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"I Progressisti" - Perfidia, cinismo e ipocrisia d


Simulacres
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Perfidia, cinismo e ipocrisia di Heine nella sua disputa con Platen

 
Gli intellettuali “progressisti” hanno questo di specifico: che si credono moralmente migliori del resto dell’umanità, e specialmente dei loro avversari “conservatori” (o, peggio, “reazionari”): non lo affermano, lo danno per scontato; non è una tesi che essi portano avanti, ma un atteggiamento pratico che assumono costantemente, una vera e propria “forma mentis”.

Ora, poiché il progressista dei nostri giorni è un paladino indefesso dei diritti umani e dei diritti civili, gli piace immaginarsi come l’eterno portabandiera di quei valori di pluralismo, libertà e tolleranza che la cultura odierna riconosce, in linea di massima, anche e soprattutto nella sfera della vita privata di ciascuno. Invece, sorpresa!, le cose non stanno affatto così: e basta andare indietro di pochi decenni, di pochi anni, per rendersi conto che, sovente, proprio essi sono stati i più maligni, i più cinici e i più ipocriti difensori della “morale comune” contro il diritto alla libera determinazione dell’individuo nell’ambito della vita privata.

La cultura che si autodefinisce progressista, in Italia, si identifica, sostanzialmente, con quella di sinistra, e particolarmente con quella di matrice marxista (o neo-marxista, o cripto-marxista): ebbene, chi non ricorda quanta malignità, quanta perfidia, quanto moralismo becero e sprezzante mostrarono i suoi esponenti nei confronti della figura di Pier Paolo Pasolini, il grande eretico, anche e soprattutto nel momento della sua tragica morte? A essere prese di mira non erano solo le sue idee politiche e sociali, ma proprio la sua vita privata e la sua inclinazione omosessuale: e la condanna era unanime, anche se raramente aveva la franchezza d’essere chiara ed esplicita. Più spesso era obliqua, era perfidamente sottintesa, era un dire e un non dire: in questo, l’unica differenza fra il vecchio militante del P. C.I., che disprezzava Pasolini perché andava, pagandoli, coi “ragazzi di vita”, e il raffinato intellettuale di qualche rivista prestigiosa nel santuario della cultura “alta”, erano solo la maggiore falsità, la maggiore ipocrisia dimostrate da quest’ultimo, rispetto alla rozza intolleranza del primo.

Potremmo fare parecchi altri esempi di questa verità: i “progressisti” non sono affatto all’avanguardia in senso assoluto, ma relativo; le battaglie di libertà che conducono, sono sempre quelle che la società, sostanzialmente, ha già vinto: ed essi corrono ad aiutare il vincitore, credendosi però, ogni volta, i veri artefici della vittoria, nonché i suscitatori del risveglio delle coscienze e i fustigatori del vizio e di ogni forma di oscurantismo. Il loro moralismo, spesso bigotto e ipocrita, è quello che risponde ai sentimenti più largamente diffusi nella società: sembra che combattano, tutti solo, all’avanguardia, in realtà suonano il piffero per il vincitore di turno.

Bisogna sempre tener presente questo fatto: il progressista si sente moralmente migliore dei comuni mortali, politicamente più illuminato, culturalmente più aperto e tollerante. Per cui, quando ricorre alla coercizione, o quando approva i metodi spicci per imporre la sua visione del mondo, non ha mai la franchezza di chiamare le cose con il loro nome: le sue battaglie sono sempre battaglie per la civiltà, per la giustizia, per la democrazia; e, se proprio deve fare le guerre, non le chiama con questo orribile nome, ma le battezza “operazioni umanitarie” o qualcosa del genere.
Il motivo di questa contraddizione è abbastanza evidente.

Il progressista è, per definizione, un sostenitore della bontà intrinseca della natura umana: se no, come potrebbe sostenere che tutte le ingiustizie e tutte le sopraffazioni derivano da una mancanza di libertà, e mai da un suo eccesso? Dunque, egli è anche un laicista: che il bene e il male siano concetti umani, elaborati dall’uomo mediante il patto sociale, è, per lui, una verità così evidente, da non aver bisogno di ulteriore dimostrazione.  Ma da ciò consegue anche che il progressista non ha alcun valore permanente sul quale fondarsi: bene e male, giusto e ingiusto, vero e falso, sono idee puramente umane, dunque relative, dunque transitorie: egli applaude oggi quello che aborriva ieri, e quello che odierà domani. L’importante, per lui, è essere sempre contro la tradizione, identificata come il concentrato di tutti i mali: solo che la tradizione, quando viene da lui criticata, sbeffeggiata e vilipesa, è sempre quella di un giorno prima.

Tornando all’esempio precedente, quello di Pasolini: quegli stessi progressisti che oggi strepitano perché il Parlamento vari delle leggi contro l’omofobia e che esigono il riconoscimento del matrimonio fra omosessuali, con tanto di legittimazione della loro potestà genitoriale, sono, in gran parte, esattamente gli stessi che trenta o quarant’anni fa biasimavano lo scrittore friulano, non per le sue convinzioni, ma per la sua diversità sessuale. Eppure non si accorgono della contraddizione; e, se gliela si facesse notare, probabilmente risponderebbero che è logico che sia così, poiché non esistono verità eterne, la verità è sempre “politica”, nel senso che essa è commisurata alle circostanze storico-sociali. Come avrebbe detto il buon Taine, altro padre nobile del progressismo: la razza, l’ambiente, il momento storico, et voilà, il gioco è fatto, noi possiamo addirittura stabilire in anticipo quel che sarà di Tizio, di Caio, della società intera.

Nessuna sorpresa: sono fatti così. Ieri inneggiavano a Stalin e plaudivano all’invasione sovietica dell’Ungheria; oggi inneggiano a Obama e lo esortano alla crociata “umanitaria” contro la Siria. Sono proprio gli stessi, fisicamente gli stessi: non ravveduti, non contriti, tanto meno pentiti: si credono d’essere oggi, come ieri, gli alfieri del progresso, della libertà e della democrazia (solo che allora chiamavano quest’ultima “democrazia popolare”, strana espressione che voleva dire l’esatto contrario del concetto “classico” di democrazia, ossia il totalitarismo più smaccato). Non conoscono rossore, non conoscono pudore; non sanno cosa sia la vergogna. Hanno la verità in tasca, sempre, perché marciano al passo con il Progresso: e chi potrebbe mai contraddirli?

Un caso che potremmo definire classico di questa contorta psicologia è offerto dalla sgradevole e impietosa disputa che oppose due poeti tedeschi nei primi anni dell’Ottocento, Heinrich Heine (1797-1856) e August von Platen (1796-1835); disputa che degenerò quasi subito dall’ambito strettamente letterario, poiché Heine si era sentito indirettamente attaccato da Platen, a quello della livida malignità e della perfida insinuazione, allorché il primo accusò il secondo, nell’opera «Bagni di Lucca» (1828), di essere un omosessuale, cioè, secondo la morale corrente dell’epoca, un “pervertito”.

I colpi bassi, è giusto ricordarlo, furono scambiati da ambo le parti; e Platen non si trattenne dal colpire l’avversario nel punto che credeva più sensibile, accusandolo di essere un “ebreo” (cosa peraltro vera, anche se nel 1825 egli si era convertito al protestantesimo, mutando il nome di battesimo, Harry, nel più “ariano” Heinrich); ma quelli che sferrò quest’ultimo ebbero una diabolica intenzionalità maligna. Egli colpì là dove sapeva di poter macchiare per sempre l’onore e la reputazione del rivale, e lo fece con la lama più affilata possibile, intinta nel veleno del sarcasmo; tanto che la morte di Platen è, quasi certamente, da porre in relazione con quelle accuse e con quell’onta - anche se la causa ufficiale fu un’epidemia di colera contratta in Italia -: cosa che già all’epoca erano in molti a pensare. E il marchio, da allora, è rimasto definitivamente: è noto che Thomas Mann, nello scrivere il suo celebre romanzo breve «La morte a Venezia», ha inteso d
escrivere, oltre che se stesso, anche August von Platen, mostrando la sua “fuga” in Italia come originata dal bisogno di soddisfare i suoi impulsi omosessuali.

Heine, insomma, adoperò contro Platen la stessa arma che, più tardi, avrebbero adoperato tanti benpensanti della società vittoriana contro Oscar Wilde: il disprezzo, la squalificazione morale non per qualcosa che il suo avversario aveva fatto, ma per il suo modo di essere, tout-court, per la sua intrinseca natura, che lo portava ad essere attratto dai ragazzi e non dalle donne. Eppure, anche quei benpensanti inglesi erano, in gran parte, o si consideravano, dei “progressisti”: avevano applaudito le opere teatrali e letterarie di Wilde, se lo erano conteso nei salotti, lo avevano circondato di ammirazione, proprio per le sue idee e i suoi atteggiamenti spregiudicati. Ma c’era un limite ben preciso che la loro ipocrisia e la loro doppia morale non consentiva che fosse oltrepassato: e quando il celebre poeta, il beniamino della colta e brillante società vittoriana, l’ebbe varcato - peraltro senza rendersene conto e cacciandosi con immensa ingenuità in quel pasticcio che lo avrebbe stritolato e ne avrebbe perfino decretato la morte civile -, non esitarono nemmeno un istante prima di abbandonarlo al suo ignominioso destino.

La questione è stata ben sintetizzata da Ove Brusendorff e Paul Henningsen nel saggio «Storia dell’erotismo» (titolo originale: «An history of eroticism», Thaning e Appels», 1963; traduzione dal’inglese di Franco Rayner, Torino, Dellavalle Editore, 1971, vol. 2, pp. 151-8 passim):
 
Coloro che hanno letto le sarcastiche e satiriche accuse di Heinrich Heine in “Bädern von Lucca” contro il fratello poeta Conte August von Platen Hallermünde come basse maldicenze o cattive manifestazioni di una immaginazione perversa, devono rivedere le loro opinioni, poiché dopo che siamo venuti a conoscenza dei “Diari di Platen”, che parlano della vita più intima del poeta, noi vi scopriamo invece la tragedia e la tortura di un essere umano che è perfettamente consapevole di provare amore per il proprio sesso. […]
Della sensibilità di Platen, che vibrava in tutte le espressioni della sua vita, Heine naturalmente non aveva la più piccola nozione, quando così spietatamente lo rappresentò come “un gentleman depravato che si dimena in prosodia. La conoscenza di Heine circa la natura di Platen si basava su maldicenze e pettegolezzi, infatti i due non si incontrarono mai.»

Heine scrive, e scrive con il talento spiacevole di un polemico eccellente, della vita di Platen in Monaco dove egli veniva elogiato in particolare modo per la sua gentilezza verso i giovani, con i quali egli era la modestia personificata;  come con tal gentilezza e modestia riusciva a ottenere di andarli a trovare in camera dove naturalmente le sue buone e gentili maniere potevano creare seri problemi. Maliziosamente Heine citò una delle magnifiche elegie di Platen, che nel suo contesto aveva un effetto sconcertante. […]

È difficile per l’uomo moderno capire perché Heine usò tante armi contro Platen, e perché gli dimostrò una tale ostilità. […]
A quel tempo [quando iniziò l’affaire, nel 1827] Heine era in Italia, dove aveva incontrato una intima conoscenza di Platen, lo storico d’arte Freiherr von Rumohr, il quale gli aveva detto che doveva aspettarsi qualcosa di più da parte di Platen. Quando Heine ritornò ad Amburgo nel novembre del 1829, egli trovò la vendetta di Platen, la commedia “Der romantische Oedipus” che lo colpì nel suo punto più vulnerabile: la sua discendenza ebraica. In questa commedia si potevano leggere espressioni come “l’orgoglio della Sinagoga”, il “seme di Abramo” e “Petrarca della Festa dei Tabernacoli”, ecc. e tutte le più ignominiose frecciate di un furioso nemico. […]

La verità e la consapevolezza di cui noi oggi disponiamo erano sconosciute al “normale” Heine, quando egli scagliò le sue frecce avvelenate contro l’omosessuale Platen.  Nella sua polemica, Heine fece uso dei pregiudizi della sua epoca, e con questi pensò di poter colpire il suo avversario con uno strale mortale; nessuno avrebbe potuto pensare che un giorno il tempo avrebbe agito in modo tale da considerare Platen nel giusto e condannare i metodi di Heine. È anche certo che Heine è stato così grande da comprendere e valutare la natura umana come pura e semplice espressione dell’individualità, ma in lui vi era così tanto di inumano da voler esporre il fratello poeta alla condanna dei Filistei.  […]
Heine non volle solo colpire Platen nella sua persona, ma anche nella sua arte.  

I suoi severi giudizi non erano realmente sinceri. Egli era ben consapevole del grande talento di Platen, ed il poeta Kertbeny, che sessualmente era come Platen, ci racconta di una conversazione che egli ebbe con Heine a Parigi di fronte al caminetto:
“Dimmi francamente – chiede Kertbeny – pensi veramente che Platen non sia un poeta? Lo sai che egli morì a causa delle tue satire?”
“Sì certamente – rispose Heine – io lo considero un poeta, e anche significativo, sebbene talvolta freddo; egli era un poeta nel senso greco, quando cioè la poesia non consisteva nel temperamento, ma nella conoscenza musicale intrinseca,  nel senso musicale della musica”.
“Perché lo hai colpito con tanto cinismo?”
“Sai – rispose Heine sorridendo come un fauno – è stata la prima volta che io mi feci avanti, e la mia natura spirituale è fatta in tal modo che necessariamente doveva causare un grido da parte dell’opposizione. Percepii cioè in anticipo, che tutti i piccoli mascalzoni sarebbero corsi da me. Io volevo evitare questo, quindi mi misurai con il più grande di loro, lo scorticai come Apollo fece con Marsia, trascinando questo gigante con lui nella scena. Ciò fa parte delle tattiche delle campagne letterarie. E quell’uomo era senz’altro mezzo matto: l’ho visto con i miei occhi passeggiare per Monaco con in capo una corona d’alloro. Inoltre – qui Heine fece una pausa di qualche istante – era terribilmente arrogante. Glielo avevo detto alcune volte, non doveva chiamarmi ebreo; io non lo sono, anche nel senso che egli intendeva. Ma egli, caparbio come Don Chisciotte, insistette e allora lo chiamai.., e alla fine egli si colpì da solo come uno scorpione.”
Abbiamo provato a far luce, per essere giusti. Due persone sensibili hanno combattuto ed hanno colpito, ma una di loro è morta per le ferite. Le loro armi erano ugualmente disgustose e primitive…»
 
Si osservi quel sorriso da fauno, nella conversazione davanti al caminetto, a distanza di anni dai fatti; quella totale mancanza di rimorso, di ritegno, d’imbarazzo; quel sadico compiacersi di aver freddamente, scientificamente “scorticato” il proprio avversario, scelto apposta per la propria grandezza artistica; quella sconcertante facilità nel costruirsi alibi auto-assolutori; quel cinismo senza uguali nel considerare tutta la faccenda come una campagna letteraria promozionale di se stesso e della propria immagine.

Miseria e mancanza di umanità del progressismo.

E oggi che costoro intonano la canzone opposta, e si sbracciano e si sperticano per reclamare i “diritti” degli omosessuali, primo fra tutti il matrimonio e l’adozione dei bambini, non è che agiscano in base a dei veri ragionamenti (il che presupporrebbe, comunque, una qualche forma di autocritica): a muoverli è sempre l’eterna, inesausta, compulsiva vanità di essere “all’avanguardia”, non importa verso dove, purché sia in spregio alla odiata tradizione, ai suoi valori, alle sue detestate certezze…

Francesco Lamendola - http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=50420


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mincuo
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Lamendola è uno dei pochi colti rimasti, in mezzo a buzzurri, mascalzoni e analfabeti di ogni tipo. Non lo vedo molto bene infatti. E' già tanto che riesca a scrivere ancora qualcosa con questa canea urlante di bifolchi decerebrati che è diventata la società odierna.


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Simulacres
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Lamendola è uno dei pochi colti rimasti, in mezzo a buzzurri, mascalzoni e analfabeti di ogni tipo. Non lo vedo molto bene infatti. E' già tanto che riesca a scrivere ancora qualcosa con questa canea urlante di bifolchi decerebrati che è diventata la società odierna.

Sì, si fa sempre una gran fatica a ritrovare uno spirito critico raziocinante in fondo all'incessante bailamme fumoso e osceno sbraitare della odierna società; retaggio di quella stessa "cultura del progresso" che in tempi non troppo lontani deplorava ossessivamente il matrimonio in quanto il frutto di una mentalità bigotta e borghese, mentre oggi... (sic!).

A proposito... a sostegno della tesi di Lamendola, Baudelaire citando Heine in un suo scritto critico sulla "Scuola Pagana", disse:

"E poichè ho fatto il nome di questo celebre colpevole, tanto vale che vi racconti subito un tratto di lui che mi mette fuori di me ogni volta che ci penso. In uno dei suoi libri, Ernrico Heine racconta che, passeggiando tra montagne selvaggie, sull'orlo di precipizi terribili, in seno a un caos di ghiacciai e di nevi, incontrò uno di quei monaci che, accompagnati da un cane, vanno alla ricerca dei viaggiatori sperduti e agonizzanti. Pochi istanti prima, l'autore si era abbandonato a impeti di odio volterriano contro i bigotti. Per un poco osserva l'uomo-umanità intento al suo santo lavoro; un combattimento si accende nella sua anima orgogliosa, e infine dopo una dolorosa esitazione, si rassegna e prende una bella risoluzione: "Ebbene! no! non scriverò nulla contro quest'uomo!"

Quale generosità! I piedi infilati in buone pantofole, vicino al fuoco circondato dalle adulazioni di una società voluttuosa, il signor uomo celebre giura di non diffamare un povero diavolo di monaco, il quale ignorerà sempre il suo nome e le sua bestemmie, e che salverebbe anche lui, se ne capitasse l'occasione.

No, Voltaire non avrebbe mai scritto una simile turpitudine. Voltaire aveva troppo gusto; d'altronde, era un uomo d'azione, e amava gli uomini."


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