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Bagnai si smarca: Marxista dell'Illinois n.2

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Giovina
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Aggiungo che il sito di Bagnai e' pubblico, e prima di sostenere cose che Bagnai non ha mai detto o lasciate inevase, occorrerebbe turarsi l'eventuale naso con la puzzetta sotto e leggerlo, senza decontestualizzare, prima di fare dichiarazioni che potrebbero da qualcuno - io mi astengo - essere giudicate anche menzogne oltre che deduzioni a prescindere....


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Giovina
Noble Member
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Innanzitutto, tanto per chiarire, Bagnai si è "esposto" sull'euro la prima volta solo nel 2011 e proprio ad un convegno di Sollevazione ... la quale invece parla di uscita dall'euro addirittura dal 2003, quando quell'area mi sembra si denominasse Legittima Difesa o qualcosa del genere ... mentre del Bagnai pre-2011 ricordo pure una sua appassionata difesa di George Soros ...

Dopodichè ... d'accordo, Bagnai non è un "politico" ... anche se l'endorsement politico per la Lega l'ha fatto e come ... e la storia della "flax tax" nel programma della Lega era già presente ben prima delle europee ... non è che si scopre oggi ... ma, in ogni caso, da un economista ... e per di più con atteggiamenti da "guru" ... qualche suggerimento sul come gestire in termini economici interni una eventuale uscita unilaterale dall'euro ... magari uno se l'aspetta ... e invece, nisba ... nada de nada ...

Bagnai "difendeva" anche Berlusconi ma nel contesto giusto e oggettivo. Che Berlusca sia stato defenestrato non si puo' negare ma cio' non significava avallare in toto la sua politica o ignorare il suo conflitto di interesse, che Bagnai non ha fatto mai. Percio' dire di Bagnai anche che ha difeso Soros......e' forse azzardato Radi, a meno che tu non voglia negare o ignorare la volpaggine di Soros in quanto uomo di finanza, cosa che appunto Bagnai non fa.


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Georgejefferson
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... ma, in ogni caso, da un economista ... e per di più con atteggiamenti da "guru" ... qualche suggerimento sul come gestire in termini economici interni una eventuale uscita unilaterale dall'euro ... magari uno se l'aspetta ... e invece, nisba ... nada de nada ...

Dal "Tramonto dell'euro", p. 277 e segg.:

E dopo che si fa?

Questa crisi richiede un deciso cambio di paradigma, che è fuori dalla portata di chi si ostina a difendere l’esistente, per difetto etico (collusione con il potere, incapacità di ammettere un errore), o politico (incapacità di immaginare un cambio di rotta senza sopportare enormi costi in termini elettorali). Il nuovo paradigma, evidentemente, deve muovere dal superamento degli errori del vecchio, e da una percezione chiara, e articolata per priorità, dei problemi che abbiamo di fronte. Problemi, giova ricordarlo, che quando non sono stati creati, non sono stati nemmeno risolti dall’entrata nell’euro. Problemi, va anche detto, che non sono tutti alla nostra portata, né come singoli, né come collettività nazionale. Tuttavia se prima non si acquisisce una consapevolezza, è impossibile proporre un’azione politica tale da coinvolgere altri soggetti (siano essi il vicino di casa, o altre nazioni europee). L’agenda di quello che si può fare parte anche da una visione costruttiva, e non scaltramente distruttiva, di quello che non si può fare, o non da soli, o non adesso.
Il quadro sopra delineato chiarisce che l’uscita dall’euro, di per sé, non risolverebbe tutti i problemi. Ma questo nessuno potrebbe pensarlo, nessuno l’ha mai né creduto né detto né in Italia né altrove. Le analisi dei possibili percorsi di uscita dall’euro abbondano e sono facilmente consultabili su internet. Da inventare c’è veramente poco, e nessuna fra le analisi proposte, che esamineremo in dettaglio, considera l’uscita dall’euro come risolutiva. Chi sostiene il contrario è disinformato o in cattiva fede.
Se abbiamo unito bene i puntini, l’agenda mi sembra sia evidente: bisogna smontare pezzo per pezzo le istituzioni partorite dai paradigmi fallimentari che hanno messo in crisi la nostra economia e soprattutto la nostra democrazia, seguendo quattro linee guida:
– uscire dall’euro, come affermazione di sovranità e di democrazia, riprendendo il controllo della politica valutaria;
– ristabilire il principio che la Banca centrale è uno strumento del potere esecutivo, e non un potere indipendente all’interno dello Stato;
– riprendere il pieno controllo della politica fiscale, non più costretta ad agire in funzione prociclica (cioè a rispondere alle crisi con tagli);
– adottare, nella misura consentita dagli atteggiamenti dei partner commerciali, e propugnare nelle sedi istituzionali, una politica di scambi con l’estero basata sul principio che squilibri persistenti della bilancia dei pagamenti, quale ne sia il segno, cioè siano essi surplus o deficit, devono essere simmetricamente combattuti, secondo il principio che abbiamo definito dell’External compact.
Queste quattro linee guida hanno una serie d’implicazioni. Precisiamo subito le più importanti.
Riprendere il controllo della politica valutaria significa, in primo luogo, lasciare che il tasso di cambio nominale torni a un valore più allineato con i fondamentali dell’economia. Per l’Italia, oggi, ciò implica una svalutazione non catastrofica, di un ordine di grandezza verosimilmente inferiore a quello sperimentato dalla lira dopo la crisi del 1992, o dall’euro nei primi due anni della sua introduzione. In nessuno di questi due precedenti storici l’Italia è stata devastata dall’iperinflazione. Discuteremo fra breve, razionalmente, quale sarebbe l’impatto di questo provvedimento sul nostro tenore di vita. Ma riprendere il controllo della politica valutaria significa anche rientrare in possesso di uno strumento che consenta di difendersi da shock esterni, siano essi determinati da crisi economiche, siano essi il risultato di politiche deliberate di aggressione commerciale (nelle pagine precedenti abbiamo visto esempi dell’uno e dell’altro caso).
Riprendere il controllo della politica monetaria significa:
– rifiutare il dogma dell’indipendenza della Banca centrale, e quindi l’articolo 104 del Trattato di Maastricht, il quale al primo comma recita:

È vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Bce o da parte delle Banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate “Banche centrali nazionali”), a istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Bce o delle Banche centrali nazionali.

Se ciò comporti un’uscita dall’Unione, o solo una sospensione dell’applicazione del Trattato, è materia controversa, la cui soluzione dipende comunque dall’atteggiamento delle controparti europee (ne parleremo più avanti). Certo, alla luce di quanto abbiamo detto finora, l’Italia, se intende difendere i valori fondanti della propria Costituzione, non può più permettersi di aderire a un progetto d’integrazione continentale fondato sul principio antidemocratico della costituzione di un “quarto potere” monetario indipendente. L’insofferenza crescente nelle sedi internazionali verso questo principio e verso l’ideologia ad esso sottostante potrebbero consigliare atteggiamenti interlocutori alle controparti europee;
– rivedere la riforma bancaria del 1994, ripensando il concetto di banca “universale” o “mista”, di derivazione tedesca, da essa introdotto, e ristabilendo la separazione delle funzioni fra banca commerciale e banca d’affari, sancita in Italia dalla legge bancaria del 1936. Quest’ultima si ispirava al Glass-Steagall Act del 1933, che aveva riformato il sistema bancario statunitense smantellando i meccanismi che avevano fomentato la speculazione borsistica prima della crisi del 1929. Oggi numerosi commentatori (ad esempio, Stiglitz, 2012) attribuiscono all’abrogazione del Glass-Stegall Act una responsabilità diretta nella crisi finanziaria statunitense, e nei Paesi anglosassoni è animato il dibattito sul cosiddetto ring fencing (separazione delle funzioni).[1]
– reintrodurre il “vincolo di portafoglio”, cioè l’obbligo per le banche di acquistare titoli di Stato fino a una certa quota del proprio attivo. Questa norma, introdotta nel 1973, aveva lo scopo di contenere il costo del debito pubblico, favorendone il collocamento. Essa venne abrogata nel 1983, “anche grazie all’incessante pressione di Mario Monti” (Zingales, 2012). Andreatta (1991) ricorda che il progetto complessivo di divorzio prevedeva la “costituzione di un consorzio di collocamento tra banche commerciali”, ma che “i tempi non erano maturi per affrontare questi aspetti e la Banca d’Italia preferì procedere solo sul nuovo regolamento della sua presenza nelle aste”. Prevalse insomma la “linea Monti”, che, come sempre, aveva motivazioni ideali “alte” (favorire l’efficienza allocativa del mercato), e conseguenze politiche più spicciole (orientare il conflitto distributivo). Vedremo che la reintroduzione di un simile vincolo viene data per scontata da tutte le proposte più sensate di smantellamento dell’euro, provenienti sia da economisti di sinistra come Sapir (2011b), sia da economisti espressione della comunità finanziaria come Bootle (2012).
Riprendere il controllo della politica fiscale significa evidentemente ripudiare gli obiettivi di pareggio di bilancio e di rientro coattivo del debito verso soglie prive di particolare valore economico, come quelle stabilite dal Fiscal compact. Ciò posto, la politica fiscale dovrebbe, nel breve periodo, stimolare l’economia attraverso una politica di piccole opere volte:
– alla riqualificazione del patrimonio pubblico (edilizia scolastica, patrimonio artistico e archeologico, eccetera);
– alla messa in sicurezza del territorio (viabilità locale, monitoraggio e gestione del rischio idrogeologico, eccet
era);
– all’integrazione e riqualificazione degli organici della pubblica amministrazione, stabilizzando le posizioni precarie, normalizzando i percorsi di carriera e le procedure di reclutamento.
Queste misure devono avere come obiettivo complementare quello di rilanciare l’occupazione, riportando il tasso di disoccupazione dall’attuale 10 per cento sotto al 6 per cento, e riattivando il tessuto economico del Paese, tramite la valorizzazione del tessuto delle piccole e medie imprese.
Nel medio-lungo periodo, la politica fiscale dovrebbe finanziare e gestire misure che favoriscano la crescita sostenibile e la competitività del Paese, da orientare secondo i seguenti assi prioritari:
– definire le linee di un piano energetico nazionale che affronti il tema del contenimento degli sprechi e dell’incentivazione delle energie rinnovabili, adeguando il Paese alle best practices europee, con l’obiettivo minimo di rispettare l’obiettivo definito dalla strategia europea 20-20-20 (parlamento europeo, 2008), rispetto alla quale l’Italia si trova in ritardo (Deutsche Bank, 2012), e l’obiettivo strategico di ridurre la dipendenza da fonti fossili, che vincola la crescita del Paese;
– adeguare, anche in questa ottica, gli investimenti in istruzione e ricerca al livello dei partner europei, portando la spesa in ricerca e sviluppo dall’1 per cento al 2 per cento del Pil, riaffermando il ruolo chiave dello Stato nell’incentivazione e nella tutela della ricerca fondamentale;
– recuperare il digital divide (ritardo nell’uso delle tecnologie digitali) che separa l’Italia dagli altri Paesi industrializzati e ne penalizza la crescita, adeguando il Paese ai requisiti dell’Agenda digitale europea (Unione europea, 2012c; Messora, 2011);
– adeguare la dotazione infrastrutturale del Paese, con particolare riguardo alle reti di trasporto locale;
– promuovere una riforma strutturale della pubblica amministrazione volta all’abbattimento dei costi della politica e della corruzione, incidendo in particolare sulla disciplina delle società a partecipazione pubblica (disciplina delle nomine, ripristino dei controlli di legittimità sugli atti, eccetera), e su quella delle autonomie locali attuata con la riforma del Titolo V della Costituzione (Barra Caracciolo, 2011).

[1]. La Commissione indipendente per la riforma del sistema bancario, nominata dal governo britannico, ha emesso nel giugno 2012 un libro bianco (Hm Treasury, 2012) che dedica un intero capitolo al ring fencing.

E poi, a p. 392:

La gestione dell’External compact
Ma questo è ormai il passato. Se per il futuro si accetta la logica dell’External compact, non si può sfuggire alla conclusione che la sua gestione richiede il ripristino di una naturale flessibilità del cambio fra Paesi membri, almeno finché questi avranno diversi mercati del lavoro.
Rimangono ancora validi i tre principi fondamentali indicati da Meade (1957, p. 394):
– i Paesi partecipanti devono impegnarsi a effettuare politiche di stabilizzazione macroeconomica interna, volte nei Paesi in surplus a evitare la deflazione (il contrario di quanto ha fatto la Germania) e nei Paesi in deficit a evitare l’inflazione;
– gli aggiustamenti di cambio devono avvenire in regime di fluttuazione libera e rispettando un principio di simmetria, ovvero la valuta dei Paesi in surplus deve essere libera di apprezzarsi, quella dei Paesi in deficit deve essere libera di deprezzarsi;
– deve essere creato un meccanismo (un Fondo monetario europeo, per capirci) che sia in grado di fornire valuta di riserva ai Paesi in deficit, consentendo loro di gestire senza traumi economici e sociali il processo di aggiustamento.
Tutto questo nel contesto di un principio di coordinamento in base al quale “ogni Paese membro riconosce formalmente che gli altri membri hanno un interesse legittimo alla stabilizzazione della sua economia, per quanto riguarda redditi, prezzi e costo del lavoro, e, in particolare, al fatto che Paesi in surplus evitino la deflazione e Paesi in deficit evitino l’inflazione”. Come abbiamo più volte ricordato, il Tfue già prevede che le politiche economiche dei Paesi membri siano coordinate. Questo interesse legittimo dovrebbe essere la base per stabilire un effettivo, simmetrico e preventivo monitoraggio degli squilibri macroeconomici (qualcosa di diverso da quello inefficace, asimmetrico e postumo proposto nel 2011 dalla Commissione europea).
Sarebbe un errore, dice Meade, pensare che la libera fluttuazione del cambio apra a uno scenario di oscillazioni devastanti:

Se si applicano delle ragionevoli politiche per la stabilizzazione delle economie nazionali, nulla potrebbe essere più assurdo; di converso, se tali politiche non vengono applicate, non è possibile immaginare alcuna politica della bilancia dei pagamenti sensata per una zona di libero scambio. Se si applicano delle ragionevoli politiche di stabilizzazione interna, rimarranno da aggiustare degli shock esterni, o delle moderate divergenze nella dinamica dei prezzi e dei costi del lavoro. A questo scopo, i tassi di cambio oscilleranno moderatamente in su o in giù; e bisognerebbe incoraggiare in ogni modo lo sviluppo di un libero mercato dei cambi a termine, che minimizzi i problemi causati da queste oscillazioni. (Meade 1957, p. 395).

Queste, evidentemente, devono considerare anche il mercato del lavoro, tenendo presente che:

Solo se si possono definire delle opportune regole di fissazione dei salari i governi Europei saranno in grado di utilizzare il proprio potere di controllo sul sistema bancario e sulle politiche di bilancio in modo da combinare il pieno impiego con una sufficiente stabilità, per rassicurare i propri cittadini e gli investitori esteri che non sarà necessario speculare continuamente al ribasso sulla valuta nazionale.

Mentre, d’altra parte:

Il controllo dell’inflazione dal lato del costo del lavoro può essere affrontato solo su base nazionale, perché i sindacati e i meccanismi contrattuali variano enormemente da Paese a Paese [come oggi, ndt]. Ci sono sicuramente divergenze di trattamento; e differenze fra Paesi europei nella variazione percentuale dei prezzi e dei costi del lavoro, per quanto piccole, possono creare seri problemi di bilancia dei pagamenti accumulandosi negli anni.

Morale:

Per questa ragione, se non altro, i tassi di cambio fra le valute europee devono restare variabili, se si desidera evitare l’impiego di restrizioni più o meno permanenti delle importazioni come strumento per compensare divergenze crescenti fra i livelli dei prezzi nei vari Paesi.

Certo: noi quest’ultimo problema non lo abbiamo avuto. Il protezionismo è stato accuratamente evitato, mentre veniva consentita la disoccupazione, che ha il pregio, come abbiamo visto, di contenere il costo del lavoro. Ma percorrendo all’indietro questo ragionamento, sempre attuale nei suoi fondamenti economici, non si può che giungere alla conclusione che se invece vogliamo tornare a rispettare il principio (iscritto nei trattati europei) di promozione del pieno impiego, allora dobbiamo smontare la moneta unica, reintrodurre la flessibilità del cambio per assicurare uno svolgimento ordinato degli scambi esteri, il tutto in un contesto di politiche di stabilizzazione interna volte a garantire che sul mercato dei cambi non si scarichino indebite pressioni (e quindi a disinnescare eventuali aspettative destabilizzanti negli operatori).
In questo senso, tornano utili, acquistando un senso nuovo, numerose proposte fatte negli ultimi anni da una serie di economisti eterodossi.
Mi riferisco in particolare alle proposte di:
– adottare uno standard europeo di salario minimo garantito (differenziato per Paese, ma definito secondo comuni regole europee; Hein, 2012);
– parametrare la crescita dei salari a quella della p
roduttività (Sapir, 2011b), eventualmente legando alla produttività la crescita del salario reale minimo (cioè delle retribuzioni minime garantite corrette per il costo della vita) e prevedendo ulteriori aumenti per i Paesi in surplus commerciale (Brancaccio, 2011). Oppure, in modo forse più trasparente, determinare la crescita delle retribuzioni nominali sommando alla crescita della produttività quella di un comune obiettivo di inflazione concordato fra i Paesi dell’area (evidentemente, dimenticandosi il funesto “2 per cent or less” della Bce);
– programmare la spesa pubblica in modo tale che il deficit pubblico, dato l’ammontare della tassazione, compensi il surplus privato (la differenza fra risparmio e investimento privato), assicurando in tal modo l’equilibrio del saldo delle partite correnti (Hein, 2012), e una crescita compatibile con l’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Queste proposte, con l’eccezione di quella di Sapir (2011b), fanno per lo più parte di progetti di difesa dell’esistente, di tentativi di “tenere insieme i cocci” dell’euro, poco condivisibili e poco credibili, certo non per la scarsa razionalità economica dei suggerimenti e di chi li propone, ma per l’evidente inattuabilità politica. Non ha senso proporre nuove forme di coordinamento in un contesto (quello dell’euro) nel quale l’esigenza di coordinamento, sancita dai trattati, avrebbe già potuto attuarsi nelle forme consuete, se solo ci fosse stata la volontà politica. Dentro l’euro non ci può essere coordinamento, perché l’euro è il moderno gold standard, intrinsecamente basato sulla legge del più forte e sulla repressione delle classi subalterne (e della democrazia).
Ma le stesse proposte, nel contesto dell’External compact – e quindi dopo il ripristino della flessibilità di cambio e l’esplicita assunzione di un obiettivo di conti esteri bilanciati nel medio periodo – assolverebbero il compito essenziale di garantire la stabilizzazione macroeconomica, permettendo alla necessaria flessibilità del cambio di operare in modo efficiente, senza provocare episodi di turbolenza sui mercati, secondo le linee già indicate da Meade.
L’adesione convinta e fattuale a queste regole sarebbe il primo segnale di una effettiva volontà di cooperazione e di integrazione economica. Si può speculare sul fatto che laddove esse fossero state seguite fin dall’inizio, l’Eurozona non sarebbe arrivata a una crisi così grave. Ma la storia non si fa con i se, notoriamente. Se queste regole, di puro buon senso, non sono state attuate, un motivo ci sarà stato, ed era quello, evidente, che in un contesto che impediva ai Paesi più fragili di difendersi, i Paesi più forti non avevano particolari motivi di mitigare le proprie pretese.
Viceversa, il mantenimento della flessibilità del cambio sarebbe la versione moderna dell’antico adagio: si vis pacem, para bellum. L’adeguamento dei tassi di cambio intraeuropei diventerebbe sempre meno necessario a mano a mano che i mercati del lavoro europei si integrassero e adottassero regole comuni. Ma nel contesto dell’External compact non sarebbe possibile per un Paese praticare deflazioni competitive in violazione dei princìpi di coordinamento, perché gli altri Paesi potrebbero reagire immediatamente con una svalutazione difensiva del cambio, senza sacrificare i propri obiettivi di occupazione e di sviluppo. Quando chi è aggredito ha un’arma per difendersi, è più facile che emergano soluzioni cooperative.


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Tetris1917
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Tetris1917
MessaggioInviato: Sab Dic 27, 2014 2:36 am Oggetto:
Uscire dall'euro? Spieghino cosa avviene nei primi 10 giorni dell'uscita dall'euro ai cittadini della strada. Pagliacciate pericolose vanno osservate a tutto tondo.

Niente,per il cittadino comune non succede assolutamente nulla se si predispone precedentemente all'uscita dall'Euro l'ingresso in Nuova valuta con un cambio 1:1 bloccando la speculazione sul nascere. La svalutazione successiva non porterebbe che benefici,e le aziende estere che vorrebbero investire in Italia sarebbero ben liete di entrare in un mercato del lavoro a costi più bassi,con un bel vaffanculo alla Germania.

Bene, non ci resta che aspettare la fine della Germania all'uscita dalla guerra prima. Quando io leggo certe risposte mi convinco della follia di alcuni professori tipo Bagnai.


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Abrazov
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@Georgejefferson

Lascia stare, il libro ce l'hanno sicuramente anche loro. Lo avranno spulciato da cima a fondo, ma solo per trovare qualcosa da rinfacciare a Bagnai in quanto di destra, amico di Allam Alemanno e compagnia. Per il resto fanno finta di non averlo letto.
Lungi da me pensare che non lo abbiano capito. 🙄
Poi quella della difesa di Soros ...Bagnai ha solo detto una volta che Soros fa il suo mestiere, per spregevole che sia.
Chi il suo mestiere non lo fa è qualcun altro
vabbè
Tanto la tiritera è sempre la stessa ...


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Rosanna
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@Georgejefferson

Lascia stare, il libro ce l'hanno sicuramente anche loro. Lo avranno spulciato da cima a fondo, ma solo per trovare qualcosa da rinfacciare a Bagnai in quanto di destra, amico di Allam Alemanno e compagnia. Per il resto fanno finta di non averlo letto.
Lungi da me pensare che non lo abbiano capito. 🙄
Poi quella della difesa di Soros ...Bagnai ha solo detto una volta che Soros fa il suo mestiere, per spregevole che sia.
Chi il suo mestiere non lo fa è qualcun altro
vabbè
Tanto la tiritera è sempre la stessa ...

Abrazov, perché cambi le carte in tavola?

Come ho detto prima io il libro l'ho letto, l'ho capito e l'ho apprezzato,

non faccio finta di non averlo letto, però vedi di libri ne hanno scitti anche altri, che non ci stanno a fare il gioco della destra e ad appoggiare quei bei tizi che conosciamo essere i più beceri e meschini responsabili della crisi,

la Lega ha firmato tutti i trattati, non ha votato il fiscal compact, ma poi si è alleata con Berlusconi, insieme a tutti gli altri (Meloni, Alemanno, Allam ...), gattopardismo allo stato puro,

dunque credo che ognuno sia libero di giudicare gli uomini per quello che sono, non per quello che "sembrano" essere ...

La trappola dell'euro - La crisi, le cause, le conseguenze, la via d'uscita
Marino Badiale e Fabrizio Tringali

http://il-main-stream.blogspot.it/


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