, per poi non applicarle discrezionalmente.
Ma questo «chiudere un occhio» serviva a creare e far crescere le clientele, quelle clientele malavitose di cui oggi troppi politici meridionali sono i referenti, quando non i servitori retribuiti.
Il peggio è che adesso, anche questo sistema economico malavitoso è interessato allo status quo, e lo difende dalla possibile rivoluzione sociale e politica.
E questa è una forza armata e abituata alla violenza.
Dunque, poche speranze.

E allora non resta che rassegnarci, e abituarci, addestrarci alla discesa progressiva nel terzo mondo. Alle scarpe risuolate, agli abiti rivoltati, al mercatino dell’usato, all’ignoranza africana.
A Milano, già davanti alla mensa di Fratel Ettore, a fine mese, intere famiglie piccolo-borghesi si mettono in fila per il pasto (il mutuo è aumentato).
Alla chiusura del mercato ortofrutticolo, centinaia di pensionate vanno a razzolare fra le cassette e i rifiuti, alla ricerca di cipolle, zucchine e patate ancora buone.
Senza che le cosiddette «autorità» prendano atto del fenomeno e prendano provvedimenti per questa fascia sociale di miseria crescente.
Avviene a Milano, la città più economicamente avanzata d’Italia, quella che paga più tasse, dove per questo (non per altro) il costo della vita è caro come a Parigi.
Al fondo di questa tendenza, c’è anche la riduzione forzata del prelievo tributario: la Casta esattrice sta strangolando la sua gallina dalle uova d’oro.
Nella globalizzazione, con passo sicuro, ci guida verso il sottosviluppo cronico.

Maurizio Blondet

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Note
1) Claire Guélaud, «Salaires, pouvoir d’achat: l’explosion des inégalités», Le Monde, 22 ottobre 2007.
2) Geof Mulvihill, «Living paychek to paychek gets harder», Associated Press, 19 ottobre 2007.
3) I dati sono stati riportati da Michele Boldrini e Alberto Lusiani, «Le bugie del governo sull’evasione fiscale», Libero, 19 ottobre 2007. Si noti che l’evasione fiscale esiste in tutti i paesi: la media OCSe è il 23 per cento. I paesi più virtuosi sono gli Usa e la Svizzera, con evasione valutata all’8% dei redditi dichiarati. Sono anche i paesi dove più forti sono le deduzioni e detrazioni consentite per la produzione del reddito.

www.effedieffe.com


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