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Il razzismo è un cattivo affare


Tao
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Vorrei prendere spunto dall’omicidio a Firenze dei due senegalesi, Samb Modou e Diop Mor, da parte di un estremista di destra, per tentare un ragionamento puramente economico. Contro la pretesa razzista che l’immigrazione sia una congiura delle elite politiche ed economiche del nostro paese contro la massa degli italiani meno abbienti, che si vedono espropriati a un tempo della propria identità italiana e dalle risorse captate da questi indesiderati nuovi arrivati, vorrei piuttosto sostenere che il razzismo è per noi un pessimo affare.

Non solleverò la questione di quanto gli immigrati siano pienamente integrati nel tessuto economico del paese e contribuiscano a produrre ricchezza; dato per altro innegabile. Voglio piuttosto richiamare l’attenzione su quanto poco ci conviene essere percepiti all’estero come razzisti, cosa che da anni avviene in maniera crescente smentendo le virtù di tolleranza e accoglienza che un tempo ci venivano attribuite.

Occorre in primo luogo mettere in luce la particolare matrice della violenza omicida di Gianluca Casseri, ossia un razzismo senza sfumature, direttamente collegato a mitologie di superiorità della razza bianca e che, tra tutti i possibili bersagli, sceglie proprio quello più simbolicamente in contrasto sul dato del colore della pelle: l’africano subsahariano di pelle scura, o come lui li chiamava: i negri. Poco importa che probabilmente i senegalesi siano la comunità di immigrati che nel nostro paese meno ha fatto parlare di sé per attriti con le consuetudini locali o per aver alimentato una marginalità criminale.

Ipotizziamo ora che questo immaginario da Ku Klux Klan diventi un elemento dominante delle subculture del nostro paese, emergendo sempre più nella stampa italiana e internazionale come elemento caratteristico del nostro paese, così come i nomi di Heider e Fortuym hanno identificato per un periodo di tempo, anche all’estero, una certa Austria e una certa Olanda. E qui rivolgo un ammonimento a rigettare il messaggio consolatorio diffuso dai media il giorno successivo alla strage di Firenze secondo cui sui siti di estrema destra si inneggiava a Casseri come a un eroe. Io ho trovato un’inquietante frequenza di atteggiamenti complici e giustificazionisti tra i commentatori del blog del Fatto Quotidiano! Il razzismo è molto più diffuso di quanto ci piaccia ammettere.

Questa settimana Barbara Spinelli ha proposto su Repubblica una tesi sulla quale non mi trovo d’accordo. Secondo lei in questo momento le più forti spinte divergenti, in senso nazionalista e particolarista, nel progetto europeo non sono quelle provenienti da Berlino ma quelle provenienti da Parigi. Non so bene a cosa si riferisca, dato che la Francia non ha mai abbandonato la vecchia idea gollista di un’Europa della patrie, pienamente sovrane e pienamente concordi nel riconoscere il primato francese. Non c’è nulla negli atteggiamenti di Sarkozy o di Hollande che segni una novità rispetto a questa filosofia, e tutti i passi in avanti sulla via dell’integrazione europea si sono compiuti sul basso continuo di questa imperitura idea di grandeur della Francia.

Sarebbe semmai da chiedersi se non sia un po’ futile voler misurare il rispettivo tasso di europeismo di Francia e Germania dimenticando che nessuno dei due paesi in realtà lascia che il progetto europeo contrasti con una visione di interessi nazionali considerati assai più irrinunciabili di qualunque impegno verso i partner dell’UE o dell’Euro. La Francia si è gettata con entusiasmo nell’avventura libica per scalzare in nostri interessi in quel paese, e per farlo non ha esitato a rispolverare la politica delle cannoniere dei tempi d’oro dell’imperialismo europeo. La Germania considera l’UE e la moneta unica solo come una vantaggiosa e funzionale base commerciale per il suo espansionismo economico. Occorre essere degli illusi per credere che per i tedeschi i buoni rapporti con l’Italia possano prevalere – in nome dell’europeismo — sul loro partenariato strategico con la Russia in materia energetica, o con la joint-venture globale che stanno costruendo con la Cina.

Siamo noi italiani a credere che l’Europa sia il contenitore esaustivo del nostro destino e delle nostre vocazioni, e ciò con un’ingenuità piuttosto pericolosa. Questo dato è tanto più evidente quanto più si pone attenzione al carattere puramente declamatorio che il programma europeista presenta nei discorsi della nostra classe politica, poco consapevole di quanto queste idee suonino sempre più come vuota retorica nelle orecchie degli italiani.

Non sto proponendo con ciò un allentamento dell’impegno europeista dell’Italia, dico solo che al pari di Francia e Germania dovremmo definire le nostre politiche verso l’Europa per deduzione da una chiara messa a fuoco del nostro interesse nazionale. Che vi sia un interesse europeo nel quale gli interessi nazionali si dissolvono è pura illusione, basti esaminare con attenzione i valori portanti delle politiche di Francia e Germania fuori del prisma deformante dei brindisi ufficiali alla salute dell’Europa. Se l’Europa e la moneta unica sapranno costituirsi secondo una geometria rispettosa di queste diverse geopolitiche tanto meglio, altrimenti è meglio dare un taglio a tutto, perché l’alternativa sarebbe quella di un conglomerato di paesi che si dividono in padroni e subalterni (e anche così, di recente non ha funzionato troppo bene).

Certo, quando si parla dell’interesse nazionale italiano e delle sue vocazioni geopolitiche si tende a dimenticare che il nostro paese ha una fede europeista che molto deve alla necessità del “vincolo estero”, ossia che riusciamo a fare un minimo di ordine in casa nostra solo quando “ce lo chiede l’Europa”. Un paese che ha difficoltà di tenere i conti in equilibrio senza supervisione esterna, e che permette alla lobby dei tassisti e dei farmacisti di dettare le politiche economiche del commercio interno forse non può permettersi alcuna visione strategica del proprio interesse nazionale, e tantomeno di perseguirla con coerenza. Ma giacché per noi non è possibile alcun discorso sul futuro se non diamo per scontata una certa capacità di maturazione, considereremo come assioma la capacità dell’Italia di immaginare e dar forma alle politiche di cui abbiamo bisogno.

Penso che sia a tutti chiaro dov’è il fulcro degli interessi dell’Italia: è il Mediterraneo. Lo è perché è tutt’ora uno degli snodi commerciali a più alta densità del pianeta, ma soprattutto lo è per gli incoraggianti tassi di crescita sulla sponda sud e orientale del bacino. Il nostro interesse nazionale consiste nell’entrare profondamente in risonanza con tutti gli eventi che si verificano dalla Turchia al Marocco.

Non siamo certo i soli a pensarla così. La Francia si ricorda di essere paese mediterraneo ogni volta che perde punti nel gioco di rivalità che la oppone alla Germania, e cioè abbastanza spesso. La Spagna è attentissima a quanto accade in quest’area. La Turchia è senza questione l’astro nascente dell’area. E la Gran Bretagna, pur di avere entrature per la BP in Libia, si mostrò addirittura disposta a smantellare l’enorme impostura della strage di Lockerbie montata a suo tempo su istruzione degli USA.

Tra questi paesi vi sono possibili partner e inevitabili rivali. La Turchia, che non si dimentica il sostegno che le abbiamo offerto nell’iter della richiesta di ammissione all’UE, ci guarda ancora con occhio benigno anche ora che la sua economia ha ingranato la quarta senza l’UE. Inoltre, il suo passato ottomano è ancora fonte di diffidenza nell’area araba, e una solida partnership con l’Italia potrebbe essere molto utile alla sua immagine. La Spagna, se non tornerà un altro Aznar ansioso di avere uno sgabello al tavolo dell’imperialismo nord atlantico, comprende fin troppo bene la necessità che i paesi del sud dell’UE costruiscano un percorso comune.

La Francia e l’Inghilterra le abbiamo viste all’opera in Libia (teatro bellico nel quale siamo stati trascinati controvoglia). Non solo ci guardano dall’alto in basso (come uno scomodo intruso da espellere), ma non vogliono rinunciare a un’influenza su quei paesi basata su un controllo esterno di tipo neocoloniale. Ma in un’area resa inquieta anche da un desiderio di protagonismo costruttivo (emerso nella primavera araba) la nostra abilità nel soft power e la buona opinione di cui godiamo laggiù potrebbe mostrarsi uno strumento assai più penetrante dell’armamentario anglo-francese basato sull’ingerenza. A patto però, di non lasciarci incastrare nella restaurazione a regia saudita. E, soprattutto, a patto che una nostra sincera vocazione per la difesa dei diritti umani e della democrazia non divenga parte della strumentalizzazione volta a emarginare i soggetti geopoliticamente scomodi (dai movimenti islamisti, a Hetzoballah, a Hamas). Pensate cosa vorrebbe dire per le genti della sponda sud-sudest del Mediterraneo se l’Italia cominciasse a dire che le repressioni vanno condannate sia quando hanno luogo in Siria sia quando hanno luogo nel Bahrein. O se dicesse che i Fratelli Musulmani possono non essere il nostro candidato ideale in Egitto, ma che difenderemmo il loro diritto di governare se vincessero le elezioni, e che se vorranno avere buone relazioni con noi saremo partner corretti e leali. Sono affermazioni di franchezza democratica di cui l’occidente è estremamente avaro in quell’area, e che schiuderebbero innumerevoli porte a un partenariato italo-turco (e magari spagnolo). E non sto parlando solo delle porte dell’affare petrolifero, ma anche di quelle di un’economia regionale che comincia a muoversi a ritmi interessanti.

Potremmo sviluppare queste politiche come Italia, o come estrema propaggine mediterranea dell’Europa, non fa differenza (anche se la gelosa gestione in chiave unicamente nazionale da parte della Germania del gasdotto Nord Stream ci dice che l’area del Baltico è faccenda tedesca, e non europea). Ma la questione essenziale – e con questo ci ricolleghiamo al principio – e che la nostra intraprendenza mediterranea ha bisogno di un forte soft power che non può esistere in quell’area se aumenta la percezione del nostro paese come un paese razzista. Chi crede che mettere il gesto di Casseri in prospettiva con le politiche Mediterranee dell’Italia sia una forzatura rifletta a questo: siamo il paese europeo con le normative finanziarie più arretrate sul terreno della finanza islamica. Gli immigrati di religione musulmana che in Italia volessero acquistare sukuk (titoli di credito conformi alla Shariah) non potrebbero farlo perché si tratta di strumenti non regolamentati, mentre Londra è già la più grande piazza finanziaria del mondo in asset finanziari islamici.

Se sembra che la mancanza di una finanza islamica in Italia sia faccenda di poco conto, considerati i piccoli volumi di cui si discute, è perché si perde di vista il quadro più generale, e cioè che c’è una relazione crescente tra finanzia islamica e fondi sovrani mediorientali (nei quali transitano enormi quantità di petrodollari). Non possiamo dare un serio seguito alla nostra vocazione mediterranea se non facciamo cospicui investimenti infrastrutturali nel mezzogiorno d’Italia (senza dimenticare Genova e Trieste), che facciano di quell’area il principale hub logistico del Mediterraneo. I fondi sovrani mediorientali sarebbero probabilmente lieti di venire a far qui quegli investimenti se trovassero un clima culturale e normativo favorevole, che non crei attriti con il peso crescente che la finanza islamica va assumendo.

Aprirci alla finanza islamica, dunque. Ma cerchiamo di essere realisti. Un paio di anni fa in Francia la destra ha aperto le polemiche contro l’eccessiva presenza di gente di colore nella nazionale di calcio; c’è un limite alla concentrazione di melanina in qualunque team che abbia la pretesa di rappresentare la Francia nel mondo. Un brutto segno, di sicuro. Ma noi abbiamo Mario Balotelli che appena tocca la palla viene fischiato anche nelle partite di campionato. Riuscite a immaginare altri cinque o sei Balotelli nella nazionale di calcio italiana? Io no. Semmai qui abbiamo gli ultras che nei giorni feriali, lontano dalle scadenze del calendario della serie A vanno ad appiccare incendi nei campi Rom. Pensate che resistenze si attiverebbero in presenza di un testo di legge che regolamenti le attività di finanza islamica anche nel nostro paese, cancellando il ritardo che abbiamo con il resto delle legislazioni europee.

Non saprei dire quanto fosse razzista l’Italia ai tempi in cui l’ENI di Enrico Mattei siglava intese di enorme portata in tutto il Medioriente e nel terzo mondo; non mi illuderei troppo sulle benevole memorie tramandate attraverso le generazioni che ci disegnano come un popolo accogliente e tollerante. A quei tempi gli operai che dal sud si trasferivano al nord per lavoro trovavano a Torino cartelli con su scritto “Non si affitta ai meridionali”. Ma quelli non erano i tempi della comunicazione globale, e le elite illuminate – come di certo era Mattei – non avevano bisogno di essere in sintonia con i sentimenti profondi della nazione per andare a fare affari nel mondo. Oggi non è più così. La notizia della strage razzista di Firenze è stata subito oggetto di cronaca e approfondimenti nella stampa di tutta l’Africa, al nord e al sud. E’ un evento che lascerà una traccia. In un’epoca in cui le Pubbliche Relazioni sono diventate una scienza esatta non possiamo credere che il nostro biglietto da visita in quelle regioni non si sia macchiato.

Gianluca Bifolchi
Fonte: http://subecumene.wordpress.com/
16.12.2011


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