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il calcio non è un lavoro


paolodegregorio
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- il calcio non è un lavoro -
di Paolo De Gregorio, 26 giugno 2014

Nelle fantasiose e improbabili ricette per evitare che in futuro la nostra Nazionale di calcio faccia meschine figure, almeno per quello che ne so io, non c’è nulla che possa davvero risolvere il problema.
Come al solito è impossibile mischiare etica e denaro, soprattutto quando il denaro è un valore assoluto e la maglia, anche delle squadre in cui si gioca, può cambiare per esigenze di mercato, e questa ideologia del mercato di carne da pallone si estende anche alla propria nazionale.

Pretendere amor di patria da miliardari bolliti dai troppi impegni agonistici e dagli stuoli di belle figheire che li circondano è veramente da citrulli, ed è indecente mettere in relazione i successi del calcio e l’economia, come hanno fatto alcuni cervelloni dopo la vittoria con l’Inghilterra, che vedevano un nesso tra un successo pallonaro ed una “ripresa” della nostra economia.
Sorprende che queste scemenze vengano pubblicate, a meno che non lo si faccia per confondere i sudditi e fare sembrare che l’origine della crisi che ci stritola sia misteriosa e che non ci siano nomi, cognomi e partiti che ce l’hanno sulla coscienza.

Per tornare al gioco del calcio il ragionamento è semplice: il calcio deve tornare ad essere uno SPORT, e non un lavoro gestito da società per azioni.
Le società sportive devono tornare a gestire il calcio, partendo dal divieto di ingaggiare giocatori stranieri e costruendo le squadre esclusivamente con proprie scuole di calcio, i cui giocatori devono sapere fin dall’inizio che non possono essere né comprati né venduti ad altre squadre,

Le attuali figure dei presidenti miliardari che usano il calcio per far affari e politica verrebbero a decadere, sostituiti da appassionati ed ex-giocatori, con una forte democrazia interna per ogni carica elettiva, con la gestione e la proprietà degli stadi che devono diventare impianti vivi tutti i giorni, autogestiti, e indipendenti economicamente.
Mi si dirà che sono il solito acchiappanuvole, ma sfido chiunque a trovare una soluzione più semplice ed efficace per evitare la violenza delle opposte tifoserie che arrivano agli estremi di un ragazzo come Ciro Esposito ucciso dall’odio tra tifosi: le trasferte vanno vietate, e negli stadi entrano devono entrare solo i residenti e gli abbonati, La domenica in cui la squadra è in trasferta i tifosi possono assistere alla partita nel proprio stadio, su maxi-schermi, con famiglie, fidanzate e panini.

Oggi il calcio è pura ideologia, nel senso che trasmette nel profondo, soprattutto ai giovani, disvalori quali la dittatura del denaro, la sudditanza al principe miliardario, l’illusione di vincere, la violenza come reazione alla sconfitta, l’odio per gli avversari. Non capisco come questa Università del male la si possa chiamare Sport.
Paolo De Gregorio


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vic
 vic
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E' un errore che si fa spesso quello di confondere l'attivita' sportiva praticata da chiunque con lo spettacolo sportivo divulgato dai media elettronici. La prima va bene chiamarla sport, il secondo andrebbe chiamato show business sportivo, assolutamente mai da abbreviare per comodita' in sport.

Le regole dello show business le abbiamo sotto gli occhi. Ci ruotano attorno somme ingenti. Si pensi solo all'industria cinematografica di Hollywood. A quella musicale. Ma anche lo show business sportivo non scherza: mondiali di calcio, europei, coppe continentali, olimpiadi estive, invernali, motociclismo, automobilismo, tennis, ciclismo, ecc. ecc. E' show business.

Il discorso se sta ancora in piedi l'idea di nazionale va suddiviso per settori. Per esempio nel tennis, gli atleti da tempo preferiscono concentrarsi sui grandi slam e meno sulla coppa Davis. Nel ciclismo la nozione di squadra nazionale c'e' ma e' piuttosto in declino, vige una specie di compromesso, in realta' contano le squadre private. L'idea di nazionale ciclistica e' piuttosto di tipo organizzativo, si organizzano le boucles famose: il tour, il giro, la vuelta.

Nel calcio l'idea di squadra nazionale dovrebbe valorizzare la scuola calcistica di ogni paese: un paese, uno stile di gioco. Centra sempre meno la nazionalita' radicata da generazioni del giocatore, cio' per via della globalizzazione.

Da tempo nessuno si stupisce se la Francia sia piena di giocatori di evidente origine africana. Sono pur sempre di scuola calcistica francese. In Svizzera il dibattito e' sempre acceso se tutti questi immigrati di seconda generazione siano veri cittadini o no. Fatto e' che calcisticamente sono cresciuti in Svizzera. Mehmedi, Shakiri e altri sono stati forgiati calcisticamente nella under-17 e poi nella under-21, oltre che nei club calcistici locali.
Molti di loro sono piu' che grati alla Svizzera per avergli offerto una professione ed un palcoscenico che gli permette di vivere una vita agiata, impensabile nel paese d'origine dei genitori. Behrami, Mehmedi, Dzjemaili, intervistati su questo argomento esprimono una grande gratitudine al paese d'adozione. Cosi' pure i loro genitori. Dunque per tanti attori di questo show business sportivo, il calcio professionistico e' una forma di riscatto sociale. Anche per i giocatori africani, direi. E' una delle rare professioni per cui un africano viene ingaggiato per quel che vale professionalmente e retribuito come si deve.

Tornare indietro e' praticamente impossibile, fin che imperversa la globalizzazione. D'altronde un limite va pur messo, se non altro per dare una possibilita' ai giovani locali di farsi le ossa. In Spagna il movimento calcistico giovanile e' curato dagli stessi club, che infatti sfornano a getto continuo nuove generazioni di talenti.

C'e' molto lavoro da fare in questo senso in Africa, dove la disorganizzazione e' sovrana.

Il discorso di favorire i talenti locali contiene molto buon senso. Ma va visto principalmente per le leghe giovanili o minori. La Svizzera per esempio investe moltissimi dei soldi ricavati dalle competizioni internazionali nel movimento giovanile. I risultati si vedono soprattutto a livello di squadre under-17 e under-21. Poi subentra la logica del business ed i giocatori migliori se ne vanno. In fondo e' logico. Fanno cosi' anche i musicisti, gli ingegneri, gli scienziati e gli architetti.

Piu' difficile e' tener separati il mondo delllo show business e quello del riciclaggio di denaro. Non posso spiegarmi altrimenti certi investimenti apparentemente assurdi in club calcistici di periferia da parte di investitori da chissa' dove.

Il fatto e' che c'e' un divario retributivo troppo grande fra chi ha sfondato e chi no. La fortuna gioca un suo ruolo, non solo il talento.

Io sarei per difendere l'idea di scuola calcistica di un paese. Non mi disturberebbe vedere un coreano giocare nel Messico, purche' calcisticamente si sia formato li'.

Comunque e' pure inutile illudersi troppo: la FIFA e' evidentemente dedita al business, al di la' della promozione del gioco del calcio nel mondo. Poi ogni paese ha i dirigenti calcistici che la cultura locale produce. In un humus di corruttele ci saranno dirigenti corrotti, va da se'. Tanto piu' se girano tanti soldi. Ed e' qui che i due mondi del calcio e della politica hanno radici comuni: la mentalita' della classe detta dirigente di un paese si rispecchia nel mondo del calcio (o del ciclismo) e viceversa.

Per quel che riguarda la rinascita della nazionale italiana, una vera rinascita puo' venire solo dalla riorganizzazione del movimento giovanile, fatta in modo serio, con mentalita' seria. Poi, visto l'enorme bacino, i talenti vengon fuori automaticamente. Ma i talenti migliori e' meglio che si facciano le ossa anche all'estero, raggiunta l'eta' giusta per fare questo passo. Meglio non spingerli prematuramente e precipitare le scelte, attirati da vaghe sirene.

Fa bene pure rimanere consapevoli che il mondo dello show business calcistico confina pericolosamente con quello delle mafie, tant'e' che ci sono gia' scappati dei morti ammazzati. Sempre li' si torna: alla mentalita' preponderante in un paese.


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Primadellesabbie
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Anche in questo caso mi sentirei di proporre, come ho già fatto in home per un articolo di Fini, la visione del vecchio film 'Oltre il giardino' (Being There) in cui il protagonista (Peter Sellers) cerca di "spegnere" gli episodi sgradevoli, che gli capitavano per la strada, cercando di cambiare canale (alla realtà) per mezzo del telecomando che portava con sé:

http://www.youtube.com/watch?v=dqpvvvcGtY0


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