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Fausto Bertinotti - La rivoluzione reazionaria di Marchionne


Tao
 Tao
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La serie impressionante di mine che la Fiat ha disseminato e fatto esplodere l'una dopo l'altra nel precario ordinamento che ancora governa, seppure male, le relazioni sociali del paese, sta producendo una drastica rottura storica che ne cambia la natura.
È in campo una rivoluzione reazionaria provocata dall'impresa multinazionale che può avere esiti più generali sconvolgenti. La lunga mutazione regressiva degli assetti democratici e istituzionali intervenuta nell'ultimo quarto di secolo, da un lato, e la potenza imprevista del colpo di maglio sul regime d'impresa ora agito dalla Fiat, dall'altro, fanno sì che non ci sia più nulla di scontato o di facilmente prevedibile, a partire dal campo della resistenza democratica.

Perciò le reazioni alla sfida di Marchionne non debbono essere sottovalutate. C'è, innanzitutto, una resistenza operaia che è andata al di là delle aspettative e che va indagata e capita. Quel 37% di no a Pomigliano e gli scioperi alla Fiat sono la base di un lavoro politico di ricostruzione dell'agire collettivo possibile e necessario. C'è la lucida, coraggiosa posizione della Fiom: un investimento sul futuro, difficile ma possibile, di un sindacato di nuovo autonomo.
E c'è, si è venuta formando, una corrente di pensiero che, sebbene assai diversificata al suo interno, non si è piegata alla pretesa di indiscutibilità dell'operazione Marchionne, dando vita a un arcipelago di forze critiche non trascurabili. La consistenza politico-culturale e la capacità di iniziativa, di azione e di espressione di queste forze di resistenza può già essere un primo programma politico.
La preparazione della giornata di lotta della Fiom del 16 ottobre può diventare l'avvio di un percorso. Bisogna fuoriuscire dallo stato di sorpresa. Dopo l'accordo separato sulle relazioni sindacali, le pratiche contrattuali che ne sono seguite, le prese di posizioni del governo e della Confindustria, era del tutto prevedibile la messa in discussione del contratto nazionale. Ma ci si aspettava che l'attacco provenisse dalla forze motrici del patto neocorporativo e nella modalità che esso era venuto definendo, con il consenso di una parte rilevante del sindacato. Invece la precipitazione è intervenuta sulla sollecitazione di una dimensione internazionale, la globalizzazione, ed è stata promossa da un'impresa multinazionale. C'è stato un rovesciamento di fronte; non più dal generale allo specifico, ma dallo specifico dell'impresa al generale della ridefinizione delle relazioni sociali e delle regole (o dell'uccisione) della democrazia.
Il comando dell'impresa
L'attacco al modello sociale europeo, messo all'ordine del giorno della politica attraverso le risposte dei governi nazionali alla crisi economica, vede ora l'impresa prenderne il comando. Anzi, una certa impresa, quella forgiata sul modello nordamericano. Il che lascia intravedere, oltre alla drammatica demolizione dei diritti dei lavoratori già atto, qual è il rapporto tra lavoratori e impresa a cui si vuol giungere, fino all'annichilimento della persona che lavora. L'obiettivo, dal punto di vista padronale, è molto ambizioso, ma non bisogna compiere l'errore di considerarlo di facile realizzazione. La caduta verticale delle vendite di auto, e di quelle Fiat in particolare, ci dice tutta la debolezza delle fondamenta del piano e dà una qualche consistenza alla tesi che prevede l'uscita della Fiat dall'Italia. Certo, l'ambizione dell'impresa è grande, fino a proporsi il rovesciamento delle relazioni sociali e della filosofia che hanno presieduto ai contratti e alle leggi che hanno inverato il diritto al lavoro ispirato alla Costituzione repubblicana.
Pomigliano non è un caso a sé
Per porsi all'altezza della contesa il variegato partito critico, quello cioè di chi non sta con la politica di Sergio Marchionne, dovrebbe riuscire a rimuovere gli errori interpretativi che, se mantenuti, gli impedirebbero la crescita. Il primo è quello di chi ha considerato Pomigliano un caso a sé e come tale isolabile. Gli sviluppi delle scelte dell'amministratore delegato della Fiat, a cominciare dalla delocalizzazione in Serbia per arrivare alla proposta di contratto scissionista, passando per i licenziamenti di rappresaglia ne hanno abbattuto ogni attendibilità. Non ne hanno però cancellate le conseguenze operative, quali la grottesca richiesta di salvare quel contratto nazionale che è proprio ciò che per prima cosa si vuole demolire. Il secondo atteggiamento da superare è quello che critica Marchionne ma ne fa risalire la responsabilità al governo nazionale. Ora, il governo Berlusconi ha pesantissime responsabilità nell'aggravamento della condizione sociale e nel proseguire della crisi, dalle scelte macroeconomiche restrittive alla demolizione di qualsiasi ipotesi di politica industriale pubblica, ma la scelta della Fiat non deriva da tale deplorevole contesto, bensì dalla collocazione scelta da parte dell'azienda nella competitività internazionale e dalla sua autonoma decisione di quale modello d'impresa perseguire.
La macchina da guerra

Questo preciso terreno di conflitto, che chiama in causa, in primis, la scelta del gruppo torinese, non è sormontabile, se non consegnandosi all'imperio padronale. Né regge il «ma fanno tutti così». Bisognerà fare un'inchiesta seria, una comparazione approfondita delle diverse realtà aziendali in Europa. Il quadro non è a prima vista brillante, ma è difficile sostenere che a Pomigliano d'Arco si farà come si fece alla Volkwagen nel 2006 dove, purtroppo, si prolungò consensualmente l'orario di lavoro, ma da 28 a 35 ore settimanali e da 4 a 5 giorni lavorativi alla settimana, con una retribuzione netta che è quasi doppia di quella alla Fiat.
Porta fuori strada anche insistere sul grande ritorno, quella di un Marchionne come Valletta o come Romiti. Non solo perché per questa via si rischia di perdere l'essenziale della nuova contesa (l'attuale conflitto tra capitale e lavoro, nella globalizzazione capitalistica e nella crisi del capitalismo finanziario globalizzato), ma anche di non vedere una differenza storica rilevante. Valletta e Romiti hanno fatto ricorso a ogni mezzo, anche il più detestabile, per prevalere in un duro conflitto di classe di cui tuttavia almeno veniva riconosciuta l'esistenza. Marchionne invece la nega e con essa nega ogni autonomia del sindacato come dei lavoratori per proporre la nuova impresa come una macchina da guerra, autoritariamente coesa al suo interno al fine di combattere il competitore-nemico esterno. Perciò il rapporto tra lavoratori e impresa, l'organizzazione del lavoro, il ruolo del conflitto sociale, della contrattazione sindacale e dell'innovazione nel perseguimento dell'aumento della produttività - così come la democrazia nel lavoro - occupano il centro di questa scena. Dunque non convince l'idea di poterlo aggirare per la via di una sostituzione, qui ed ora, dell'auto con nuove produzioni ecologiche.
L'incognita ecologica

Guido Viale ha scritto, su questo giornale, cose molto pregevoli e di grande interesse. La critica al paradigma del Pil, l'irrinviabilità di una riconversione ecologica dell'economia, l'individuazione dei punti di attacco della transizione sono, a me pare, del tutto convincenti. Come lo è la necessità di pensare a una radicale riforma della mobilità. Ma, nella transizione, nella quale pure sarà decisiva la connessione tra l'impianto ecologista e il conflitto operaio, non si può sfuggire al problema. Nell'auto, come negli altri settori maturi dell'industria, si gioca, nel mondo, per la classe operaia e per le popolazioni lavoratrici, una partita cruciale. Da noi, in questa parte del mondo, essa riguarda né più né meno, la possibilità per il lavoratore salariato di avere riconosciuta la dignità di persona e la possibilità di agire come coalizione lavorativa per farlo valere nell'impresa e nella società.

I costituenti antifascis
ti avevano capito bene che democrazia ed eguaglianza stanno insieme e che l'azione dei lavoratori è decisiva per far valere concretamente questa relazione. Marchionne, e i suoi compagni di avventura, hanno deciso che questo impianto va demolito fin dalle sue radici, per affrontare su basi del tutto diverse la competizione mondiale. La sua scelta non è fuori dal Contratto e dalla Costituzione; essa è contro il Contratto e contro la Costituzione. Bisognerebbe intenderlo bene e trarne tutte le conseguenze sociali, politiche e istituzionali. Altrimenti la sinistra non rinascerà.

Fausto Bertinotti
Fonte: www.ilmanifesto.it
6.08.2010


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