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Brexit, sette giorni dopo: la miccia brucia


oldhunter
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BREXIT, SETTE GIORNI DOPO: LA MICCIA BRUCIA

Federico Dezzani

29 giugno 2016

Non riserva sorprese la Brexit, attenendosi al copione già anticipato: lo choc generato dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sta fungendo da innesco alla dinamite accumulata sul continente dopo otto anni di eurocrisi. Se la nascita degli Stati Uniti d’Europa, fuori tempo massimo nell’attuale contesto politico, è ormai tramontata, è invece certo che la ricaduta della Francia in recessione o l’aggravarsi della crisi bancaria italiana implicherà la dissoluzione dell’eurozona e delle istituzioni brussellesi: il precipitare di una situazione economica e sociale già critica, renderà improcrastinabili risposte a livello nazionale.

Grande è la confusione sotto il cielo

La situazione è paragonabile al collasso della Germania guglielmina nel 1918, alla caduta della DDR nel 1989 od all’implosione dell’URSS nel 1991: il caos è grande, la situazione è concitata, gli scenari più disparati si aprano e si chiudono nel volgere di poche ore, è un fioccare di illazioni e congetture. Lo choc è tale da lasciare l’opinione pubblica spaesata. Ma come: è stata Brexit? Ne siamo sicuri?

Lo stordimento è chiaramente percettibile anche tra la tecnocrazia brussellese ed i capi di Stato europei, chiamati a gestire l’ennesima crisi europea, benché ormai completamente esautorati: il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è l’equivalente dell’imperatore Guglielmo II all’indomani dell’armistizio o di Erich Honecker all’indomani delle grandi manifestazioni dell’ottobre ’89 contro il regime socialista. Il residuato di un’epoca che fu. Non è un caso che sia proprio la stampa tedesca, esperta in materia di crolli politici, a lanciare l’appello: sconfitto, vecchio e malato, Juncker deve gettare la spugna.

Abdicare in favore di chi? Una comparsa che nella migliore delle ipotesi durerà 12 o 24 mesi? Un commissario liquidatore?

È forte, infatti, la sensazione che si respiri aria di smobilitazione in Europa, che l’ancien régime stia velocemente crollando giorno dopo giorno. Sensazione plasticamente raffigurata dalla foto di rito scattata al vertice di Berlino del 27 giugno, il primo summit dopo il clamoroso addio del Regno Unito all’Unione Europea: Angela Merkel, visibilmente invecchiata, dimezzata dalle recenti sconfitte elettorali ed a capo di una Grande Coalizione che sta scivolando sotto il 50% delle intenzioni di voto, a fianco di François Hollande, ai minimi storici in termini di popolarità ed alle prese con un Paese in ebollizione, e di Matteo Renzi, a sua volta esautorato dalla recente sconfitta elettorale ed appeso ad un referendum costituzionale che ha alte probabilità di sancire la sua fine politica. Detriti di un’epoca passata: qualcuno crede davvero che questo “super-Direttorio” possa con un colpo d’ala traghettare l’Unione Europea verso la federazione, gli agognati Stati Uniti d’Europa?

Già perché, come avevamo anticipato, è forte la tentazione nell’establishment euro-atlantico di portare alle estreme conseguenze la strategia del “più crisi per più Europa”, sfruttando i frangenti della Brexit per realizzare una qualche forma di unione fiscale e politica. Come emerge dall’articolo “Brexit and the Future of Europe”1 firmato da George Soros, è ancora viva nei circoli finanziari la speranza di poter salvare l’Unione Europea ridisegnandola, magari in forma confederativa, se non federativa: “After Brexit, all of us who believe in the values and principles that the EU was designed to uphold must band together to save it by thoroughly reconstructing it. I am convinced that as the consequences of Brexit unfold in the weeks and months ahead, more and more people will join us”.

La missione appare, oggettivamente, difficile, se non impossibile.

Persa l’occasione al culmine della prima onda dell’eurocrisi (estate 2012), è lecito domandarsi come l’operazione possa riuscire a distanza di quattro anni, dopo che la disoccupazione ed il malessere sociale ha gonfiato i partiti anti-europeisti e la deflazione ha portato allo stremo la finanza pubblica e privata.

Il primo documento sfornato a caldo dal motore franco-tedesco, “A strong Europe in a world of uncertainties”2, è sul solco delle decine e decine di proposte concepite negli ultimi anni per fronteggiare l’eurocrisi: molta retorica e poche misure concrete. Si contempla un patto per la sicurezza e la lotta al terrorismo (sfugge il nesso con lo sfaldamento politico dell’Unione in atto), un diritto d’asilo europeo ed una comune politica migratoria (ma non è stato proprio il timore dell’immigrazione incontrollata il cavallo di battaglia dei “leave”?), una qualche forma d’unione fiscale, che “should start by 2018”, dovrebbe iniziare entro il 2018, ossia tra due ere geologiche. L’ultimo punto, l’unico rilevante per la sopravvivenza dell’euro, è stato peraltro prontamente smentito da Wolfgang Schäuble: “avulso dalla realtà politica3“ è la definizione data dal ministro delle Finanze tedesco

Come non capire la posizione di Schäuble?

Nel 2017 si voterà per il rinnovo del Bundestag e per scegliere il nuovo inquilino dell’Eliseo: considerata l’aperta ribellione dell’elettorato contro le élite europeiste ed i progetti di maggiore integrazione europea, quali sarebbero le possibilità per la Grande Coalizione tedesca di conservare il potere e quali quelle di bloccare l’ascesa di Marine Le Pen? Il realismo politico di Schäuble è condiviso dal presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, che ha evidenziato quanto sia sciagurata l’idea di scongiurare l’implosione della UE avanzando proposte di una federazione del continente, un’utopia del tutto scollegata dalla realtà (“The spectre of a break-up is haunting Europe and a vision of a federation doesn’t seem to me like the best answer to it. We need to understand the necessity of the historical moment”4).

Se la politica balbetta e l’unione fiscale (ossia il trasferimento di denaro dalla Germania verso il resto dell’eurozona) rimane una chimera, l’unico salvagente cui aggrapparsi nei frangenti della Brexit rimane la politica monetaria.

Peccato però che Mario Draghi abbia pronunciato il “whatever it takes” per salvare l’euro già quattro estati fa e l’allentamento quantitativo abbia già compiuto 18 mesi, con scarsi risultati: certo, la forbice tra i rendimenti dei titoli periferici ed i Bund è stretta e la Brexit, che nel 2011 avrebbe fatto precipitare il valore dei Btp, non ha scatenato tempeste nel mercato dei debiti sovrani, ma resta il fatto che l’eurozona è in sostanziale deflazione dall’autunno del 20145 e lo choc economico causato dalla Brexit ha portato al minimo storico le aspettative sull’andamento dell’inflazione nella zona euro6, con pesantissime ricadute per la tenuta della finanza pubblica e privata. Non solo, il venerabile Mario Draghi è stato costretto ad ammettere che la Brexit rischia di indebolire ulteriormente l’anemica crescita dell’eurozona nel prossimo triennio.

“Fate presto a risolvere i problemi delle banche!”, sollecita Draghi sull’orlo di una crisi di nervi, con un chiaro riferimento alla garanzia europea sui depositi bancari, ferma da mesi a causa del rifiuto tedesco a sobbarcarsi il salvataggio degli istituti dell’europeriferia.

Recessione e banche, quindi: la dinamite pronta alla deflagrazione.

Recessione e/o crisi bancaria: l’esplosione annunciata dell’eurozona

Si consuma veloce la miccia innescata dal Brexit e si avvicina inesorabile all’esplosivo ammassato sul continente. Già prima del Brexit erano stati pubblicati d
ati che attestavano un peggioramento economico nell’eurozona, nonostante il potenziamento della politica monetaria della BCE: l’Istat segnalava un preoccupante rallentamento dell’asfittica crescita italiana ad inizio giugno7 e la situazione non era certo migliore varcando le Alpi. In Francia, infatti, era sicuro che l’effetto congiunto di un contesto globale in deterioramento e degli scioperi che paralizzavano da settimane il Paese avrebbe impattato l’asfittica crescita, come poi testimoniato dalla caduta dell’indice PMI, un anticipatore dell’andamento economico, sotto la soglia che separa la crescita dalla recessione8.

Il quadro, già molto precario di suo, è stato ulteriormente aggravato dalla Brexit, dallo choc finanziario annesso e da tutte le incertezze del caso: lo scenario dell’ennesima recessione in eurozona diventa ogni giorni più concreto. Il quesito da porsi. a questo punto, è: quante sono le possibilità che la moneta unica sopravviva ad una nuova contrazione dell’economia?

Modeste, se non nulle.

Subentrata una fase di disgregazione non più solo sostanziale, ma anche formale dell’Unione Europea, la ricaduta della seconda (Francia) e della terza (Italia) economia dell’eurozona in recessione implicherebbe automaticamente lo smantellamento dell’euro, per una lunga serie di motivi. L’inasprimento della disoccupazione, già a livelli record in Francia ed Italia, il repentino peggioramento delle finanze pubbliche (il rapporto debito/PIL francese sfonderebbe velocemente il 100%) e la necessità di un nuovo salvataggio del sistema creditizio, renderebbe necessario per Parigi e Roma abbandonare ipso facto il regime a cambi fissi, chiamato “euro”. Solo svalutando rispetto all’euro-marco ed iniettando moneta fiat nell’economia, attraverso la nazionalizzazione delle banche ed il varo di opere pubbliche, sarebbe possibile salvare il sistema creditizio, reflazionare l’economia e contenere l’aggravarsi della disoccupazione.

Già, gli istituti di credito: il vero punto dolente dell’europeriferia. Il Financial Times, all’indomani del voto inglese, non ha tardato ad evidenziare l’impatto del Brexit sull’industria finanziaria europea e su quella italiana in particolare: nell’articolo “Italy may be the next domino to fall” del 26 giugno il sistema creditizio è indicato tra le maggiori minacce per la permanenza dell’Italia nella moneta unica.

Protetti i titoli di Stato dallo scudo della BCE, la speculazione all’indomani del referendum inglese si è riversata, non a caso, su quanto di più simile ai Btp esista, cioè le banche: gonfie di titoli di Stato, appesantite da 200 €mld di sofferenze, strangolate dai tassi a zero della BCE che riducono i margini d’interesse, azzoppate dalla severa normativa del “bail in”, gli istituti di credito sono il perfetto surrogato dei Btp per scommettere sull’addio italiano alla moneta unica. Un quarto della capitalizzazione delle banche italiane è stato spazzato via nei giorni successivi alla Brexit, aggravando le perdite già pesanti innescate dall’adozione del “bail in” ad inizio gennaio (Unicredit ha lasciato sul terreno il 60% del valore in borsa negli ultimi sei mesi, MPS, ormai allo stremo, il 70%): il crollo borsistico complica non poco la ricerca di capitale fresco, indispensabile per puntellare i bilanci che scricchiolano sotto il peso delle sofferenze e di profitti sempre più magri.

Si sono accavallate, in questi pochi giorni, le voci più disparate sull’incipiente crisi bancaria italiana: dall’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti direttamente nel capitale degli istituti (si è parlato di un’iniezione da 40 €mld di denaro pubblico), alla costituzione di un secondo fonte Atlante (essendosi il primo già esaurito nella fatica, non proprio titanica, di ricapitalizzare Veneto Banca e la Banca Popolare di Vicenza), alla cessione a valore di carico del 25% delle sofferenze alla Cassa Depositi e Prestiti o ad Atlante 2 (sempre partecipato dalla Stato attraverso la Cdp, che si accollerebbe così l’enorme minusvalenza sui crediti in sofferenza)9.

Le ipotesi figurerebbero, quindi, come un vero e proprio aiuto di Stato, in deroga al principio del “bail in” che prevede di azzerare preventivamente azionisti, creditori subordinati e correntisti sopra i 100.000 €: secondo le ricostruzioni fornite dalla stampa, il governo italiano avrebbe cercato di giustificare l’intervento adducendo come presto le circostanze eccezionali, la Brexit appunto. Circostanze eccezionali che, secondo l’art. 108 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea10, consentirebbero allo Stato di soccorre le imprese private.

Ipotizziamo per un attimo che Bruxelles acconsenta agli aiuti di Stato: benché Cassa Depositi e Prestiti sia una spa controllata all’80% dallo Stato ed al 20% da privati, motivo per cui il suo debito non è consolidato dallo Stato, trascorrerebbe poco tempo prima che il Ministero del Tesoro debba a suo volta aprire il portafoglio, per ricapitalizzare la Cdp trasformata in “discarica” del sistema creditizio italiano. Il denaro che occorre per puntellare le banche, finirebbe così inevitabilmente per sommarsi ai 2,230 €mld di debito pubblico, allontanando per sempre l’ipotesi, non di una sua riduzione, ma del suo contenimento.

È questa la principale ragione, oltre alla necessità di non perdere la faccia revocando una norma appena introdotta, che ha indotto il 29 giugno, prima il francese Benoit Courè, membro esecutivo della Bce, e poi la stessa cancelliera Angela Merkel, a scartare qualsiasi eventuale deroga al “bail in”, nonostante la Brexit.

Il rifiuto tedesco agli aiuti di Stato, nonostante l’oggettiva eccezionalità della situazione, è in linea con la condotta sinora seguita da Berlino: “nein” agli eurobond, “nein” all’iscrizione nel bilancio della BCE dei titoli di Stato acquistati da Francoforte (riversati per l’80% nei bilanci delle rispettive banche centrali nazionali), “nein” alla garanzia europea sui depositi. È almeno dal 2012 che la classe dirigente tedesca è intimamente convinta che l’eurozona, nella sua attuale configurazione, sia destinata inevitabilmente a scomparire: accetta di prolungare l’esperimento (oggettivamente conveniente per le casse di Berlino), purché sia l’europeriferia ad addossarsene i costi per il mantenimento.

Il momento della verità per il sistema creditizio e l’Italia stessa, quindi, si avvicina: nubi nere, foriere di tempeste finanziarie, si addensano sull’estate 2016, che si prospetta persino più drammatica di quella del 2011.

La miccia accesa dalla Brexit si consuma veloce e, tra nuovi rischi di recessione e banche alle corde, non manca molto all’esplosione.

Federico Dezzani

1 https://www.project-syndicate.org/commentary/brexit-eu-disintegration-inevitable-by-george-soros-2016-06

2 http://static.presspublica.pl/red/rp/pdf/DokumentUE.pdf

3 http://www.wsj.com/articles/germany-says-u-k-shouldnt-let-uncertainty-over-brexit-drag-out-1467028584

4 http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2016/05/30-pec-speech-epp/

5 https://www.ecb.europa.eu/stats/prices/hicp/html/inflation.en.html

6 http://it.reuters.com/article/itEuroRpt/idITL8N19J3G2

7 http://www.repubblica.it/economia/2016/06/07/news/nuovo_allarme_dall_istat_rallenta_la_crescita_dell_economia_italiana_le_imprese_sono_sfiduciate_-141471891/

8 http://it.reuters.com/article/economicNews/idITL8N19F0UA

9 http://it.reuters.com/article/businessNews/idITKCN0ZE16T

10 http://www.consiglioregionale.calabria.it/upload/istruttoria/TRATTATO%20art.%20107,108,109.pdf

Fonte: http://federicodezzani.altervista.org/brexit-sette-giorni-la-miccia-brucia/


Citazione
AlbertoConti
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Post: 1539
 

L’inasprimento della disoccupazione, già a livelli record in Francia ed Italia, il repentino peggioramento delle finanze pubbliche (il rapporto debito/PIL francese sfonderebbe velocemente il 100%) e la necessità di un nuovo salvataggio del sistema creditizio, renderebbe necessario per Parigi e Roma abbandonare ipso facto il regime a cambi fissi, chiamato “euro”.

Solo svalutando rispetto all’euro-marco ed iniettando moneta fiat nell’economia, attraverso la nazionalizzazione delle banche ed il varo di opere pubbliche, sarebbe possibile salvare il sistema creditizio, reflazionare l’economia e contenere l’aggravarsi della disoccupazione.

Sarebbe interessante, a questo proposito, valutare il fattore tempo, cioè cosa cambia negli esiti dell'operazione tra l'intraprenderla prima o dopo l'annunciata esplosione.

Prima o dopo aver sacrificato CDP, tanto per fare un esempio concreto.


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cdcuser
Honorable Member
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Complimenti Dezzani.
Potrebbero andare in home articoli come questi.


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