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Da: www.cdt.ch/commenti-cdt/editoriale/41263/se-si-apre-un-fronte-anti-obama.html

Se si apre un fronte anti-Obama

di Gerardo Morina - 22 marzo 2011

Il presidente Barack Obama ha cercato di entrare nel teatro dell’attacco militare in Libia non dal palcoscenico ma da dietro le quinte. Questo come atto di coerenza con la sua visione del ruolo americano nel mondo, in base a cui gli Stati Uniti non devono più presentarsi come i poliziotti del pianeta ma come Paese aperto al dialogo, specialmente con i Paesi islamici.

La formula cui Obama si è attenuto per rispettare la sua dottrina, da mettere in atto dopo le rivoluzioni scoppiate sulla sponda sud del Mediterraneo, corre sui binari di una strategia precisa: evitare un «regime change» (ovvero un coinvolgimento diretto mirante a far cadere i regimi in carica) e preferire invece, dove possibile, una «regime alteration», adoperandosi cioè per la modifica dei regimi attraverso l’incoraggiamento di riforme. Nel caso della Libia, in origine Obama non aveva nessuna intenzione di intervenire. Soprattutto, il presidente voleva evitare di commettere gli errori dei suoi predecessori. Con un intervento diretto contro Tripoli, Gheddafi avrebbe potuto accusare gli Stati Uniti di agire contro di lui per gli stessi motivi per cui l’America di George W. Bush era stata accusata di aver combattuto contro Saddam Hussein: il petrolio. Fatto, questo, che avrebbe potuto provocare un’ondata di feroce antiamericanismo nei Paesi arabi e musulmani.

Da parte sua, il Pentagono sconsigliava inoltre un intervento militare unilaterale, dal momento che le truppe americane erano già impegnate su altri due fronti, l’Iraq e l’Afghanistan. Lo stratagemma che alla fine ha permesso a Washington di assumere una posizione defilata è venuto dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il cui testo non era stato presentato dagli USA, bensì sponsorizzato da Francia e Regno Unito e, tassello decisivo, approvato grazie all’appoggio della Lega Araba. Anche oggi Obama rimane fermo sulle condizioni fondamentali del suo sostegno dato all’operazione in Libia: un’operazione «limitata» con l’impiego di forze aeronavali ma senza il ricorso a truppe terrestri; la creazione di una coalizione a partecipazione ma non a guida USA; un intervento militare teso alla protezione della popolazione civile; e, infine, l’importante egida delle Nazioni Unite. E la tendenza di Washington rimane quella, come espresso ieri dallo stesso Obama, di delegare appena possibile la sua leadership, forse alla NATO.

Tanto più che con il passare dei giorni la posizione del presidente USA si sta scontrando con due imprevisti. Il primo è quello di una coalizione che stenta a crescere in base agli accordi stipulati in sede ONU. L’Europa, soprattutto Francia e Gran Bretagna, è attiva, ma lo stesso non si può dire della Lega Araba che ha fatto capire di essere pronta a fare marcia indietro affermando, attraverso il suo segretario Amr Moussa, che «l’attacco è andato oltre i nostri obiettivi perché noi volevamo proteggere i civili, non ucciderli». E dei Paesi arabi che avevano sostenuto la risoluzione delle Nazioni Unite, finora solo il Qatar ha mosso passi concreti, mentre si attende ancora la discesa in campo promessa dalla Giordania.
Esiste poi un altro versante del fronte anti-Obama e anti-Occidente che si sta creando, quello rappresentato dall’opposizione di Russia e Cina, Paesi che alle Nazioni Unite non avevano votato no alla Risoluzione sulla Libia, ma che si erano solamente astenuti. Ora Mosca e Pechino condannano nettamente la campagna militare della coalizione e creano i presupposti di una crisi internazionale in cui lo stesso Obama potrebbe essere risucchiato. Russia e Cina non rincorrono motivi umanitari ma i propri specifici interessi.

Che sono, in primo luogo, energetici. Per parte sua, il Cremlino teme infatti che i cambiamenti che in seguito all’attacco contro la Libia potrebbero intervenire nel mercato del petrolio e del gas si ripercuotano sulle sue esportazioni: la Russia, dicono gli esperti, non può infatti accettare l’idea che i suoi proventi energetici scendano al di sotto di una certa soglia. Cadendo Gheddafi, o comunque modificandosi lo «statu quo» a Tripoli, verrebbe meno la linea «rialzista» di cui la Libia è da tempo sostenitrice in ambito OPEC. In quanto alla Cina, un riassetto del mercato energetico avrebbe ripercussioni sul prezzo e le quantità di importazioni di gas e di petrolio che sono fondamentali per Pechino, per il resto già impegnata a realizzare i suoi investimenti sul continente africano.


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