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I cigni neri in volo sul dopo-crisi


Tao
 Tao
Illustrious Member
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Gli eventi, caro ragazzo, gli eventi». La risposta del primo ministro britannico Harold McMillan quando gli fu chiesto quale fosse la paura più grande di uno statista è la didascalia perfetta per le immagini terribili e commoventi delle ultime settimane.

Dalla Tunisia al Bahrein, dall’Egitto al Giappone, gli statisti, i mercati e la gente comune sono stati costretti a riconoscere che di fronte alle rivoluzioni naturali o umane, le previsioni e le precauzioni possono poco o nulla. I «cigni neri» – gli eventi rari e imprevedibili per cui nessuno sa come prepararsi identificati da Nassim Nicholas Taleb nel suo best-seller «The Black Swan» – hanno aperto le ali sul Medio Oriente e l’Asia, offuscando certezze economiche e politiche che in troppi avevano dato per scontate.

Nelle ultime ore, è apparso un nuovo cigno nero: la risposta militare delle potenze dell’Ovest al regime libico - una mossa impensabile solo un mese fa - che apre un nuovo capitolo nella storia tormentata delle relazioni tra occidente e Medio Oriente e di cui nessuno oggi può prevedere gli sviluppi e le ripercussioni economiche e sociali.

Scrivo queste righe dalla California del Sud, all’ombra di una delle centrali eoliche più grandi del mondo, un groviglio di pali e rotori che torreggiano sul deserto che circonda Palm Springs. Questo miracolo d’ingegneria sarebbe dovuto essere l’inizio della fine della petrolio-dipendenza per l’economia Usa. L’energia pulita e sicura del vento avrebbe dovuto permettere agli americani di continuare a guidare macchine enormi, lavare e asciugare i panni quattro volte a settimana e riempire mega-freezer con tonnellate di cibo congelato, ma senza le tensioni politiche causate dall’oro nero e le molte paure legate all’atomo. Ma di fronte ai tremori politici del Medio Oriente e alla violenza, prima sismica ora nucleare, nelle isole nipponiche, questi giganteschi mulini a vento sembrano essere stati concepiti da Cervantes: un monumento alla futilità, un mausoleo del fallimento per le politiche energetiche di presidenti e congressi.

Le proteste della Tunisia, le voci di Piazza Tahrir e gli spari del regime libico hanno attraversato l’oceano con gran rapidità, andando a colpire il portafogli di Joe Blog – il signor Rossi made in Usa. Le interruzioni nell’erogazione del greggio libico e il timore che la febbre di democrazia possa contagiare altri grandi produttori hanno avuto un effetto immediato: il prezzo del petrolio è balzato di quasi il 20 per cento in poche settimane e la benzina è salita alle stelle.

A differenza dell’Europa, dove le tasse attenuano il legame tra prezzo di mercato e costo alla pompa, in America la relazione è quasi perfetta. Nei primi tre mesi del 2011, il prezzo del carburante è aumentato di più un quarto e questa settimana, il costo medio di un gallone di benzina ha raggiunto un nuovo record – uno choc per un sistema economico ed uno stile di vita che tracanna petrolio.

In un Paese in cui le lunghe distanze e il benessere diffuso hanno fatto dell’automobile un accessorio indispensabile per milioni di persone, un’impennata di tal genere ha ripercussioni serie sull’economia reale. Persino nella California «verde», dove le autovetture «ibride» sono una presenza costante sulle autostrade a otto corsie, la gente è preoccupata. «Mica posso smettere di guidare», mi ha detto un tassista all’aeroporto di Palm Springs, prima di aggiungere uno sconsolato «piove sempre sul bagnato».

Non ha tutti torti. Dal punto di vista economico, le convulsioni del Nord-Africa e Medio Oriente stanno avendo un effetto sproporzionato sui consumatori americani.
I prodotti petroliferi rappresentano solo un terzo delle spese in materia di energia per le aziende ma due terzi delle bollette dell’americano medio (oltre alla benzina, Joe Blog deve anche comprare petrolio per riscaldare la sua casetta a schiera). Un americano medio che, vale la pena ricordare, è stato tartassato dalla crisi economica e sta ancora soffrendo per il collasso del mercato immobiliare e l’alto tasso di disoccupazione.

Non è un caso che a marzo l’indice della «fiducia economica» dei consumatori rilevato dall’Università del Michigan sia crollato ai livelli più bassi degli ultimi sei mesi. Anche gli economisti sono preoccupati. Senza un ritorno di fiamma del consumo, che rappresenta il 60 percento del Pil americano, il rischio di un deragliamento della ripresa del dopo-crisi aumenta. A questi livelli – con il prezzo del petrolio intorno ai 110 dollari al barile – gli esperti pensano che l’economia rallenterà un pochino ma non moltissimo, riducendo la crescita economica nel 2011 dal 3 a il 2.8 percento.

Ma il vero pericolo per l’America e il resto dell’economia mondiale si chiama Arabia Saudita e forse anche Iran - due dei più grandi produttori di greggio. Una rivolta democratica in quei due Paesi sarebbe un «cigno nero» di proporzioni epiche. Alcuni grandi banchieri di Wall Street con cui ho parlato, ma che non vogliono fare predizioni pubbliche per paura di creare panico, sussurrano che, in quel caso, il prezzo del petrolio potrebbe raggiungere i 200 dollari al barile quasi immediatamente.

Le conseguenze sarebbero devastanti, e non solo per gli Stati Uniti. Un balzo nel costo dell’energia farebbe sprofondare l’economia mondiale nella «stagflazione» – il mostro a due teste in cui la recessione è accompagnata da inflazione rampante. Va detto che per ora questo scenario non è certo, e nemmeno probabile, ma il fatto stesso che i signori del denaro di New York ne parlino come un’eventualità è prova della fragilità dell’attuale congiuntura economica.

Invece di rimbalzare con vigore da due anni di crisi finanziaria, i Paesi-guida dell’economia mondiale continuano ad incespicare su ostacoli imprevisti e non facilmente trattabili, dalle paure sul debito di Grecia, Spagna e Portogallo all’elettro-choc del petrolio. In altri tempi, le lobby del grande business americano non si sarebbero lasciate scappare l’occasione per spingere il Congresso ed il presidente Obama verso il nucleare – una forma di energia che Washington ha tentato di evitare a tutti i costi dopo la catastrofe nella centrale di Three Mile Island del 1979 in cui una nube radioattiva ricoprì un pezzo della Pennsylvania.

Ma le notizie provenienti dal Giappone rendono l’energia atomica una «non-starter» – una «falsa partenza» nel gergo spietato della politica americana. Anzi, l’industria americana è indirettamente coinvolta nelle vicende giapponesi visto che i reattori semi-distrutti dalle acque della tsunami portano il marchio della General Electric – il faro del settore manifatturiero Usa.
Il mondo del dopo-crisi è un posto inquieto dove l’insicurezza economica e l’instabilità politica sono destinate a regnare. Almeno fino a quando i cigni neri non intoneranno il loro canto finale.

Francesco Guerrera (caporedattore finanziario del Financial Times a New York francesco.guerrera@ft.)
Fonte: www.lastampa.it
Link; http://www.lastampa.it/web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8523&ID_sezione=&sezione=
21.,03.2011


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