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Sul reddito di cittadinanza


Black_Jack
Noble Member
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Articolo eccezionale dal blog Orizzonte 48 sul reddito di cittadinanza.
Ponderoso come abitudine del blogger ma veramente illuminante.

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QUELLO CHE NON VOGLIONO CAPIRE- 2. ANCORA SUL REDDITO DI CITTADINANZA COME "METAFORA" DELL'INCONSAPEVOLEZZA
Da quanto ho potuto constatare, "quello che non vogliono capire" rimane incompreso.
E allora si cercherà di rispiegarlo.
Anche perchè non è indifferente comprendere come un qualsiasi "movimento" possa ritenersi alternativo al sistema politico a orientamento unico (PUD€), neo-classico liberista e "punitivo" del lavoro, non già collocandosi su un versante di "apparenti tematiche di sinistra" o meno, ma comprendendo e attuando la sostanza dell'autentico mutamento del paradigma di governo.
In assenza di ciò, come è ben evidenziato in questa interessante intervista, la disaffezione politico-elettorale colpirà chiunque non sappia veramente percorrere un'inversione di linea, rispetto a una situazione in cui i cittadini hanno ormai, in maggioranza, perfettamente compreso che, qualunque coalizione possa governare, per quanto atipica o formalmente nuova, non possano attendersi nessun mutamento della politica economica, risultando quindi indifferente l'espressione del voto.

E dunque.
Esistono due tipi di welfare. Perchè esistono due modelli di società che poi sono due diversi modelli di capitalismo: uno è quello costituzionale e l'altro è quello "internazionalista-oligarchico-finanziario".
E infatti esiste un welfare "costituzionale", chiaramente identificabile in base alle previsioni della Carta fondamentale e un welfare "euro-trainato", che tende a orientare la società verso il modello finanziario-oligarchico del mainstream neo-classico.
Questi, sul piano economico, corrispondono a un ulteriore dualismo qui più volte evidenziato, che si incentra su due concetti diversi e incompatibili di "piena occupazione".
1. La Costituzione presuppone che la Repubblica democratica, essendo fondata sul lavoro (art.1), garantisca o tenda a garantire la piena occupazione in senso keynesiano, cioè di utilizzazione più ampia possibile della forza lavoro, considerando la disoccupazione uno stato residuale che (solo) l'intervento pubblico tende a riassorbire a livelli fisiolgici.
Il modello di capitalismo neo-classico di Maastricht e dell'UEM, considera la piena occupazione il risultato di un riequilibrio "naturale" dell'effetto sistemico di domanda e offerta; tale principio incide anche sul "lavoro", considerato alla stregua di qualunque altro fattore della produzione o merce, e quindi implicando il riequilibrio mediante un'alta flessibilità salariale.
Il cui primo riflesso attuativo è la progressiva eliminazione per via legale, degli elementi che consentono tale rigidità: primi i meccanismi di indicizzazione salariale e poi, in varie forme, la stessa stabilità della posizione lavorativa, depotenziata attraverso forme di lavoro appunto "instabili" e poi attraverso un nuovo regime di licenziamenti, cioè la flessibilità "in uscita" .
La piena occupazione sarebbe raggiunta in presenza di qualunque livello di riequilibrio del prezzo del lavoro e il processo implica di vincere le resistenze a tale elasticità mediante un mercato del lavoro normativamente inteso a disattivare i meccanismi che innescano ogni rigidità all'adattamento dei salari verso le esigenze del sistema produttivo.
E normativamente imposto dall'UE non dalla Costituzione.
Il che determina fisiologicamente, nel tempo, un grado di disoccupazione stabilmente più elevato, e comunque funzionale a tale obiettivo di piegare le resistenze dei lavoratori ad accettare salari inferiori secondo le esigenze di aggiustamento dettate dall'aggiustamento dei costi delle imprese.
2. Poichè questo riequilibrio, basato sulla considerazione del lavoro come merce esclusivamente soggetta alla legge della domanda-offerta, esige, come abbiao visto, l'eliminazione di ogni elemento di rigidità, si introducono vincoli di bilancio pubblico, in particolare delimitando l'indebitamento fiscale, che si traduce in sostegno alla domanda e, quindi, all'occupazione, generato al di fuori del riequilibrio spontaneo dei costi di produzione (cioè in definitiva di quello che viene inteso come il reale fenomeno inflattivo). E ciò fino al punto di introdurre il pareggio di bilancio.

3. Questa misura acutizza lo schema fino a portarlo al livello "ideale" predicato dalla dottrina neo-classica, ma esso trova un complemento indispensabile nella indipendenza della banca centrale, il cui contributo alla flessibilità del lavoro, e quindi alla crescita strutturale della disoccupazione in funzione di flessibilità-deflazione salariale, è meno evidente ma altrettanto efficace.
L'affidamento esclusivo del rendimento dei titoli del debito pubblico alle dinamiche del mercato finanziario determina l'innalzamento rapido, e a effetto cumulativo, del costo della stessa spesa pubblica corrente non coperta dalle entrate.
Il deficit diviene così un rischio di ulteriore innalzamento di tale costo, instaurandosi una condizione di "pericolo", strutturale e crescente, di non sostenibilità del debito, in quanto la crescita della ricchezza nazionale può verificarsi a tassi inferiori a quelli dell'incidenza annuale del deficit, per di più inesorabilmente ampliato dal costo cumulato degli interessi.
Questa sola misura (l'indipendenza), quindi, tende a "disciplinare" la spesa pubblica, in quanto il suo aumento deve divenire, in termini reali, più contenuto del tasso di inflazione, per impedire di far dilatare il costo degli interessi (secondo la legge della domanda e dell'offerta in combinazione con lo "sconto" da parte degli investitori finanziari della solvibilità in prospettiva dei titoli emessi a quei rendimenti).

4. Unito poi a "tetti" del deficit, il sistema funziona in termini di progressiva sterilizzazione dell'efficacia di sostegno della spesa pubblica sulla domanda: questa tende a stabilizzarsi sui livelli salariali dettati dalle esigenze di competitività del sistema industriale. E cioè sulla produttività che, però, a sua volta, è strettamente correlata al livello di cambio verso l'estero della moneta adottata.
Quindi questo ulteriore componente della dottrina neo-classica accelera l'instaurazione del sistema in cui il lavoro è, per necessità, solo una merce, che diviene agevolmente sotto-domandato, in coincidenza con l'interagire dei quattro fattori - regime del mercato del lavoro, banca centrale indipendente, delimitazioni legalizzate del deficit di bilancio e rigidità del cambio verso monete più forti di quella nazionale.

5. L'intervento pubblico a sostegno dell'economia diviene una mera eventualità, soggetta a rigidi limiti congiunturali, e cioè realizzabile in una fase di espansione che, però, il vincolo di cambio potrebbe non consentire mai, sottraendo stabilmente la domanda estera, nel complesso delle voci che compongono il current account balance, al prodotto nazionale.
La domanda perciò tende inesorabilmente a calare, determinandosi un output-gap che può, in situazioni di crisi determinate da fattori esterni, divenire recessione acuita dall'inasprimento pro-ciclico di queste stesse politiche. Che mirano in apparenza al deleverage, cioè a ridurre l'indebitamento, ma lo fanno in modo strettamente contabile, tralasciando coscientemente di percorrere quel prioritario sistema di solvibilità del debitore che è la sua possibilità di tenuta e di incremento reddituale.

6. Preso atto, più o meno consapevolmente (a seconda della capacità culturale della forza che abbraccia tale "dottrina"), dell'irreversibilità di questo sistema, si finisce per accedere a un welfare non di sostegno diretto o indiretto d
ell'occupazione, quale quello previsto in Costituzione: questo prevede la tutela dell'equa retribuzione, art.36 Cost., la positiva valutazione ordinamentale della tutela sindacale, art.39 Cost., la cura dell'istruzione pubblica e della formazione professionale, artt. 33 e 35 Cost., il sostegno pubblico all'elevazione culturale e professionale dei privi di mezzi (art.34, commi 3 e 4), il coordinamento legislativo dell'attività economica PUBBLICA E PRIVATA per indirizzarla a fini sociali (art.41 Cost.), la "adeguatezza" dell'assistenza sociale - e dunque pensionistica- in caso di iogni genere di mpedimento della possibilità lavorativa (art.38 Cost.).
Tutte previsioni che implicano appunto, con evidenza palmare, non solo il sostegno pubblico diretto o indiretto al livello occupazionale e salariale, ma anche forme che si traducono in un" salario indiretto", cioè in mezzi di sostentamento del cittadino/a-lavoratore-trice apprestati dallo Stato in dipendenza di eventi e condizioni non direttamente esplicantisi nel rapporto di lavoro.
Ma si tratta appunto di spesa pubblica. E di spesa pubblica programmaticamente assunta dallo Stato come "obbligatoria", cioè irrinunciabile alla luce dei principi fondamentali (art.1, 2, 3, in particolare secondo comma e 4 Cost.).
7. Aderire invece a un sistema di welfare che, invece, si connetta alla accettazione della crescente e strutturata maggior disoccupazione, come nel caso del salario di cittadinanza, da un lato implica la rinuncia a perseguire programmaticamente gli strumenti di sostegno diretto e indiretto del lavoro e della domanda mediante spesa pubblica, dall'altro, assoggetta queste stesse provvidenze, nel quadro in cui vengono assunte, alla clausola, in effetti extracostituzionale, del limite del deficit o del pareggio di bilancio.
Cioè da un lato si prende semplicemente atto, senza più attribuirvi significato congiunturale da correggere, che il sistema fa della disoccupazione la principale emergenza sociale, rinunciando a rivendicare gli altri strumenti costituzionali intesi a prevenirla, dall'altro, la cura di questa emergenza è perseguita nei limiti dell'accettazione dello schema generale neo-classico: cioè "se e in quanto" ciò sia compatibile coi tetti del deficit o ancor più col pareggio di bilancio, e quindi col perseguimento del sistema di sterilizzazione dell'intervento pubblico a favore della qualificazione ordinamentale (contraria ai principi della Costituzione) del lavoro come merce.

8. E dunque, in questo continuo incombere del sovrastante e inderogiabile nuovo principio della riduzione della spesa pubblica, il nuovo "welfare" assumerà sempre e solo, nel tempo, il livello che non interferisce col riequilibrio naturale della domanda e dell'offerta: a livelli crescenti di disoccupazione, scontati nell'indebolimento della domanda provocato dall'insieme dei fattori sopra indicati, l'onere, altrimenti crescente, sarebbe considerato comprimibile e riducibile.
Il welfare non sarà più un sistema attivo di promozione delle classi sociali subalterne, e in pratica di aumento del benessere generale determinato dalla mobilità sociale, ma una mera valvola di sicurezza per impedire il crollo "eccessivo" della domanda stessa.
Ci si colloca così in un'ottica temporeggiatrice - non correttiva del "ciclo" da parte delle politiche fiscali- che mira all'abituarsi della società a nuovi e più bassi livelli di reddito e, quindi, di prezzi, ottenendosi così quella deflazione che tutela il credito finanziario in termini reali e che spingerebbe le imprese verso gli investimenti contandosi sull'"effetto ricchezza" determinato dalla aspettative di calo dell'inflazione.
Nulla di tutto questo si verifica e si è mai verificato: quello che si verifica, nell'attuazione dell'ideologia neo-classica, è piuttosto la contrazione della domanda e la minor ricchezza collettiva, inclusi i profitti considerati in assoluto e nella loro dinamica di crescita.
Ma aumenterà la loro rigidità verso il basso in percentuale al PIL, cioè l'assetto redistributivo nel suo insieme, potendosi comprimere il costo del lavoro, e più ancora, come evidenzia Kalecky, potendosi raggiungere l'obiettivo delle grandi imprese finanziarie e industriali di avere la forza politica incontrastata di influenzare e indirizzare l'azione dei governi.
Questa è dunque la società che sottende il "reddito di cittadinanza", che assume, appunto, la funzione di strumento di ratifica della resa delle forze sociali e politiche alla realizzazione del modello costituzionale (Keynesiano).


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